Le
autorità cinesi ricominciano a ordinare vescovi illegittimi.
Ma questa volta il Vaticano risponde duro. di Sandro Magister- www.chiesa.espressonline.it
... Di questa politica vaticana remisssiva nei confronti della Cina un esponente illustre è stato il cardinale Roger Etchegaray, presidente emerito del pontificio consiglio della giustizia e della pace. Curiosamente, Etchegaray ha pubblicato un libro di memorie dei suoi viaggi in Cina e dei suoi contatti con le autorità cinesi nel marzo del 2005, proprio quando questa politica “realista” era alla fine. Raccontando uno dei suoi viaggi, compiuto nel 2000 dopo la contestata beatificazione dei 120 martiri cinesi, Etchegaray scrisse d’aver subìto due “requisitorie” consecutive, per complessive quattro ore e mezza, da parte di due dirigenti “ad altissimo livello”. Ma lui tacque. E di ritorno a Roma, in un’intervista alla Radio Vaticana, piuttosto definì “molto spiacevole la concomitanza della beatificazione con la festa nazionale del popolo cinese, che ferisce profondamente una sensibilità a fior di pelle dopo tutte le umiliazioni subite da parte delle potenze occidentali”. A Roma non mancano le notizie sulle oppressioni di cui sono vittime i cattolici cinesi. Ma fino a qualche anno fa, di regola, il Vaticano non denunciava pubblicamente tali fatti. L’allora direttore di “Fides”, l’agenzia della congregazione vaticana per la propagazione della fede, padre Bernardo Cervellera, accusato di dare ad essi troppa evidenza, fu rimosso nel 2002 dal suo incarico per volere della segreteria di stato. I due passi che le autorità cinesi reclamano sistematicamente dal Vaticano sono la cessazione dei rapporti diplomatici con Taiwan e la non ingerenza “negli affari interni cinesi, inclusi quelli religiosi”. Tra questi “affari interni” a sè riservati il regime include la nomina dei vescovi. Sul primo punto la segreteria di stato vaticana ha detto in più occasioni – per bocca dello stesso cardinale Angelo Sodano – d’essere pronta a trasferire la sua nunziatura da Taipei a Pechino “non domani, ma stasera stessa”. Quanto alla nomina dei vescovi – almeno fino a quando a occuparsi della Cina è stato monsignor Claudio Maria Celli, oggi segretario dell’amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica – l’esempio a cui si guardava in Vaticano era quello del Vietnam, dove dal 1996, pur in assenza di relazioni diplomatiche, la Santa Sede propone per ogni nomina all’episcopato tre possibili candidati e il governo ha il diritto di scegliere fra i tre quello che ritiene più docile. Ma di entrambe queste soluzioni – specie se slegate tra loro – i cattolici cinesi hanno sempre diffidato. E una delle voci più critiche è da tempo quella del vescovo di Hong Kong, Giuseppe Zen Zekiun. Il vescovo che Benedetto XVI ha fatto cardinale. In ogni caso, da un paio d’anni e fino a pochi giorni fa – e di nuovo il 7 maggio con un’altra ordinazione a Shenyang – i nuovi vescovi consacrati in Cina sono stati insediati con la doppia approvazione di fatto della Chiesa di Roma e delle autorità politiche cinesi. Nel frattempo, la Santa Sede ha man mano approvato la quasi totalità dei vescovi in precedenza nominati dal solo regime, e ha spinto all’unificazione i due tronconi della Chiesa cinese: quella ufficiale, l’unica riconosciuta dal governo, e quella “sotterranea”, priva di questo riconoscimento. Si è riscontrato che il consenso dei fedeli attorno ai vescovi, anche ufficiali, tanto più si rafforza quanto più è risaputa la loro unione col papa di Roma. Nell’ottobre del 2005 Benedetto XVI diede un forte segno in questa direzione: invitando al sinodo mondiale che si teneva in Vaticano quattro vescovi della Cina continentale, dei quali tre appartenevano alla Chiesa ufficiale e uno alla Chiesa clandestina. I quattro non ottennero l’autorizzazione a partire, ma il gesto fece comunque molta impressione. Intervenendo il 12 ottobre nel sinodo, il vescovo Zen, di Hong Kong, trasse da tutto ciò queste conseguenze: “Risulta sempre più chiaro che i vescovi cinesi ordinati senza l’approvazione del romano pontefice non vengono accettati né dal clero né dai fedeli. Si spera che davanti a questo ‘sensus Ecclesiae’ il governo di Pechino veda la convenienza di venire a una normalizzazione della situazione, anche se gli elementi ‘conservatori’ interni alla Chiesa ufficiale vi pongono resistenza per ovvii motivi di interesse”. I “conservatori” interni alla Chiesa ufficiale sono ad esempio il vescovo di Pechino Michele Fu Tieshan, non riconosciuto da Roma e inviso alla gran parte dei fedeli, oppure uno dei nuovi consacrati dei giorni scorsi, Giuseppe Ma Yinglin, che è anche membro dell’assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese. Ma vi sono soprattutto i “conservatori” interni al regime comunista, per i quali una normalizzazione dei rapporti tra il Vaticano e la Cina significherebbe la fine. È questo il caso, in particolare, dell’Associazione Patriottica che controlla la Chiesa ufficiale. Il suo vicepresidente, Antonio Liu Bainian, fa di tutto per tenere in vita una Chiesa nazionalista e separata da Roma, ed è specialmente a lui che si deve la recente ripresa delle ordinazioni illegittime. È evidente che questo obiettivo contrasta con il progetto di “società armoniosa” enunciato dal presidente Hu Jintao. La ripresa delle ordinazioni episcopali illegittime, il 30 aprile e il 3 maggio, ha dato temporaneamente un punto di vantaggio ai “conservatori”. E anche l’iniziale silenzio delle autorità vaticane è stato accolto con allarme dal neocardinale Zen, che ha dichiarato in un’intervista: “ Non posso essere io da solo a protestare. Se taciamo, prepariamo il terreno a una resa senza condizioni”. Poche ore dopo, però, il 4 maggio, la Santa Sede ha pubblicato l’energica nota sopra riprodotta. Che sui vescovi illegittimi e sui loro consacranti fa addirittura pendere la scomunica (questo dice il citato can. 1382 del Codice di Diritto Canonico), anche se da questa li risparmia facendo sapere che hanno agito sotto costrizione. Nella nota, la Santa Sede ribadisce che non si ritira dal dialogo con le autorità cinesi. Purché “non vengano ripetuti tali inaccettabili atti di violenta e inammissibile costrizione”. In definitiva la questione Cina, per Benedetto XVI, ha il suo cuore nella libertà religiosa. Anzi, nella libertà tout court. |