“Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo”
Chiesa di popolo o Chiesa di élite?
Il dilemma del convegno ecclesiale di Verona
Il discorso del Papa


La trasmissione della fede e la cura della sua “qualità” al centro di un grande convegno dei cattolici italiani.
Momento clou l’intervento del papa.
La polemica sulla “differenza cristiana”- di Sandro Magister -www.chiesa.espressonline.it

ROMA, 13 ottobre 2006 – ... a Verona ..., si riuniscono gli stati generali della Chiesa italiana, vescovi, preti, fedeli, con un totale di 2700 delegati. È il quarto incontro del genere in trent’anni, dopo Roma nel 1976, Loreto nel 1985 e Palermo nel 1995. Il suo momento clou sarà anche questa volta l’intervento del papa.
Ciò che accadrà a Verona orienterà il percorso della Chiesa italiana nei prossimi anni, ma avrà effetto anche sulla Chiesa mondiale grazie al legame dell’Italia con la sede di Pietro.

Sia il titolo dell’incontro – “Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo” – sia uno dei cinque temi su cui si articolerà la discussione hanno al centro la “tradizione”: ossia l’annuncio, la testimonianza, la trasmissione della fede cristiana alle generazioni di oggi e di domani.
Ma, naturalmente, su come far “tradizione” l’accordo non è unanime, dentro la Chiesa italiana.

Alla linea dominante impersonata da Benedetto XVI, dal suo predecessore Giovanni Paolo II e dal loro cardinale vicario Camillo Ruini, da molti anni numero uno della conferenza episcopale, si contrappone una linea che ha il suo leader nel cardinale Carlo Maria Martini, gesuita ed ex arcivescovo di Milano, oggi in ritiro a Gerusalemme ma non uscito di scena.

L’ultimo manifesto di questa seconda tendenza è un piccolo libro scritto da un monaco, il priore di Bose, Enzo Bianchi, intitolato “La differenza cristiana”. Per Bianchi, la trasmissione della fede “non significa imporre all’Italia e all’Europa il vangelo e l’appartenenza alla chiesa”.
Al contrario: “La via ‘kenotica’, dell’umile abbassamento, percorsa da Cristo è l’esempio che i singoli cristiani e le chiese sono chiamati a seguire [...] Una chiesa che ascolti prima di parlare, che accolga prima di giudicare, che si nutra di creatività piuttosto che di paura, che sappia annunciare profeticamente piuttosto che accusare”.

Un’indiretta risposta a questa tesi è venuta da Benedetto XVI mercoledì 11 ottobre, nell’ultima sua udienza generale prima del convegno di Verona:
“Certo, la via dell'indulgenza e del dialogo, che il Concilio Vaticano II ha felicemente intrapreso, va sicuramente proseguita con ferma costanza. Ma questa via del dialogo, così necessaria, non deve far dimenticare il dovere di ripensare e di evidenziare sempre con altrettanta forza le linee maestre e irrinunciabili della nostra identità cristiana. D'altra parte, occorre avere ben presente che questa nostra identità richiede forza, chiarezza e coraggio davanti alle contraddizioni del mondo in cui viviamo”.

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Trasmettere la fede è dunque anche curare “la qualità della fede” – scrive il documento preparatorio al convegno di Verona – in particolare nell’amministrazione dei sacramenti. Anche su questo punto si confrontano due linee opposte, nella Chiesa italiana.

Il cardinale Ruini le ha esplicitate nel discorso che ha letto il 7 luglio 2006 in Spagna, a Valencia, in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie al quale ha preso parte anche il papa:

“In questi ultimi anni si è cominciato a dedicare specifica attenzione alla catechesi delle famiglie i cui bambini vengono battezzati, non solo per prepararle al battesimo ma anche per accompagnarle dopo il battesimo, in modo che anche quelle tante famiglie che da sole sono assai poco in grado di dare una formazione cristiana ai propri figli siano aiutate a farlo, e i loro bambini, dopo essere stati battezzati, sotto il profilo dell’educazione alla fede non rimangano abbandonati a se stessi. [...] Questo tipo di catechesi consente di offrire un’alternativa alla tentazione, pastoralmente distruttiva ma comunque presente in una certa aliquota del clero romano, di non ammettere al battesimo i bambini di famiglie – o di coppie irregolari – che non diano alcuna garanzia di offrire ai loro figli una formazione cristiana”.

La “tentazione pastoralmente distruttiva” denunciata da Ruini – quella di negare il battesimo ai bambini i cui genitori e padrini sono ritenuti di poca o nessuna fede – è in effetti largamente condivisa.
Ne è prova una lettera riguardante il convegno di Verona scritta al quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”, da Giorgio Campanini, un laico cattolico tra i più in vista:
“Sembra indubbio che si sia di fronte a un evidente sbilanciamento in direzione dell'amministrazione dei sacramenti. Un caso emblematico è quello del sacramento del battesimo, in ordine al quale componenti tradizionali, rituali, a volte quasi magiche sembrano avere di gran lunga la prevalenza sulla proposta di fede. In che misura il battesimo, quale è amministrato oggi, è realmente un annunzio, una proposta di fede? Che ne è della figura dei padrini e delle madrine, ipotetici ‘garanti’ della fede del piccolo battezzato, in una società largamente secolarizzata come l'attuale? C’è da domandarsi se l'attuale prassi – quella di non negare a nessuno, credente o non credente, il battesimo – sia proprio quella più ecclesiasticamente corretta e se si possa consentire anche per il futuro un battesimo senza catechesi dei genitori, dei familiari e dei padrini”.

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Lo scontro tra queste due linee – rigorista   quella espressa da Campanini, “di popolo” quella di Ruini – è una costante nella storia della Chiesa. In un suo libro del 1965, “La preghiera problema politico”, il grande teologo e futuro cardinale Jean Daniélou rimproverava i rigoristi di volere una Chiesa “pura”, simile a “una confraternita degli iniziati”, e con ciò di perdere proprio quei “poveri” che a loro starebbero tanto a cuore: i poveri “nel senso dell’immensa marea umana” fatta anche di “quei numerosi battezzati per i quali il cristianesimo non è altro che una pratica esteriore”.

Per Daniélou la Chiesa non dev’essere “svincolata dalla civiltà in cui si teme possa compromettersi”. Al contrario, è essenziale che “si impegni nella civiltà, perché un popolo cristiano è impossibile in una civiltà che gli sia contraria”. Di qui la difesa che egli fece di Costantino, l’imperatore romano che per primo consentì al cristianesimo di diventare una religione di massa:
“Questa estensione del cristianesimo a un immenso popolo, che rientra nella sua essenza, era stata ostacolata durante i primi secoli dal fatto che andava sviluppandosi all¿interno di una società ostile. L’appartenenza al cristianesimo richiedeva quindi una forza di carattere di cui la maggior parte degli uomini è incapace. La conversione di Costantino, eliminando questi ostacoli, ha reso il Vangelo accessibile ai poveri, cioè proprio a quelli che non fanno parte delle élite, all’uomo della strada. Lungi dal falsare il cristianesimo, gli ha permesso di perfezionarsi nella sua natura di popolo”.

Oggi l’accusa che i rigoristi e i fautori del cristianesimo “kenotico” rivolgono sistematicamente a Ruini, a Benedetto XVI e prima di lui a Giovanni Paolo II è proprio quella di ridurre la fede a “religione civile”, “remissiva e accomodante” con i poteri mondani, moderna versione della Chiesa “costantiniana”.
Non importa che la vera “differenza cristiana” risplenda – a caro prezzo! – in un discorso come quello pronunciato da Benedetto XVI all’Università di Ratisbona. E sparisca invece nei cortesi – ed applauditi – dialoghi con la modernità invocati dai suoi detrattori.
Al convegno di Verona questa polarità sarà nel fuoco del dibattito.

Ma per tornare alla questione del battesimo dei bambini, ecco qui di seguito un appunto del professor Pietro De Marco, in replica a quanto scritto da Giorgio Campanini:

A proposito del “tradizionale” battesimo dei bambini
di Pietro De Marco -esperto in geopolitica religiosa, è professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale.

Stando a quanto scrive Giorgio Campanini sarebbe prevalente nell’opinione ecclesiale qualificata un orientamento pastorale neorigorista, rivolto a negare il battesimo quando non sia preceduto da un’adeguata catechesi dei genitori e padrini. A questo orientamento egli teme che non facciano seguito decisioni ufficiali che lo confermino.
Ma Campanini e i pastoralisti cui fa riferimento ritengono davvero che l’amministrazione del battesimo, in un contesto catechetico debole, sia o diventi un fatto “tradizionale, rituale, quasi magico”? Ossia che l’efficacia del sacramento del battesimo sia vincolata al grado di maggiore o minore consapevolezza nella fede di genitori e padrini?

Non credo lo pensino, e non solo perché anche i laici di generazione non giovane hanno sentito parlare di “ex opere operato”. La formula significa che il sacramento produce i suoi effetti per il fatto stesso di essere amministrato, secondo la potenza e la promessa di Cristo. Decenni fa si amava chiosare che l’”ex opere operato” è un “ex opere operantis Christi”: quindi a maggior ragione efficace di per sé, poiché l’atto redentivo ed eternamente attuale di Cristo, da cui il battesimo prende origine, ci sovrasta e trascende proprio perché è per noi e ci trasforma.

Se non si ama il linguaggio di scuola, ci è di modello la cura che la cristianità antica ebbe per la catechesi, in direzione opposta a ogni svalutazione del sacramento. Il compimento battesimale dell’iniziazione cristiana non costituiva certo, nei primi secoli, un evento secondario rispetto a una conoscenza che sarebbe stata essa stessa salvifica. Quest’ultima, semmai, era la convinzione degli gnostici. Era vero il contrario: “comunicare la fede” includeva istruire il catecumeno sulla potenza trasformante del rito sacramentale. Il rito è parola santa – del Santo – non solo comunicata ma in atto. Da qui anche l’unità di “lex orandi” e “lex credendi”, di rito e dottrina.

Il vero ostacolo all’efficacia del sacramento è – secondo dottrina – la negazione esplicita e consapevole dei doni di grazia da parte del battezzando. Ma come possiamo attribuire una tale negazione non dico all’infante ma all’adulto che chiede per sé o per altri il battesimo? O come possiamo confondere con una negazione la presunta poca fede?

Non è un buon segno che si proponga come esempio di pratica da consolidare nella Chiesa italiana una soluzione pastorale così delicata e controvertibile come quella dell’esteso rifiuto dei sacramenti ai richiedenti ritenuti non “idonei”: ovvero alla maggior parte dei credenti marginali o esterni alla pratica stabile, che sono però una parte cospicua di coloro che si dichiarano, comunque, cattolici.

Niente giustifica la mancanza di catechesi nei loro confronti, ovviamente. Ma sarebbe un paradosso che per far fronte alle insufficienze della “fides quae creditur” – cioé delle verità di fede credute – nella maggioranza dei battezzati, la Chiesa rinunciasse a testimoniare la propria fede originaria nella potenza del battesimo.

Certo, per dirla con deliberata ironia, avremmo risolto un problema pastorale. Rinunciando a battezzare non avremmo più da curare alcuna catechesi battesimale se non per pochi eletti, con un conseguente restringimento elitario delle nostre comunità, che ne sono già abbastanza tentate.

Ma l’equivoco non sorprende: il rigorismo – più moralistico che teologico – di tanti intellettuali di Chiesa conduce frequentemente a ridurre la fede alla sola “fides qua creditur”, cioè alla modalità personale dell’assenso. Dovremmo invece preoccuparci della crescente irrilevanza – nella catechesi come nelle omelie – del “credendum”: delle verità di fede in cui credere.

La perdita di oggettività del “credendum” è parallela a quella dell’oggettività dei sacramenti. Al loro posto avanza la magmatica sentimentalizzazione della fede delle nostre comunità. Il “per amore, solo per amore” di tanta predicazione e carta stampata ne è lo stucchevole Leitmotiv.

L’esito di questa deriva è sotto i nostri occhi in altre regioni d’Europa. Antiche e grandi “Chiese di popolo” sono quasi scomparse, dopo essersi smarrite tra la prevaricazione intellettualistica dei pochi e la fede informe dei più.

L’esempio addotto da Campanini mostra dunque, contro le sue migliori intenzioni, con quanta cautela la Chiesa docente debba accogliere ciò che da preti e da laici sia eventualmente ritenuto una pratica valida. Su tali questioni un’assise responsabile verso la fede – come la prossima di Verona – ha il compito di portare alla luce e vagliare, non certo di decidere a maggioranza.

 


VISITA PASTORALE
DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
A VERONA IN OCCASIONE DEL
IV CONVEGNO NAZIONALE DELLA CHIESA ITALIANA

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO

Fiera di Verona
Giovedì, 19 ottobre 2006

Cari fratelli e sorelle!

Mi rallegro di essere con voi oggi, in questa tanto bella e storica città di Verona, per prendere parte attivamente al IV Convegno nazionale della Chiesa in Italia. Porgo a tutti e a ciascuno il più cordiale saluto nel Signore. Ringrazio il Cardinale Camillo Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale, e la Dottoressa Giovanna Ghirlanda, rappresentante della Diocesi di Verona, per le gentili parole di accoglienza che mi hanno rivolto a nome di voi tutti e per le notizie che mi hanno dato sullo svolgimento del Convegno. Ringrazio il Cardinale Dionigi Tettamanzi, Presidente del Comitato preparatorio, e quanti hanno lavorato per la sua realizzazione. Ringrazio di cuore ognuno di voi, che rappresentate qui, in felice armonia, le varie componenti della Chiesa in Italia: il Vescovo di Verona, Mons. Flavio Roberto Carraro, che ci ospita, i Vescovi qui convenuti, i sacerdoti e i diaconi, i religiosi e le religiose, e voi fedeli laici, uomini e donne, che date voce alle molteplici realtà del laicato cattolico in Italia.

Questo IV Convegno nazionale è una nuova tappa del cammino di attuazione del Vaticano II, che la Chiesa italiana ha intrapreso fin dagli anni immediatamente successivi al grande Concilio: un cammino di comunione anzitutto con Dio Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo nello Spirito Santo e quindi di comunione tra noi, nell’unità dell’unico Corpo di Cristo (cfr 1Gv 1,3; 1Cor 12,12-13); un cammino proteso all’evangelizzazione, per mantenere viva e salda la fede nel popolo italiano; una tenace testimonianza, dunque, di amore per l’Italia e di operosa sollecitudine per il bene dei suoi figli. Questo cammino la Chiesa in Italia lo ha percorso in stretta e costante unione con il Successore di Pietro: mi è grato ricordare con voi i Servi di Dio Paolo VI, che volle il I Convegno nell’ormai lontano 1976, e Giovanni Paolo II, con i suoi fondamentali interventi ai Convegni di Loreto e di Palermo, che hanno rafforzato nella Chiesa italiana la fiducia di poter operare affinché la fede in Gesù Cristo continui ad offrire, anche agli uomini e alle donne del nostro tempo, il senso e l’orientamento dell’esistenza ed abbia così "un ruolo-guida e un’efficacia trainante" nel cammino della Nazione verso il suo futuro (cfr Discorso al Convegno di Loreto, 11 aprile 1985, n. 7).

Il Signore risorto e la sua Chiesa

Nello stesso spirito sono venuto oggi a Verona, per pregare il Signore con voi, condividere – sia pure brevemente – il vostro lavoro di queste giornate e proporvi una mia riflessione su quel che appare davvero importante per la presenza cristiana in Italia. Avete compiuto una scelta assai felice ponendo Gesù Cristo risorto al centro dell’attenzione del Convegno e di tutta la vita e la testimonianza della Chiesa in Italia. La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande "mutazione" mai accaduta, il "salto" decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi. Si tratta di un grande mistero, certamente, il mistero della nostra salvezza, che trova nella risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione e il pegno della nostra speranza. Ma la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.

Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra. Essa giunge a noi mediante la fede e il sacramento del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova. E’ ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (2,20). E’ stata cambiata così la mia identità essenziale e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, "aperto" mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così "uno in Cristo" (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. "Io, ma non più io": è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della "novità" cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale. La nostra vocazione e il nostro compito di cristiani consistono nel cooperare perché giunga a compimento effettivo, nella realtà quotidiana della nostra vita, ciò che lo Spirito Santo ha intrapreso in noi col Battesimo: siamo chiamati infatti a divenire donne e uomini nuovi, per poter essere veri testimoni del Risorto e in tal modo portatori della gioia e della speranza cristiana nel mondo, in concreto, in quella comunità di uomini entro la quale viviamo.

Il servizio della Chiesa in Italia alla Nazione, all’Europa e al mondo

L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per una tale testimonianza. Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo ed estraneo. In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà. Nella medesima linea, l’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità: non sia quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a non poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e sulla direzione della nostra vita. Perciò questa cultura è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza.

L’Italia però, come accennavo, costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione. Le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti, mentre è in atto un grande sforzo di evangelizzazione e catechesi, rivolto in particolare alle nuove generazioni, ma ormai sempre più anche alle famiglie. È inoltre sentita con crescente chiarezza l’insufficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’etica troppo individualista: in concreto, si avverte la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà. Questa sensazione, che è diffusa nel popolo italiano, viene formulata espressamente e con forza da parte di molti e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede. La Chiesa e i cattolici italiani sono dunque chiamati a cogliere questa grande opportunità, e anzitutto ad esserne consapevoli. Il nostro atteggiamento non dovrà mai essere, pertanto, quello di un rinunciatario ripiegamento su noi stessi: occorre invece mantenere vivo e se possibile incrementare il nostro dinamismo, occorre aprirsi con fiducia a nuovi rapporti, non trascurare alcuna delle energie che possono contribuire alla crescita culturale e morale dell’Italia. Tocca a noi infatti – non con le nostre povere risorse, ma con la forza che viene dallo Spirito Santo – dare risposte positive e convincenti alle attese e agli interrogativi della nostra gente: se sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo.

Rendere visibile il grande "sì" della fede

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo ora domandarci come, e su quali basi, adempiere un simile compito. In questo Convegno avete ritenuto, giustamente, che sia indispensabile dare alla testimonianza cristiana contenuti concreti e praticabili, esaminando come essa possa attuarsi e svilupparsi in ciascuno di quei grandi ambiti nei quali si articola l’esperienza umana. Saremo aiutati, così, a non perdere di vista nella nostra azione pastorale il collegamento tra la fede e la vita quotidiana, tra la proposta del Vangelo e quelle preoccupazioni e aspirazioni che stanno più a cuore alla gente. In questi giorni avete riflettuto perciò sulla vita affettiva e sulla famiglia, sul lavoro e sulla festa, sull’educazione e la cultura, sulle condizioni di povertà e di malattia, sui doveri e le responsabilità della vita sociale e politica.

Per parte mia vorrei sottolineare come, attraverso questa multiforme testimonianza, debba emergere soprattutto quel grande "sì" che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo. Il cristianesimo è infatti aperto a tutto ciò che di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà, a ciò che allieta, consola e fortifica la nostra esistenza. San Paolo nella Lettera ai Filippesi ha scritto: "Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri" (4,8). I discepoli di Cristo riconoscono pertanto e accolgono volentieri gli autentici valori della cultura del nostro tempo, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa, la democrazia. Non ignorano e non sottovalutano però quella pericolosa fragilità della natura umana che è una minaccia per il cammino dell’uomo in ogni contesto storico; in particolare, non trascurano le tensioni interiori e le contraddizioni della nostra epoca. Perciò l’opera di evangelizzazione non è mai un semplice adattarsi alle culture, ma è sempre anche una purificazione, un taglio coraggioso che diviene maturazione e risanamento, un’apertura che consente di nascere a quella "creatura nuova" (2Cor 5,17; Gal 6,15) che è il frutto dello Spirito Santo.

Come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, all’inizio dell’essere cristiano – e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti – non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, "che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva" (n. 1). La fecondità di questo incontro si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie. Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza. Il "progetto culturale" della Chiesa in Italia è senza dubbio, a tal fine, un’intuizione felice e un contributo assai importante.

La persona umana. Ragione, intelligenza, amore

La persona umana non è, d’altra parte, soltanto ragione e intelligenza. Porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta. Perciò si interroga e spesso si smarrisce di fronte alle durezze della vita, al male che esiste nel mondo e che appare tanto forte e, al contempo, radicalmente privo di senso. In particolare nella nostra epoca, nonostante tutti i progressi compiuti, il male non è affatto vinto; anzi, il suo potere sembra rafforzarsi e vengono presto smascherati tutti i tentativi di nasconderlo, come dimostrano sia l’esperienza quotidiana sia le grandi vicende storiche. Ritorna dunque, insistente, la domanda se nella nostra vita ci possa essere uno spazio sicuro per l’amore autentico e, in ultima analisi, se il mondo sia davvero l’opera della sapienza di Dio. Qui, molto più di ogni ragionamento umano, ci soccorre la novità sconvolgente della rivelazione biblica: il Creatore del cielo e della terra, l’unico Dio che è la sorgente di ogni essere ama personalmente l’uomo, lo ama appassionatamente e vuole essere a sua volta amato da lui. Dà vita perciò a una storia d’amore con Israele, il suo popolo, e in questa vicenda, di fronte ai tradimenti del popolo, il suo amore si mostra ricco di inesauribile fedeltà e misericordia, è l’amore che perdona al di là di ogni limite. In Gesù Cristo un tale atteggiamento raggiunge la sua forma estrema, inaudita e drammatica: in Lui infatti Dio si fa uno di noi, nostro fratello in umanità, e addirittura sacrifica la sua vita per noi. Nella morte in croce si compie dunque "quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale", nel quale si manifesta cosa significhi che "Dio è amore" (1 Gv 4,8) e si comprende anche come debba definirsi l’amore autentico (cfr Enc. Deus caritas est, nn. 9-10 e 12).

Proprio perché ci ama veramente, Dio rispetta e salva la nostra libertà. Al potere del male e del peccato non oppone un potere più grande, ma - come ci ha detto il nostro amato Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dives in misericordia e, da ultimo, nel libro Memoria e identità – preferisce porre il limite della sua pazienza e della sua misericordia, quel limite che è, in concreto, la sofferenza del Figlio di Dio. Così anche la nostra sofferenza è trasformata dal di dentro, è introdotta nella dimensione dell’amore e racchiude una promessa di salvezza. Cari fratelli e sorelle, tutto questo Giovanni Paolo II non lo ha soltanto pensato, e nemmeno soltanto creduto con una fede astratta: lo ha compreso e vissuto con una fede maturata nella sofferenza. Su questa strada, come Chiesa, siamo chiamati a seguirlo, nel modo e nella misura che Dio dispone per ciascuno di noi. La croce ci fa giustamente paura, come ha provocato paura e angoscia in Gesù Cristo (cfr Mc 14,33-36): essa però non è negazione della vita, da cui per essere felici occorra sbarazzarsi. È invece il "sì" estremo di Dio all’uomo, l’espressione suprema del suo amore e la scaturigine della vita piena e perfetta: contiene dunque l’invito più convincente a seguire Cristo sulla via del dono di sé. Qui mi è caro rivolgere un pensiero di speciale affetto alle membra sofferenti del corpo del Signore: esse, in Italia come ovunque nel mondo, completano quello che manca ai patimenti di Cristo nella propria carne (cfr Col 1,24) e contribuiscono così nella maniera più efficace alla comune salvezza. Esse sono i testimoni più convincenti di quella gioia che viene da Dio e che dona la forza di accettare la croce nell’amore e nella perseveranza.

Sappiamo bene che questa scelta della fede e della sequela di Cristo non è mai facile: è sempre, invece, contrastata e controversa. La Chiesa rimane quindi "segno di contraddizione", sulle orme del suo Maestro (cfr Lc 2,34), anche nel nostro tempo. Ma non per questo ci perdiamo d’animo. Al contrario, dobbiamo essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza, come ci invita a fare la prima Lettera di San Pietro (3,15), che avete scelto assai opportunamente quale guida biblica per il cammino di questo Convegno. Dobbiamo rispondere "con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza" (3,15-16), con quella forza mite che viene dall’unione con Cristo. Dobbiamo farlo a tutto campo, sul piano del pensiero e dell’azione, dei comportamenti personali e della testimonianza pubblica. La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l’evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l’evangelizzazione dell’Italia e del mondo di oggi.

L’educazione

In concreto, perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri "no" a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi "no" sono piuttosto dei "sì" all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio. Voglio esprimere qui tutto il mio apprezzamento per il grande lavoro formativo ed educativo che le singole Chiese non si stancano di svolgere in Italia, per la loro attenzione pastorale alle nuove generazioni e alle famiglie. Tra le molteplici forme di questo impegno non posso non ricordare, in particolare, la scuola cattolica, perché nei suoi confronti sussistono ancora, in qualche misura, antichi pregiudizi, che generano ritardi dannosi, e ormai non più giustificabili, nel riconoscerne la funzione e nel permetterne in concreto l’attività.

Testimonianze di carità

Gesù ci ha detto che tutto ciò che avremo fatto ai suoi fratelli più piccoli lo avremo fatto a Lui (cfr Mt 25,40). L’autenticità della nostra adesione a Cristo si verifica dunque specialmente nell’amore e nella sollecitudine concreta per i più deboli e i più poveri, per chi si trova in maggior pericolo e in più grave difficoltà. La Chiesa in Italia ha una grande tradizione di vicinanza, aiuto e solidarietà verso i bisognosi, gli ammalati, gli emarginati, che trova la sua espressione più alta in una serie meravigliosa di "Santi della carità". Questa tradizione continua anche oggi e si fa carico delle molte forme di nuove povertà, morali e materiali, attraverso la Caritas, il volontariato sociale, l’opera spesso nascosta di tante parrocchie, comunità religiose, associazioni e gruppi, singole persone mosse dall’amore di Cristo e dei fratelli. La Chiesa in Italia, inoltre, dà prova di una straordinaria solidarietà verso le sterminate moltitudini dei poveri della terra. È quindi quanto mai importante che tutte queste testimonianze di carità conservino sempre alto e luminoso il loro profilo specifico, nutrendosi di umiltà e di fiducia nel Signore, mantenendosi libere da suggestioni ideologiche e da simpatie partitiche, e soprattutto misurando il proprio sguardo sullo sguardo di Cristo: è importante dunque l’azione pratica ma conta ancora di più la nostra partecipazione personale ai bisogni e alle sofferenze del prossimo. Così, cari fratelli e sorelle, la carità della Chiesa rende visibile l’amore di Dio nel mondo.

Responsabilità civili e politiche dei cattolici

Il vostro Convegno ha giustamente affrontato anche il tema della cittadinanza, cioè le questioni delle responsabilità civili e politiche dei cattolici. Cristo infatti è venuto per salvare l’uomo reale e concreto, che vive nella storia e nella comunità, e pertanto il cristianesimo e la Chiesa, fin dall’inizio, hanno avuto una dimensione e una valenza anche pubblica. Come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est (cfr nn. 28-29), sui rapporti tra religione e politica Gesù Cristo ha portato una novità sostanziale, che ha aperto il cammino verso un mondo più umano e più libero, attraverso la distinzione e l’autonomia reciproca tra lo Stato e la Chiesa, tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22,21). La stessa libertà religiosa, che avvertiamo come un valore universale, particolarmente necessario nel mondo di oggi, ha qui la sua radice storica. La Chiesa, dunque, non è e non intende essere un agente politico. Nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un duplice livello il suo contributo specifico. La fede cristiana, infatti, purifica la ragione e l’aiuta ad essere meglio se stessa: con la sua dottrina sociale pertanto, argomentata a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano, la Chiesa contribuisce a far sì che ciò che è giusto possa essere efficacemente riconosciuto e poi anche realizzato. A tal fine sono chiaramente indispensabili le energie morali e spirituali che consentano di anteporre le esigenze della giustizia agli interessi personali, o di una categoria sociale, o anche di uno Stato: qui di nuovo c’è per la Chiesa uno spazio assai ampio, per radicare queste energie nelle coscienze, alimentarle e irrobustirle. Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità: si tratta di un compito della più grande importanza, al quale i cristiani laici italiani sono chiamati a dedicarsi con generosità e con coraggio, illuminati dalla fede e dal magistero della Chiesa e animati dalla carità di Cristo.

Una speciale attenzione e uno straordinario impegno sono richiesti oggi da quelle grandi sfide nelle quali vaste porzioni della famiglia umana sono maggiormente in pericolo: le guerre e il terrorismo, la fame e la sete, alcune terribili epidemie. Ma occorre anche fronteggiare, con pari determinazione e chiarezza di intenti, il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano, in particolare riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale. La testimonianza aperta e coraggiosa che la Chiesa e i cattolici italiani hanno dato e stanno dando a questo riguardo sono un servizio prezioso all’Italia, utile e stimolante anche per molte altre Nazioni. Questo impegno e questa testimonianza fanno certamente parte di quel grande "sì" che come credenti in Cristo diciamo all’uomo amato da Dio.

Essere uniti a Cristo

Cari fratelli e sorelle, i compiti e le responsabilità che questo Convegno ecclesiale pone in evidenza sono certamente grandi e molteplici. Siamo stimolati perciò a tenere sempre presente che non siamo soli nel portarne il peso: ci sosteniamo infatti gli uni gli altri e soprattutto il Signore stesso guida e sostiene la fragile barca della Chiesa. Ritorniamo così al punto da cui siamo partiti: decisivo è il nostro essere uniti a Lui, e quindi tra noi, lo stare con Lui per poter andare nel suo nome (cfr Mc 3,13-15). La nostra vera forza è dunque nutrirci della sua parola e del suo corpo, unirci alla sua offerta per noi, come faremo nella Celebrazione di questo pomeriggio, adorarlo presente nell’Eucaristia: prima di ogni attività e di ogni nostro programma, infatti, deve esserci l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire. Nell’unione a Cristo ci precede e ci guida la Vergine Maria, tanto amata e venerata in ogni contrada d’Italia. In Lei incontriamo, pura e non deformata, la vera essenza della Chiesa e così, attraverso di Lei, impariamo a conoscere e ad amare il mistero della Chiesa che vive nella storia, ci sentiamo fino in fondo parte di essa, diventiamo a nostra volta "anime ecclesiali", impariamo a resistere a quella "secolarizzazione interna" che insidia la Chiesa nel nostro tempo, in conseguenza dei processi di secolarizzazione che hanno profondamente segnato la civiltà europea.

Cari fratelli e sorelle, eleviamo insieme al Signore la nostra preghiera, umile ma piena di fiducia, affinché la comunità cattolica italiana, inserita nella comunione vivente della Chiesa di ogni luogo e di tutti i tempi, e strettamente unita intorno ai propri Vescovi, porti con rinnovato slancio a questa amata Nazione, e in ogni angolo della terra, la gioiosa testimonianza di Gesù risorto, speranza dell’Italia e del mondo.

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