Dopo Verona. Come "restituire
piena cittadinanza alla fede cristiana"
Papa Ratzinger e il suo vicario Ruini
vedono nell'Italia "un
terreno assai favorevole" per la rinascita pubblica del cristianesimo
anche in Europa e nel mondo. Ma molti non accettano la loro visione.
E l'arcivescovo di Milano, Tettamanzi, si è messo alla testa
degli oppositori.
di Sandro Magister : www.chiesa.espressonline.it
ROMA, 26 ottobre 2006 – Dopo le cinque giornate di Verona, l’eccezionalità della
Chiesa italiana diventerà invidiatissima materia di studio nei
vescovadi d’Europa e d'America, specie là dove la cristianità è più in
declino.
A Verona, dal 16 al 20 ottobre, la Chiesa italiana ha riunito i suoi
stati generali: vescovi, preti, fedeli. E lì il papa tedesco ha
scommesso proprio su ciò che distingue l’Italia cristiana:
il suo essere Chiesa non di minoranza ma di popolo, “molto viva
e capillarmente presente in mezzo alla gente di ogni età e condizione”.
Per Benedetto XVI questa eccezionalità dell’Italia non è residuale,
ma antesignana della rinascita cristiana dell’Occidente, da lui
così intensamente sperata. Ai cattolici italiani egli ha dettato
un programma molto esigente. Se “sapremo attuarlo”, ha detto, “la
Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa
nazione, ma anche all’Europa e al mondo”.
Intanto, però, larghi strati dell’apparato di questa stessa
Chiesa italiana guardano al programma di Benedetto XVI con timore e stupore.
Hanno salutato cortesi l’arrivo del papa a Verona giovedì 19,
hanno punteggiato di applausi il suo monumentale discorso, ma non ne
sono stati conquistati. Dei 2700 delegati un buon terzo hanno tenuto
le braccia conserte, gli stessi che il giorno dopo hanno negato l’applauso
al cardinale Camillo Ruini, da più di quindici anni ininterrottamente
alla guida della conferenza episcopale italiana per mandato di questo
e del penultimo papa.
Ruini, 75 anni compiuti, è per ragioni d’età alla
fine della sua lunga premiership. È stato l’uomo prescelto
da Giovanni Paolo II, nel 1985, agli stati generali della Chiesa italiana
convocati quell’anno a Loreto, per restituire a tale Chiesa “un
ruolo guida e un’efficacia trainante” che lui, Karol Wojtyla,
vedeva invece sminuiti e negati dalla “scelta religiosa” che
era la parola d’ordine dei capi di Chiesa dell’epoca, in
testa il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e presidente
del comitato organizzativo di quella assise.
La “scelta religiosa” era sinonimo di una Chiesa mite e amichevole
con la modernità, silenziosamente mescolata alle forze del progresso,
invisibile come “lievito nella pasta”, concentrata sullo
spirituale e sul primato della coscienza individua. Scelta inaccettabile
per un papa venuto dal combattuto e combattivo cattolicesimo popolare
polacco: un papa, in effetti, giudicato “barbaro” da larga
parte dell’intellettualità cattolica italiana dell’epoca.
Di quei giudizi su papa Wojtyla fa testo un libro autorevole: l’intervista
a don Giuseppe Dossetti raccolta e pubblicata postuma per l’editrice
il Mulino da Pietro Scoppola e Leopoldo Elia. Oggi il professor Scoppola,
commentando l’assise di Verona, salva Benedetto XVI da critiche
analoghe, ma lo fa attribuendo impropriamente al papa regnante proprio
quella “logica religiosa” e quello spirito “conciliare” che
continuano a essere il sogno e il linguaggio dei delusi dalla “restaurazione” di
Wojtyla e Ruini.
A Verona, ad accarezzare questo sogno è stato il successore di
Martini sulla cattedra di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi. A
lui spettava, come presidente del comitato preparatorio del convegno,
il discorso inaugurale. E puntualmente Tettamanzi ne ha fatto un discorso
di successione e di opposizione a Ruini.
A quelli che pensano (come lo storico della Chiesa Alberto Melloni nel
libro “Chiesa madre chiesa matrigna”) che il lungo, teatrale
pontificato di Giovanni Paolo II abbia semplicemente occultato i problemi
veri della Chiesa che sono rimasti gli stessi di quarant’anni fa – nuovi
ministeri per laici e donne, nuova morale sessuale, eccetera: le questioni
elencate dal cardinale Martini nel 1999 invocando un nuovo Concilio – Tettamanzi
ha promesso un ritorno alle origini, allo spirito “volutamente
ottimista” con cui negli anni Sessanta il Concilio Vaticano II
guardava al mondo moderno, e “invece di deprimenti diagnosi” seminava “incoraggianti
rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia”.
Circa l’interpretazione dello stesso Concilio, Tettamanzi ha incorniciato
una frase di Paolo VI del 1965, ma ha taciuto del tutto le tesi illustrate
da Benedetto XVI in uno dei suoi discorsi capitali, quello del 22 dicembre
2005 alla curia romana, criticissimo dell’idea del Vaticano II
come “nuovo inizio” per l’intera storia della Chiesa.
A quelli che prediligono “una Chiesa che ascolti prima di parlare” (vedi
il libretto “La differenza cristiana” del priore di Bose,
Enzo Bianchi) l’arcivescovo di Milano ha sostenuto che “è meglio
essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo”. L’indomani
i maggiori quotidiani nazionali hanno interpretato queste parole come
una bocciatura degli “atei devoti” tipo Oriana Fallaci o
Giuliano Ferrara, estranei alla fede eppure fortissimamente schierati
a difesa della civiltà cristiana e grandi estimatori di papa Benedetto
XVI. Tettamanzi, interpellato, s’è guardato bene dal respingere
tale interpretazione, ma in realtà il suo sguardo era più dentro
la Chiesa che fuori. Non importa che il vero autore della frase, il santo
vescovo e martire del II secolo Ignazio di Antiochia, fosse un cristiano
tutt’altro che taciturno, anzi, proclamasse la sua fede a voce
così alta da andare incontro al martirio.
L’intreccio tra cristianesimo e modernità caro a Tettamanzi
non è pura teoria. È messo in pratica da anni nel cuore
stesso della sua arcidiocesi di Milano, nella chiesa cattedrale, il celebre
Duomo.
Alla messa da Requiem per Gianni Versace, nel 1997, Elton John suonò e
cantò al centro del Duomo “Candle in the wind”.
Sulla “cattedra dei non credenti” inventata dal cardinale
Martini si sono avvicendati spiriti laici richiestissimi non per lodare
il cristianesimo ma per risvegliare anche nei cristiani “il non
credente che è in noi”.
In Quaresima, per meditare sulle “ultime parole di Cristo in croce” si
sono letti in Duomo non i quattro Vangeli ma pagine scelte di Oscar Wilde,
Marguerite Yourcenar, Pier Paolo Pasolini, Jack Kerouac, col pubblico
che dando le spalle all’altare contemplava dei video proiettati
sulla controfacciata interna della chiesa, con sottostante palco musicale.
A Pentecoste si sono declamati brani del filosofo Baruch Spinoza, con
una prima esecuzione musicale di Karlheinz Stockhausen e proiezioni dell’artista
astratto giapponese Tatsuo Miyajima.
Infine nella cripta sotto l’altare maggiore, accanto alle reliquie
di san Carlo Borromeo che assieme a sant'Ambrogio è uno dei due
patroni di Milano, è stato allestito un box intitolato “Via
dolorosa” dentro il quale, al buio, si può assistere per
18 minuti alla proiezione di immagini mute e nella quasi totalità nere.
Obiettivo dichiarato: “portare il visitatore nella nube dell’inconoscenza,
nella quale egli sia finalmente di fronte alla sua libera scelta, quella
di credere oppure no”.
Nei primi tre giorni, a Verona, l’effetto Tettamanzi ha fatto alone.
Assente Benedetto XVI e silenzioso il cardinale Ruini, le parole dominanti
tra i delegati, divisi in decine di gruppi di discussione paralleli,
erano “accoglienza”, “ascolto”, “dialogo”, “oblazione”:
parole intrise più di passione che di analisi degli epocali cambiamenti
intervenuti nel mondo e nella Chiesa negli ultimi vent'anni. Il papa
era quasi ignorato anche dai relatori ufficiali. Una sola volta è stata
citata la sua lezione di Ratisbona: dal rettore dell’Università Cattolica
di Milano, Lorenzo Ornaghi, ruiniano a tutto tondo.
Finché è arrivato lui, Benedetto XVI, a polverizzare ciò che
fin lì aveva occupato la scena.
“L’Osservatore Romano”,
cogliendo per una volta nel segno, ha riportato il discorso papale
sotto il titolo a tutta pagina: “Restituire piena cittadinanza
alla fede cristiana”.
Cittadinanza pubblica, laicamente alla pari, di cristiani
capaci di dire dei no (e il papa non ne ha omesso alcuno di quelli
che ritiene d’obbligo per difendere la vita umana dal concepimento
alla morte naturale, la famiglia, la libertà d’educazione)
ma soprattutto di pronunciare dei sì “a tutto ciò che
di giusto, vero e puro vi è nelle culture e nelle civiltà”,
insomma “quel grande sì che in Gesù Cristo Dio
ha detto all’uomo”. È questo in sostanza – ha
affermato il papa – il “progetto culturale” ideato
e attuato per la Chiesa italiana dal cardinale Ruini.
A quelli che contrappongono la purezza nascosta del cristianesimo dei
primi secoli al ruolo visibile che la Chiesa d’oggi vuole assegnato
alla fede, Benedetto XVI ha ribattuto che
“il cristianesimo e la
Chiesa fin dall’inizio hanno avuto una dimensione e una valenza
anche pubblica” e che la “strada maestra” dell’espansione
missionaria del cristianesimo rimane oggi la stessa di allora: “una
prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione
premurosa ai poveri e ai sofferenti”, ma nello stesso tempo “una
fede amica dell’intelligenza”. Ossia una Chiesa “sempre
pronta a dare risposta a chiunque domandi ragione della nostra speranza”.
Forte del sigillo papale, la mattina dopo, venerdì 20 ottobre,
un Ruini raggiante ha ripassato punto per punto le molte cose fatte nei
suoi anni di presidente della CEI e le tante ancora da fare. A queste
provvederà il successore, che sarà probabilmente un
cardinale e forse il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia.
La nomina spetta al papa.
Il primo degli esclusi, Tettamanzi, potrà sempre farsi forte
di quel ceto cattolico di sentimenti “conciliari”, fatto
di qualche vescovo, di molti preti e di tanti laici d’apparato,
che a Verona era largamente presente e che ha tra i suoi maestri Scoppola,
Bianchi e Melloni.
Ma la Chiesa di popolo su cui Benedetto XVI e Ruini hanno scommesso
non è lì.
Da teologo, Joseph Ratzinger diceva di voler difendere “la fede
dei semplici”. I veri ratzingeriani, in Italia, sono tra i cattolici
comuni, tra gli ascoltatori di Radio Maria, tra i sostenitori del Movimento
per la Vita, tra i milioni di fedeli che vanno a messa la domenica
e a questo papa non chiedono di tacere ma di parlare come sa.
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