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La sperimentazione sugli embrioni umani fa promesse di salute che non è in grado di mantenere e distrugge vite umane. |
Promesse di salute La ricerca scientifica ha effettuato un nuovo esperimento sugli embrioni umani. Le tecniche di fecondazione extracorporea (che corrispondono a ciò che in Italia chiamiamo procreazione medicalmente assistita) di fatto si sono progressivamente trasformale in una metodica sperimentale di ricerca, affiancandosi all'iniziale progetto di lotta contro la sterilità. Gli embrioni umani non sono visibili a occhio nudo, non hanno fattezze che coinvolgano emotivamente e sembra che soltanto quando rientrano nel progetto di una donna e di un uomo possano essere riconosciuti per quello che realmente sono, cioè dei figli. I dibattiti, inoltre, tendono a spostare la questione sul piano generalissimo del valore delle scienze e sull'importanza delle ricerche per fornire terapie efficaci nei confronti delle malattie ereditarie. Ma così facendo si perde di vista la questione concreta, e cioè quale spazio ci sia per compiere atti terapeutici nei confronti degli esseri umani allo stadio embrionale. La terapia è ciò che guarisce o cura, o permette di convivere con alcune malattie riducendone gli effetti indesiderati. Ma quando ipotizziamo di mischiare il patrimonio genetico di un individuo nella speranza di eliminare delle malattie ereditarie stiamo superando la soglia di ciò che nell'ambito della clinica si definisce accanimento, siamo di fronte ad una programmazione e ingegnerizzazione della vita umana di cui non possiamo conoscere l'esito se non imponendola, in via sperimentale, al generato stesso. Non si tratta, quindi, di discutere della natura della finalità delle scienze empiriche, o della tecnologia, ma di affrontare questo problema specifico: nel caso della vita embrionale, qual è lo spazio reale dell'attività terapeutica? Nessuno oggi è in grado di dire se si può realmente guarire qualcuno da malattie genetiche operando sul Dna. Nessuno sa dire quali conseguenze si possono avere a livello fisico, antropologico ed esistenziale intervenendo sulle fasi della vita embrionale dell'individuo. Sappiamo però che per ottenere anche soltanto dei risultali conoscitivi dobbiamo generare, modificare e distruggere un numero indeterminato di individui umani (perche questo è ciò che è un embrione) nelle fasi iniziale della loro vita. Ma nessuna finalità terapeutica può mettere in conto l'utilizzo di uomini come cavie da esperimento, perché nessun individuo, per nessun motivo può accampare un diritto di vita di morte su di un suo simile. Tale è la questione da discutere: se stiamo irrimediabilmente abbassando la soglia di tutela del valore e della vita del singolo uomo e se stiamo tornando ad un'impostazione in cui il valore e la dignità del singolo sono strettamente commisurate alle fasi del suo sviluppo, cosi che esisterebbe una differenza morale tra eliminare un embrione, un feto, un neonato, un bambino, un adulto, un anziano. Vogliamo davvero introdurre una scala di valutazione dell'umano e tornare ad antichi sistemi di classificazione e discriminazione fra gli uomini, e, nello stesso uomo, rispetto alle diverse fasi della sua esistenza? Di fatto lo stiamo facendo. Quando usiamo la nozione di persona secondo un'accezione morale (per cui è persona soltanto chi esercita le attività conoscitive e volitive) noi di fatto escludiamo dal novero delle persone tutti coloro che, per condizioni di vita, di salute, di sviluppo, non sono agenti morali. La nozione di persona umana, che per lungo tempo è servita per qualificare l'essere umano nella sua individuale irripetibilità, viene oggi usata per nuove forme di discriminazione, che coinvolgono in primo luogo gli esseri umani allo stadio embrionale. Esiste poi una questione ancora più radicale, che dovremmo avere il coraggio di affrontare, e cioè il fatto che la procreazione extracorporea, al di là delle intenzioni e motivazioni psicologiche e cliniche, stravolge il significato antropologico della generazione . © L'OSSERVATORE ROMANO |
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