S.E. Cardinale Carlo
Caffarra lezione magistrale dal titolo:
"Eutanasia neonatale:
proposta di riflessione etica."
Convegno scientifico nazionale "Decidere in
neonatologia"
promosso dal Dipartimento Salute della Donna, del Bambino e dell’Adolescente
dell’Azienda Ospedaliero-universitaria di Bologna
Giovedì 7 dicembre 2006
Aula Magna "Nuove patologie" del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi
Sono grato a chi mi ha fatto l’onore di prendere la parola davanti
ad un pubblico tanto qualificato e su un tema di così decisiva
e drammatica importanza non solo per l’esercizio della vostra
professione, ma anche per la nostra convivenza civile.
L’andamento della mia riflessione avrà un carattere di "scheletrica" essenzialità.
La scelta è dovuta non solo e non soprattutto a ragioni di tempo,
ma anche e soprattutto per favorire un vero confronto ed un reale approfondimento
senza dispersioni in retorici discorsi. Del resto parlo a persone abituate
ad un procedere dimostrativo rigoroso. Inizio dalla formulazione della
domanda a cui cercherò di dare argomentata risposta.
1. La domanda
Essa può essere formulata nel modo seguente:
è lecito "porre
fine alla vita di un neonato in base alla constatazione di un grave
danno alla qualità della vita provocato dal fallimento di cure
che possono aver salvato un bambino a costo di gravi menomazioni future"?
[R. Bracci, L’eutanasia neonatale. Origini e problemi attuali,
in C.V. Bellieni – M. Maltoni, La morte dell’eutanasia,
Società Ed. Fiorentina, Firenze 2006, pag. 34].
Di fatto la
domanda si pone soprattutto circa i bambini di bassa età gestazionale,
poiché sono questi neonati che vanno incontro più degli
altri a gravi disabilità. Per cui non manca chi propone come
orientamento generale di non rianimare i neonati al di sotto di una
certa età gestazionale.
Ho detto "porre fine alla vita di un neonato …". L’espressione
denota un’azione ben precisa e rigorosamente definibile. Trattasi
di un intervento di carattere intenzionalmente eutanasico nei confronti
del neonato.
L’intervento eutanasico può consistere sia nella sospensione
delle cure normali [per es. staccare il ventilatore o cessare l’alimentazione]
avendo come fine di impedire la sopravvivenza del disabile sia somministrando
un preparato che anticipa volutamente la morte.
La condotta eutanasica deve essere accuratamente distinta dalla "decisione
di interrompere trattamenti medici futili, non proporzionati, privi
di alcuna credibile prospettiva terapeutica" [Comitato Nazionale
Bioetica, Mozioni sull’assistenza a neonati e a bambini afflitti
da patologie o da handicap ad altissime gravità e sull’eutanasia
pediatrica, n° 3].L’azione di cui sto parlando e della
cui liceità mi sto interrogando, è una vera e propria
decisione di porre fine alla vita del neonato in previsione di un futuro
gravemente handicappato; è un comportamento che si propone positivamente
di porre termine alla vita di un neonato sulla base di una previsione
gravemente infausta di vita.
Poiché, come dicevo, questo comportamento medico è posto
in atto nei confronti soprattutto di neonati di molto bassa età gestazionale,
esso assume anche il profilo di "rianimazione selettiva".
Penso che ora la domanda sia stata rigorosamente precisata in tutti
i suoi contenuti, senza rischio di confondere accanimento terapeutico
sul neonato ed eutanasia.
2. La "posta in gioco".
Prima di iniziare a costruire la risposta, vorrei fermarmi a considerare
ciò che questa problematica pone in gioco; ciò di cui
stiamo parlando.
È necessario partire da una considerazione di carattere generale:
nella vita dell’uomo ci sono gesti che hanno un senso obiettivo,
anche se non sempre, non necessariamente è stato inteso e voluto
da chi li compie. Faccio un esempio.
Che una persona mentisca ad un’altra è un atto che in
sé e per sé ferisce il tessuto connettivo della vita
associata costituito dalla reciproca fiducia. Ma se la persona che
mentisce è un pubblico ufficiale nell’esercizio del suo
servizio, anche supponendo che la bugia detta sia molto meno grave,
il comportamento ha un senso disgregativo del tessuto sociale che obiettivamente è molto
più lacerante, anche se le ragioni che spingono a mentire fossero
nei due casi le stesse.
L’uomo è un essere sociale per natura, e la società è un
bene umano fondamentale. L’agire umano ha una sua capacità obiettiva
di configurare la vita associata, anche al di là delle intenzioni
di chi agisce.
Quando mi chiedo: "quale è la vera posta in gioco in tutta
questa problematica?" mi chiedo: quale è il significato
obiettivo della condotta umana connotata dalla domanda? Cioè:
che rilevanza ha sul profilo che vogliamo dare alla nostra vita associata?
La giustificazione dell’eutanasia neonatale e/o della rianimazione
selettiva è la previsione di una vita umana biologicamente handicappata
gravemente e quindi di grave sofferenza. Poiché ovviamente trattasi
di persone umane assolutamente incapaci di elaborare una qualsiasi
concezione di vita buona, sulla base della quale dedurre un giudizio
di sensatezza/insensatezza della propria vita, un altro elabora questo
giudizio sulla base dell’ipotesi che il neonato – se fosse
in grado di pensare – consentirebbe. Si decide di interrompere
la vita di un altro presumendo che esso in futuro condividerebbe la
concezione di vita buona propria di chi pone fine alla vita dell’altro.
Ciò che sostengo è la seguente tesi: legittimare questa
giustificazione [e quindi legittimare la rianimazione selettiva] significa
obiettivamente inferire un vulnus grave ai due pilastri fondamentali
del profilo democratico che abbiamo voluto dare alla nostra convivenza
civile: l’autonomia e l’uguaglianza.
Non voglio ora entrare nella discussione circa questi due concetti.
Li prendo nell’accezione che essi hanno nella doctrina communis
della politica.Autonomia significa che ciascuno ha diritto di vivere
secondo la propria concezione di vita buona. La sensatezza/insensatezza
della vita di ciascuno non può essere decisa da un estraneo
secondo parametri o standards propri di felicità/infelicità.
Autonomia significa in primo luogo indisponibilità [della vita]
di ciascuno nei confronti di ciascuno, e quindi impossibilità di
imporre un giudizio proprio – secondo criteri di senso/ non senso – ad
un altro in ordine al suo vivere.
Voglio considerare la stessa "posta in gioco" da un altro
punto di vista, più adeguato a comprendere la gravità della
cosa di cui stiamo parlando.
Ogni uomo rappresenta una novità. È stata soprattutto
H. Arendt a riflettere sul fatto che la nascita di un bambino non rappresenta
semplicemente un'altra storia di vita, bensì una nuova storia
di vita. Perché questo accada bisogna che il soggetto possa
essere difeso nel suo inizio naturale da ogni intervento che ne predetermini
la sua storia seguente. "Un indisponibile "destino di natura" che
anteceda, per così dire, il nostro stesso passato biografico
sembra essere elemento essenziale alla coscienza della nostra libertà" [J.
Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica naturale,
Biblioteca Einaudi, Torino 2002, pag. 61].
La legittimazione dell’eutanasia neonatale ha il significato
obiettivo di conferire ad alcuni un jus necis et vitae su altri in
base ad un loro giudizio morale sul destino naturale di una nascita.
Che la ferita inferta all’autonomia implichi una ferita inferta
all’uguaglianza fra le persone umane, non ha bisogno di dimostrazione.
Alcune persone hanno il diritto di pronunciare una sentenza di morte
in base alla propria concezione di vita sensata o non sensata. Una
persona è giudicata meritevole o non di essere conservata in
vita in base a criteri stabiliti da altri, sui quali essa non può pronunciarsi.
Vorrei che si riflettesse molto seriamente sul significato obiettivo
che ha la rianimazione selettiva, sulla potenza devastante che essa
può esercitare nella nostra coscienza di appartenere ad una
comunità di persone autonome e libere.
Vorrei ora svolgere un approfondimento su quanto detto finora. Me ne
dà lo spunto quanto scriveva Michael Gross nel 2002, che c’è "un
generale consenso al neonaticidio a seconda del parere del genitore
sull’interesse del neonato definito in modo ampio da considerare
sia il danno fisico che il danno sociale, psicologico e finanziario
a terzi" [cit. da Zenit Agenzia di notizie. Il mondo visto da
Roma; http://www.zenit.org.italian;
data pubblicazione: 2006-11-10]. Se comprendo: il diritto a vivere
deve essere bilanciato con l’interesse di terzi, e si ipotizza
la possibilità che la bilancia pieghi a favore dell’interesse
dei terzi. La cosa merita una attenta considerazione.
Questa posizione è il segno inequivocabile della "tirannia
dell’utilitarismo" nella dottrina e nella regolamentazione
della vita umana associata. Secondo questa visione il bene comune,
il bene cioè proprio della vita associata, è da pensare
come una sommatoria dei beni individuali. Posso azzerare un addendo
e non cambiare il risultato, purché aumenti proporzionatamente
gli altri. Fuori metafora: l’interesse dell’uno può essere
diminuito o azzerato purché resti o cresca l’interesse
di un numero maggiore di persone.
Quale è l’errore insito in questa visione? Ridurre l’uomo
a funzione sociale; negare cioè il suo carattere e la sua dignità di
persona. Mi spiego ricorrendo ancora ad una metafora aritmetica. Nella
moltiplicazione se azzero un fattore, il risultato è zero anche
se aumentassi all’infinito gli altri fattori. La persona, ogni
persona è unica ed irripetibile e non interscambiabile. Negarla,
fosse anche una sola, è ledere gravemente il bene comune della
comunità umana come tale. Ciascuno custodisce la dignità personale
di ciascuno, contrariamente a quanto pensava Caino.
Se non si radica il profilo morale e legale della vita associata in
una ontologia della persona che la ragione è in grado di scoprire,
la scala dei valori che si dice di istituire, sarà sempre rinnovata
da chi esercita il potere: un valore messo più alto sarà messo
più in basso e viceversa. Era già la lezione di Socrate
nel Gorgia platonico.
La controprova è che in fondo alla scala finiscono sempre i
diritti dei più deboli. Si condanna a morte un neonato. |