La sfida della “nuova” eugenetica

ROMA, domenica, 20 febbraio 2005 - Intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

«Se precettori specializzati, campeggi, programmi di training, persino la somministrazione dell’ormone della crescita per aumentare di qualche pollice la statura, rientrano nell’ambito discrezionale con cui i genitori allevano i figli, perché mai dovrebbe essere meno legittimo un intervento genetico teso a migliorare i normali caratteri della prole?», si chiede N. Agar, nel saggio Liberal Eugenics (in H. Kuhse e P. Singer, Bioethics, Blackwell, London 2000, p. 171).

Queste parole rappresentano un illuminante manifesto della “nuova” eugenetica, quella che a partire dagli anni Sessanta si è sviluppata fino ai giorni nostri, e che pur mostrandosi disinvolta e “liberale” non è meno inquietante di quella “classica”. Sebbene collegata alle più note forme di eugenetica sociale (riconducibile a sir Francis Galton e attraverso di lui a Charles Darwin), nonché di eugenetica razzista, l’eugenetica di cui oggi si parla punta a conquistare con un fascino più sottile e discreto, che rifugge gli altisonanti proclami sulla purezza della razza e sull’inferiorità di alcuni uomini, ma si appella fiduciosa ai progressi della biomedicina e al “diritto di scelta” per selezionare i tratti migliori degli esseri umani e scartare i peggiori.

Costi quel che costi. Anche se ciò vuol dire sopprimere embrioni umani prima di trasferirli in utero o eliminare feti nel grembo materno, o scegliere le caratteristiche genetiche dei gameti prima di procedere alla fecondazione. Questa eugenetica sembra non spaventare più di tanto, anche se, degli scomodi predecessori, conserva «la pregnanza delle […] motivazioni, […] l’intento di creare per mano dell’uomo un’umanità più sana e felice», perseguendo la medesima finalità, che «in forme nuove e con nuovi e più raffinati strumenti operativi, incontrerà molti consensi nel dopoguerra, inaugurando una nuova stagione dell’eugenetica e una sua diversa, più giustificata, legittimazione pubblica» (G. Widmann, Origini e breve storia dell’eugenetica, «Humanitas», 4/2004, p. 669).

Il fascicolo di luglio-agosto 2004 della rivista «Humanitas», da cui è tratto il passo citato di Widmann, analizza la questione dell’eugenetica in un numero monografico (La sfida dell’eugenetica. Scienza, filosofia, religione), che considera le varie angolazioni del tema, da quella storica a quella filosofica, da quella teologica e religiosa a quella culturale, da quella giuridica a quella letteraria. Un riferimento comune a molti contributi è il libro di J. Habermas Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (Einaudi, Torino 2002), in cui l’autore critica la “nuova” genetica, riconoscendovi le vestigia del passato e denunciandole risolutamente.

Il fatto è interessante per due ragioni: la prima è che Habermas è difficilmente accusabile di “integralismo cattolico”, viste le sue discutibili – discutibilissime – posizioni filosofiche; la seconda è il clima in cui, attraverso la battaglia referendaria sulla legge 40, si tenta di istituzionalizzare ancor di più, dopo la prima consacrazione della legge 194/1978 sull’interruzione di gravidanza, una mentalità apertamente selettiva (cioè eugenetica) nei confronti dei soggetti deboli e malati, specie se molto piccoli.

Lo si vuole fare per gradi, incominciando dall’eugenetica negativa, che appare più innocua poiché si limita a «prevenire, eliminare o neutralizzare i caratteri patologici» (L. De Carli, Biologia ed eugenetica, «Humanitas»…cit., p. 681), come è proprio di ogni buona medicina. Ma la sua “ovvietà” si annulla non appena si consideri che l’eliminazione dei “caratteri patologici”, molto spesso, si traduce nell’eliminazione del portatore di tali caratteri, cioè nel soggetto malato. Che generalmente è un embrione o un feto, ovvero un individuo poco combattivo, poco visibile e soprattutto molto silenzioso. La cosa agevola il compito, ma non ne diminuisce l’orrore.

L’eugenetica positiva, volta a potenziare alcuni caratteri fisici o psichici dovrebbe sembrare ancora più aberrante. Chi può arrogarsi il diritto di “costruire” le caratteristiche di un altro individuo, rendendolo simile ad un robot programmato, forse più avvenente della media ma inesorabilmente schiavo del desiderio (illusorio) di perfezione dei suoi genitori/committenti? Eppure nella visione dell’eugenetica liberale la prospettiva non indigna, dal momento che il criterio decisionale diviene l’incontestabile arbitrio individuale: «Le decisioni genetiche si vogliono […] affidare alle opzioni dei singoli genitori o come si suol dire nelle società di mercato guidate da interessi, profitti e preferenze, ai “desideri anarchici di clienti e consumatori”» (M. Nicoletti, La sfida dell’eugenetica nell’orizzonte della biopolitica, «Humanitas»…cit., p. 730). Se l’eugenetica di stato aveva i connotati della coercitività e dell’involontarietà, quella liberare ha quelli dell’assolutizzazione della libertà individuale e del relativismo.

Bisogna poi notare, con Habermas, che le attuali possibilità offerte dall’ingegneria genetica rendono difficile stabilire il confine fra interventi “negativi”, terapeutici, e “positivi”, migliorativi, senza contare che, come ha osservato più volte Jacques Testart, nel caso della selezione embrionale il procedimento selettivo sarà positivo per l’embrione scelto (“il migliore”) e negativo per tutti gli altri, quelli a cui si vuole “evitare” una patologia.

Di conseguenza, occorre ribadire una distinzione quasi scontata, ma purtroppo ignorata da parte della cultura attuale, cioè quella fra prevenzione di nascite malformate ed eliminazione dei malformati (cfr. L. Lorenzetti, La sfida dell’eugenetica. Una valutazione etica, «Humanitas»…cit., p. 757). La prima modalità di attenzione alla salute genetica dei nascituri (la prevenzione) è puntualmente contraddetta proprio dalle tecniche di fecondazione artificiale che pretendono di “risolvere” i problemi genetici: prime gravidanze ricercate a forza in età avanzata con conseguenti rischi per l’embrione, propagazione di anomalie genetiche legate alla sterilità o infertilità delle coppie richiedenti, alterazioni genetiche imputabili alle tecniche stesse di manipolazione dell’embrione e di trasferimento in utero, rischi connessi alla diagnosi prenatale e preimplantatoria.

Al contrario, un’adeguata prevenzione sarà quella che si avvale semmai della diagnostica pre-concepimento, dell’attenzione allo stile di vita (importante sia per preservare un buon livello di fertilità sia per agevolare le prime fasi della gravidanza), della maggior sicurezza possibile relativamente alle “condizioni” del concepimento (un concepimento naturale dà sempre maggiori garanzie di salute fetale delle fecondazioni in vitro), delle necessarie misure precauzionali in gravidanza (quanto a esposizione e assunzione di sostanze tossiche, ad accumulo di stress fisico ed emotivo, a corretta alimentazione e così via).

Eliminare feti attraverso l’aborto selettivo o embrioni a seguito della diagnosi pre-impianto non è invece in alcun modo una forma di prevenzione. Previene una nascita, non l’inizio di una vita malata, dal momento che è stato sufficientemente ed esaurientemente chiarito dalla scienza come l’inizio della vita umana debba collocarsi al momento della fecondazione, quando la testa dello spermatozoo irrompe nel citoplasma dell’ovulo trasformando due cellule complementari (l’ovocita e lo spermatozoo) in una nuova entità unica e irripetibile, che di lì in poi procede il suo sviluppo corporeo e psichico.

Descrive bene la duplice violenza dell’eugenetica negativa e positiva Carlo Casalone (Culto dei geni, accoglienza e cura della vita umana, «Humanitas»…cit., pp. 771-782). Nell’eugenetica negativa, spiega Casalone, «la biomedicina si colloca in posizione di giudice, compiendo una sorta di esame di ammissione all’esistenza, consentendo la tappa successiva» (ibid. , p. 774). Per quanto riguarda il significato più ristretto di eugenetica “positiva”, quello per cui l’eugenetica interviene non allo scopo di individuare il migliore, ma di alterare in senso migliorativo le cellule germinali o l’embrione, «occorre tenere presente il sottile equivoco che si alimenta. Infatti, cercare di modificare i caratteri trasmissibili significa assumere una precomprensione meccanicista secondo cui […] il genotipo si esprimerebbe immediatamente nel fenotipo» (ibidem).

Sappiamo in realtà che lo sviluppo psico-fisico dell’individuo è condizionato ma non rigidamente determinato dai geni, e che dalla composizione genetica di un persona non possiamo dedurre la sua qualità di vita e tanto meno decidere che quella vita non è degna di essere vissuta. Ciò vale anche per la manipolazione e la selezione dei gameti, tesa a circoscrivere una serie di caratteristiche che sarebbero preferibili nel figlio ideale, quello che davvero risponde ai desideri. Tali sono stati i tentativi di aprire banche del seme in cui confluissero gameti provenienti da soggetti selezionati per determinate caratteristiche fisiche o intellettuali allo scopo di ottenere bambini più “dotati”.

Habermas chiarisce che tale atteggiamento strumentalizza la persona umana; ostacola l’identità personale (che sembra in parte legata alla consapevolezza di avere avuto uno sviluppo “naturale”); causa squilibri nella relazione genitori-figli, che diviene sproporzionata a causa dell’eccessivo potere dei genitori; può intaccare la natura dell’agire umano, misteriosamente legata alla propria origine. Infine, stravolge il senso stesso della libertà umana, libertà che della nuova eugenetica è quasi il vessillo. Sorta da un desiderio incontrollato e orgoglioso di “poter fare”, l’eugenetica liberale si rivela profondamente violenta e totalitaria.

Dice Hans Jonas (Tecnica, medicina ed etica: prassi del principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1997): «E’ il potere dei viventi sugli uomini venturi, che sono gli oggetti inermi di decisioni prese in anticipo da chi pianifica oggi. L’altra faccia dell’odierno potere è la futura schiavitù dei vivi nei confronti dei morti» (p. 127).

La società illuministica e poi quella sovietica, nel furore rivoluzionario, avevano decretato “la morte dei padri”, cosicché le nuove generazioni rivoluzionarie eliminavano quelle precedenti, trovandosi sradicati. La società rivoluzionaria post-moderna è andata oltre, spingendosi, per un male inteso desiderio di perfezione, alla suicidaria eliminazione dei propri figli.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]