La geopolitica della Santa Sede analizzata alla luce delle dottrine dominanti: la realista, l’isolazionista, l’internazionalista, la neoconservatrice. Per la diplomazia vaticana anche la guerra può avere le sue giuste ragioni

[ di Sandro Magister www.chiesa.espressonline.it]

ROMA, 12 dicembre 2005 – L’avvicinarsi delle feste di Natale ha messo la sordina, in Vaticano, alle chiacchiere su un imminente cambio del segretario di stato. È facile prevedere che tali rumori torneranno in forza dopo le feste. Ma le voci che corrono su chi sarà il successore del cardinale Angelo Sodano – segretario di stato dal 1991 – hanno poca sostanza. Molto più importante è ragionare sulle linee direttrici che Benedetto XVI vorrà imprimere alla politica internazionale della Chiesa.

Certo, gli uomini contano. Con Giovanni Lajolo suo ministro degli esteri, con Celestino Migliore suo osservatore permanente alle Nazioni Unite, con Pietro Sambi suo nunzio in Israele – e prossimamente negli Stati Uniti, forse – la Santa Sede allinea diplomatici di prim’ordine. Ma per quale politica, in concreto? Per quale politica con la Cina, con il mondo islamico, con gli Stati Uniti? Giovanni Paolo II ha riportato la Chiesa al centro del mondo. Ma questa centralità, a maggior ragione, esige una geopolitica all’altezza.

Quella che segue è un’analisi della politica internazionale della Chiesa – nelle sue luci, nelle sue ombre, nelle sue confusioni – così come si profila all’inizio del pontificato di Benedetto XVI.

Come soggetto storico, la Chiesa ha un’originalità innegabile. È insieme città terrena e città celeste. Ma come città terrena appartiene al medesimo ordine degli stati. E quindi può essere analizzata entro questo ordine, secondo la sua maggiore o minore prossimità alle linee dominanti della politica internazionale degli ultimi decenni: la realista, l’isolazionista, l’internazionalista, la neoconservatrice, eccetera.

È quanto fa l’analisi qui pubblicata, con epicentro la questione pace-guerra. Essa si snoda in quattro momenti concatenati, i primi due molto rapidi: sfondo dottrinale, antecedenti storici, classificazione delle moderne dottrine geopolitiche e, infine, la geopolitica della Chiesa d’oggi alla luce di questa classificazione.

L’analisi è stata letta e discussa il 29 novembre 2005 a Vittorio Veneto, in un incontro dei Rotary Club della regione, presente il vescovo della città, Giuseppe Zenti:

Pace e guerra. La geopolitica del Vaticano

di Sandro Magister

Fin dalle origini il cristianesimo non ha mai escluso la guerra dall’orizzonte del praticabile e del giusto. Ai soldati, il severo Giovanni Battista non chiede di abbandonare le armi, ma di accontentarsi della paga. Ai suoi apostoli, Gesù non impedisce di portare la spada e Pietro la sfodera in difesa del Maestro, nell’orto degli ulivi. Il primo a riconoscere pubblicamente Gesù come Figlio di Dio, sulla croce, è il centurione romano.

A Cesare, cui il centurione obbedisce, Gesù ha detto di dare “ quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. I primi santi cristiani, alcuni dei quali soldati, sacrificano la vita non perché vogliono disubbidire a Cesare, ma perché rifiutano di riconoscerlo come Dio.

Nella Lettera ai Romani, capitolo 13, l’apostolo Paolo scrive che le autorità “sono al servizio di Dio” anche “per manifestare la sua collera verso chi fa il male”. Esse “hanno realmente il potere di punire”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato nel 1997 da Giovanni Paolo II e, più in breve, il suo Compendio promulgato nel 2005 da Benedetto XVI hanno dei paragrafi espressamente riguardanti la guerra. La legittimità morale della guerra – dice il Catechismo citando la costituzione “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II – “spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune. Coloro che si dedicano al servizio della patria nella vita militare sono servitori della sicurezza e della libertà dei popoli. Se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono veramente al bene comune della nazione e al mantenimento della pace” (nn. 2309-2310).

Nei venti secoli che vanno dal Nuovo Testamento al Catechismo, la dottrina detta della “guerra giusta” ha i suoi più autorevoli teorizzatori in sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino.

Sant’Agostino ne scrive nel libro XIX della “Città di Dio”, sullo sfondo delle invasioni barbariche e del sacco di Roma del 410, ma prima e più ancora sullo sfondo del peccato originale che segna l’umanità tutta e la sua storia terrena. Agostino definisce la pace internazionale “tranquillitas ordinis”. Quando aggressori ingiusti rompono tale ordine e mettono in pericolo un popolo, chi ha autorità su questo popolo ha il dovere di difenderlo e di operare per ripristinare le condizioni minime di un assetto internazionale regolato dal diritto, se necessario con la forza militare.

Sia per sant’Agostino che per san Tommaso la riflessione sulla guerra è ancorata ai principii della carità e della giustizia.
È dentro questo quadro dottrinale che la Chiesa si è mossa e si muove tuttora, in rapporto alla pace “in terris” e alla guerra.
È nel quadro di questa dottrina che la Chiesa, secolo dopo secolo, ha fatto e fa politica, in quanto mescolata alla storia e parte essa stessa dell’assetto politico internazionale.


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L’attuale geopolitica della Chiesa ha degli antecedenti storici che l’illuminano.

L’impero romano è il primo paesaggio sul quale la Chiesa si affaccia. Per descrivere il cammino della Chiesa nascente sospinta dal mandato di Gesù di portare il Vangelo “fino ai confini della terra” gli Atti degli Apostoli partono da Gerusalemme e terminano a Roma “caput mundi”.

E la Chiesa scopre che Roma è “cattolica” prima ancora di diventare cristiana. Cattolica perché universale. L’antica Roma fu questo: l’integrazione di ogni popolo entro un “diritto delle genti” pensato valido per l’intera umanità. Le legioni romane erano la sentinella armata dello spazio giuridico così creato, a tutela dei diritti di ciascun cittadino e della stabilità dell’ordine internazionale.

Ma perché la geopolitica della Chiesa si configuri nei termini a noi oggi famigliari occorre arrivare all’età moderna, al momento in cui il papato di Roma abbandona il sogno di una universale “Respublica Christiana” e si fa stato al pari di altri principati dell’epoca. Anzi, si mette alla testa del nascente, nuovo sistema europeo degli stati sovrani.

Costituendosi in principato, il papato di Roma si fa potenza politica, oltre che religiosa, in un mondo politico ormai divenuto policentrico. Le nunziature sono le sue rappresentanze diplomatiche stabili presso le più importanti corti europee. Dal Rinascimento alla metà del Seicento Roma è l’alta scuola dell’arte della diplomazia.

Nel nuovo ordine internazionale il papato abbraccia una politica realista, inizialmente molto aggressiva, almeno fino a Giulio II e Leone X, in un incessante sforzo per coalizzare equilibrii a sé favorevoli, tra stati tutti cristiani ma l’un contro l’altro armati.

L’universalismo della missione religiosa e civile del papa-principe traspare nella guerra contro l’infedele. All’immane catastrofe della caduta di Costantinopoli, nel 1453, la risposta di Pio II è il rilancio dell’idea di crociata, come lega dei principi cristiani, sotto la guida del papa, contro la minaccia musulmana sulla frontiera mediterranea e orientale. L’efficacia politica e militare dell’idea è nulla, come provano la caduta e il massacro di Otranto, nel 1480. Un secolo più tardi, l’idea di crociata ritorna con Pio V e la battaglia di Lepanto, nel 1571, ma solo ad opera di stati cattolici, in un’Europa già divenuta per metà protestante, e solo per brevissimo tempo. Con il rapido scioglimento della lega si perde anche la leadership politica del papa, nonostante l’attribuzione della vittoria sui turchi alla Madonna del Rosario, di cui si istituisce la festa.

Al di fuori di questi brevi lampi, già durante lo scontro tra Carlo V e Francesco I, nel Cinquecento, e poi più ancora nell’Europa disegnata dalla pace di Westfalia del 1648, al papato non resta che il ruolo politico di mediatore neutrale. Ruolo nobilmente motivato, ma che scade sempre più nell’impotenza e nell’irrilevanza. Dopo Westfalia, il papato finisce ai margini dalla grande scena internazionale.

Il suo peso è minimo anche nel rovesciare l’avanzata ottomana in Europa, alla fine del Seicento. Alla testa degli eserciti cristiani che a Vienna ricacciano indietro i turchi, nel 1683, non c’è il papa, nemmeno in simbolo. C’è il re polacco Giovanni Sobieski. A far da guida carismatica agli eserciti è un semplice frate cappuccino, Marco d’Aviano, beatificato da Giovanni Paolo II il 27 aprile 2003, all’insegna del motto, dopo la vittoria: “Veni, vidi, Deus vicit”.

L’origine di un sistema politico internazionale come quello che abbiamo conosciuto negli ultimi secoli si fa convenzionalmente risalire alla pace di Westfalia del 1648. È un sistema fondato non più su un disegno universalista, ma sulla sovranità inviolabile di ogni singolo stato entro i propri confini e sulla separazione tra politica e religione. Di tale sistema la Chiesa di Roma è parte.

La Chiesa di Roma soffre della sua estromissione dalla scena politica. A metà del Settecento, Benedetto XIV scrive in una lettera al cardinale de Tencin: “Eravamo preparati a essere martiri per la fede in Cristo, ma non per la neutralità”.

È una neutralità spesso contestata ed irrisa. Basti pensare alla caduta in disgrazia di Pio IX dopo il suo rifiuto di combattere con i risorgimentali italiani contro l’Austria cattolica. O all’isolamento di Benedetto XV dopo la sua denuncia della prima guerra mondiale come “inutile strage”. O all’esclusione della Santa Sede dalle conferenze di pace al termine delle due guerre mondiali.

Va precisato che quando il papato perde l’ultimo residuo dello stato pontificio, nel 1870, non per questo però perde ogni suo potere temporale. Continua ad esercitarlo in altra forma, tant’è vero che nunziature e concordati registrano da lì in avanti una moltiplicazione inarrestabile. La ripresa di un dominio territoriale, la Città del Vaticano, nel 1929, non è il ritorno, su scala ridotta, al precedente stato pontificio: soggetto sovrano internazionalmente riconosciuto non è lo stato vaticano, ma la Santa Sede, un’entità sovraterritoriale in cui “temporalia” e “spiritualia” continuano a fondersi.

Il sistema internazionale inaugurato a Westfalia resta sostanzialmente in vigore sino alla fine del XX secolo. La Guerra Fredda è stata anch’essa interna a questo sistema. Ma dopo il collasso dell’Unione Sovietica e più ancora dopo l’11 settembre 2001 il paesaggio internazionale cambia radicalmente. La sovranità inviolabile degli stati entro i propri confini non ne è più il pilastro indiscusso.

Oggi esiste al mondo una sola potenza egemone, gli Stati Uniti, sottoposta a tre sfide – politica, economica e militare – che non coincidono più in un solo soggetto. Sul terreno dell’egemonia politica globale lo sfidante numero uno, nel medio e nel lungo periodo, è la Cina. Sul terreno economico il rivale è l’Unione Europea. Sul terreno militare l’aggressore è l’islamismo terrorista. E questi tre soggetti sono tra loro diversi anche per natura. Uno solo, la Cina, è uno stato. L’Unione Europea è un’entità di incerta costituzione. E ancor più sfuggente è la fisionomia di Al Qaeda e simili. In un insieme così anarchico e asimmetrico, le categorie convenzionali non funzionano più.

E così può avvenire che un autorevole intellettuale cattolico americano e consigliere assai ascoltato alla Casa Bianca, Michael Novak, arrivi a Roma all’inizio di febbraio del 2003 per dire alle autorità vaticane che “nessuna superiore autorità morale avrebbe difficoltà a riconoscere che una guerra per prevenire questo nuovo tipo di jihad terroristica è non solo giusta ma moralmente obbligatoria”.

Come si sa, la “superiore autorità morale” impersonata da papa Giovanni Paolo II non condivideva tale giudizio. E disse forte la sua contrarietà alla guerra in Iraq.

Ma ciò nonostante, davanti al suo corpo morto, in San Pietro, si sono inginocchiati lo scorso 7 aprile i tre presidenti delle ultime cinque amministrazioni degli Stati Uniti. Al suo ufficio funebre sono accorse le autorità di quasi tutti gli stati della terra. Emarginato per tre secoli dal concerto degli stati, il papato di Roma è simbolicamente ritornato al centro del mondo. Davvero molto, moltissimo, è cambiato nel volgere di pochi decenni. Ma come? E come è cambiata, se è cambiata, la geopolitica vaticana?


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Per rispondere a queste domande, e quindi per decifrare la geopolitica vaticana di oggi, è utile metterla a confronto con le maggiori dottrine geopolitiche presenti sul campo.

Queste dottrine possono essere ricondotte ai due principali orientamenti della politica estera americana: da un lato i “realisti”, dall’altro i “wilsioniani”, dal nome del presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921, Woodrow Wilson.

Da sempre, il realismo è la scuola di pensiero dominante nelle relazioni internazionali. I suoi padri ispiratori sono riconosciuti nello storico greco Tucidide e nell’autore del “Principe”, Nicolò Machiavelli. Secondo i realisti, il sistema politico internazionale è per natura anarchico. Quindi l’equilibrio tra gli stati, al proprio interno sovrani, esige che i rapporti tra essi siano determinati dalle rispettive forze: politiche, economiche, militari. L’obiettivo di ogni stato è la difesa del proprio interesse nazionale: quando tale interesse è minacciato dall’esterno, va tutelato con la forza necessaria. Nel secolo XX, il teorico più rilevante del realismo è stato Hans Morgenthau (1904-1980). Egli definisce l’interesse nazionale come potere allo stato puro; la politica estera di una nazione è difesa ed espansione del suo potere; e nei rapporti tra gli stati le considerazioni di ordine morale non devono avere spazio. Esse valgono per gli individui, ma se trasposte sul terreno geopolitico si rovesciano in immoralismo. Su questo concorda un altro grande teorico del realismo che era anche teologo, il protestante Reinhold Niebuhr (1892-1971). Tra i presidenti americani, quello che più ha incarnato una Realpolitik interventista nelle relazioni internazionali è stato Theodore Roosevelt, in carica dal 1901 al 1909. In anni vicini a noi, tra i realisti di spicco si possono citare Henry Kissinger, che è stato segretario di stato con Richard Nixon nonché promotore della distensione con l’URSS e dell’apertura alla Cina, Zbigniew Brzezinski, Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale con George H. Bush all’epoca della prima guerra del Golfo, Samuel Huntington, autore dell’importante e controverso “Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”, John Mearsheimer. Sono di scuola realista anche i due successivi segretari di stato dell’attuale presidente George W. Bush: Colin Powell e Condoleezza Rice. In Italia, tra gli analisti di relazioni internazionali di orientamento realista, c’è Sergio Romano; tra i politici, Giulio Andreotti. Il mensile cattolico in più lingue diretto dallo stesso Andreotti, “30 Giorni”, è una coerente applicazione del realismo alla politica internazionale della Chiesa.

Naturalmente, il realismo non è sempre praticato allo stato puro. George Kennan (1904-2005), il teorico della politica di “containment” che ha dominato i rapporti tra USA e URSS dopo la seconda guerra mondiale, non riteneva contraddittori con l’interesse nazionale degli Stati Uniti la promozione nel mondo degli ideali di democrazia e libertà, nei limiti consentiti dall’equilibrio tra i due blocchi.

Ma ciò che distingue i wilsioniani dai realisti è proprio il primato dato a questi ideali. Per Wilson e per i suoi emuli gli Stati Uniti hanno nel mondo un ruolo quasi messianico. Il loro interesse nazionale coincide con la difesa e la diffusione nel mondo dei principi della libertà. Wilson era interventista, inviò le truppe americane in varie regioni del pianeta. Ma i suoi criteri segnavano un distacco rivoluzionario rispetto alle diplomazie degli stati europei fondate esclusivamente sui rapporti di forza. Al termine della prima guerra mondiale lanciò l’idea di un’organizzazione internazionale, la Società delle Nazioni antesignana dell’ONU, che avrebbe avuto per compito di mantenere la pace grazie non ai rapporti di forza ma a regole universalmente condivise. Il congresso americano, contrario a vincolare gli Stati Uniti alle decisioni di un organismo internazionale, respinse l’idea del suo presidente. Ma anche gli stati che entrarono a far parte della Società delle Nazioni, dall’Europa al Giappone, non smisero la vecchia logica e precipitarono pochi anni più avanti in un secondo conflitto mondiale.

L’idealismo universalista wilsoniano ha comunque ispirato correnti importanti della politica estera americana degli ultimi decenni. Gli antecedenti culturali dei wilsoniani sono il liberalismo filosofico ed economico di John Locke e di Adam Smith, così come il trattato “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant. Negli anni della Guerra Fredda, presidenti come Harry Truman, Dwight Eisenhower, John Kennedy hanno coniugato all’uso della forza per contrastare l’impero sovietico, in Europa come in Corea, a Cuba come in Vietnam, la promozione degli organismi internazionali e l’apertura dei mercati. Ma è soprattutto negli anni Novanta, con la presidenza di Bill Clinton, che il wilsonismo si afferma. E prende il nome di “internazionalismo liberal”. Tra i loro maggiori teorici attuali vi sono G. John Ikenberry, della Princeton University, Charles Kupchan, della Georgetown University di Washington, Joseph Nye, della Kennedy School of Government della Harvard University.

Gli internazionalisti liberal, da un lato, manifestano una fiducia quasi religiosa negli istituti internazionali, nell’ONU, nelle negoziazioni, nell’uso del “soft power”. Ma dall’altro lato sono decisamente interventisti. Hanno appoggiato le spedizioni militari ad Haiti, in Bosnia, nel Kosovo, nello stesso Iraq tra le due guerre. Non accettano però che l’impiego delle armi risponda a soli motivi di interesse nazionale. Le ragioni devono essere principalmente “umanitarie”. Gli internazionalisti liberal vedono la comunità internazionale come una sorta di comunità nazionale allargata, i cui valori universali, coincidenti con i “diritti umani”, vanno applicati, se necessario, anche piegando con la forza gli stati inadempienti.

Una variante di questa corrente è rappresentata dal pacifismo idealista. Senza arrivare al rifiuto delle armi assoluto, religioso, dei quaccheri, dei mennoniti e di qualche cattolico, tale pacifismo si esplica nel contrapporre sistematicamente al “diritto della forza” la “forza del diritto”, respingendo il primo e invocando la seconda in modo esclusivo, quasi le leggi scritte delle carte nazionali e internazionali che bandiscono la guerra abbiano in sé la capacità di autoadempiersi. Oppure, ancora, un certo pacifismo si esprime nell’isolazionismo della sinistra radicale di Noam Chomsky e Michael Moore, per i quali l’America è il male mentre il resto del mondo è il bene, e quindi essa non dovrebbe far altro che ritirarsi da tutto, disarmarsi e, appunto, isolarsi.

Ma c’è di più. Anche il reaganismo è stato a suo modo wilsoniano. Ronald Reagan si rivelò tale quando nel 1983 rilanciò l’attacco contro l’impero sovietico come “impero del male”. Per lui l’interesse nazionale coincideva con la vittoria della libertà come valore supremo. Egli sconfisse il blocco comunista e pose fine alla Guerra Fredda con i colpi congiunti di questa sfida ideale e di un riarmo americano spinto a livelli tecnologici stellari, oltre che con il sostegno dato alle milizie islamiche antirusse in Afghanistan, del tutto logico all’epoca, all’interno di quelle guerre periferiche per procura che le due maggiori potenze si muovevano l’una contro l’altra.

Con Bush padre, e poi, dopo la fase internazionalista liberal di Clinton, con l’inizio dell’amministrazione di Bush figlio, i realisti sono tornati al comando della politica estera americana. Poi però c’è stato l’11 settembre, e George W. Bush ha immediatamente cambiato politica, dando spazio a una nuova variante dell’eredità wilsoniana, quella dei “neoconservatori”.

Da Wilson i neoconservatori si distaccano perché non amano il multilateralismo, cioè l’agire con il mandato dell’ONU o comunque nel quadro degli organismi e delle alleanze internazionali. I “neocon” sono tendenzialmente unilateralisti: gli Stati Uniti decidano da soli, e chi ci sta ci sta. Ma sono wilsoniani in quanto il loro primo imperativo è espandere la democrazia e la libertà. Cambio di regime e costruzione della democrazia sono gli obiettivi della loro politica interventista rispetto alle tirannidi del mondo islamico, dall’Afghanistan all’Iraq, all’Iran, alla Siria: tutto l’opposto di decenni di politica filo-araba realista fatta di alleanze con regimi oppressori in nome di una stabilità mai ottenuta, ed anzi contraddetta dai fatti. Nell’amministrazione Bush, neoconservatori di spicco sono o sono stati Paul Wolfowitz, Richard Perle, Douglas Feith, Elliott Abrams. Loro alleati di fatto, sia pure con importanti riserve, sono il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla difesa Donald Rumsfeld. Ma le posizioni dei neoconservatori sono bilanciate dai realisti che dominano nelle forze armate e nel dipartimento di stato, retto prima da Powell e poi dalla Rice.

Insomma, varietà di dottrine per una varietà di politiche. Lo stesso si può dire per la geopolitica vaticana.


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Se si guarda al profilo religioso della Chiesa, alla spinta missionaria “fino ai confini della terra” che costitutivamente la anima, si è indotti a pensare che l’idealismo wilsioniano sia la politica internazionale che più le si adatta.

E in parte è così. Tra i quattordici punti con cui Wilson, nel gennaio del 1918, disegna il nuovo ordine mondiale e i sette punti della “Nota di pace” di Benedetto XV del 1 agosto 1917 vi sono delle affinità.

Ma la linea prevalente, nella geopolitica vaticana dell’ultimo mezzo secolo, è quella realista, coniugata con la virtù cardinale della prudenza. Realismo come equilibrio di forze tra gli stati e i popoli e come difesa dell’interesse nazionale, che equivale per la Chiesa alla difesa e all’espansione delle proprie istituzioni e dei propri fedeli.

Tipicamente realisti sono stati, ad esempio, i criteri che hanno guidato la politica della Santa Sede sia nei confronti del blocco comunista nei decenni della Guerra Fredda, sia, prima ancora, nei confronti del nazismo tedesco.

Anche i silenzi sugli orrori hitleriani che furono poi imputati a Pio XII rispondevano a considerazioni realiste. E così i silenzi di Paolo VI sui misfatti del comunismo.

I due papi ne erano consapevoli e ne soffrirono. Per capirlo, basti allineare queste due citazioni.

Pio XII, 1940, a proposito degli orrori nazisti: “Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e solo ci trattiene dal farlo il sapere che renderemmo la condizione di quegli infelici, se parlassimo, ancora più dura”.

Paolo VI, 1965, a proposito degli orrori comunisti: “La Santa Sede si astiene dall’alzare con più frequenza e veemenza la voce legittima della protesta e della deplorazione, non perché ignori o trascuri la realtà della cosa, ma per un pensiero riflesso di cristiana pazienza e per non provocare mali maggiori”.

Anche negli atti e nei documenti di Giovanni XXIII si riscontrano prudenze e silenzi analoghi. Nell’enciclica “Pacem in Terris” il comunismo non è mai chiamato per nome né condannato, proprio mentre infieriva contro le Chiese e i cristiani. Un pari silenzio è riscontrabile nei testi del Concilio Vaticano II.

Curiosamente, però, nei medesimi anni Sessanta e Settanta in cui scoppiarono le accuse più feroci contro i silenzi di Pio XII, gli analoghi silenzi del Vaticano sul comunismo furono avvolti dal plauso della pubblica opinione. Questi ultimi silenzi non erano nemmeno definiti tali: erano chiamati e apprezzati sotto un altro nome, quello del “dialogo”.

Un motivo – non il solo – è che c’era una forte affinità tra la Ostpolitik vaticana e la Ostpolitik dei governi europei dell’epoca. Mentre in un’America segnata dal disastro del Vietnam prevalevano le tendenze isolazioniste, in Europa si imponeva la linea del cancelliere tedesco Willy Brandt, molto comprensiva e distensiva nei confronti della politica di potenza di Mosca. La Santa Sede partecipò attivamente alla conferenza Est-Ovest di Helsinki, il cui atto finale, nel 1975, chiedeva sì, a parole, il rispetto dei diritti umani ovunque, quindi anche al di là della Cortina di Ferro, ma ribadiva la non ingerenza negli affari interni dei singoli stati.

Realismo, dunque. Ma non solo. Sempre in quegli anni, nella geopolitica della Santa Sede c’è anche dell’idealismo wilsoniano.

Dalla “Pacem in Terris” al discorso di Paolo VI all’ONU del 1965, ai messaggi per l’annuale Giornata Mondiale della Pace inaugurati dallo stesso papa nel capodanno del 1968, la Santa Sede esalta il ricorso alle organizzazioni internazionali sia per garantire la sicurezza collettiva, sia per promuovere i diritti umani, sia infine per scongiurare le guerre. Su quest’ultimo punto la “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII pubblicata nel 1963, che risente dell’impatto della crisi di Cuba di pochi mesi prima, definisce “quasi impossibile (‘alienum a ratione’, nel più drastico testo latino) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”. Ma nel 1967 Paolo VI torna a confermare nella “Populorum Progressio” la giustezza del ricorso estremo alle armi, in particolare nei casi di “tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese”.

Con Giovanni Paolo II la geopolitica vaticana si fa ancora più ricca di motivi ispiratori diversi.

Come suo segretario di stato, fino al 1991, il nuovo papa chiama l’artefice della Ostpolitik vaticana, Agostino Casaroli. Ma al realismo impersonato da questi intreccia l’idealismo di una nuova politica ad Est che ha per primo soggetto i popoli e in primo luogo il popolo della sua Polonia. È un idealismo rivoluzionario, quello di papa Karol Wojtyla, che si somma alla svolta impressa negli stessi anni da Reagan nello scontro col blocco sovietico. Una svolta che è anche verbale. Quello che Reagan bolla come “impero del male”, la Santa Sede lo definisce “vergogna del nostro tempo”, in un documento del 1984 (autore l’allora cardinale Joseph Ratzinger) che abbandona ogni eufemismo diplomatico nell’identificazione del nemico.

Quando, però, sulle macerie dell’impero sovietico, gli Stati Uniti si affermano come unica superpotenza mondiale, Giovanni Paolo II si fa di nuovo realista. Si oppone frontalmente alla guerra del 1990-91 condotta da Stati Uniti e alleati contro l’Iraq, nonostante essa abbia l’approvazione dell’ONU e sia finalizzata a restituire la legittima sovranità a uno stato invaso, il Kuwait. Tra gli “interessi” che motivano questa opposizione del papa il primo è la difesa della minoranza cristiana in Iraq. Un altro è il rifiuto di un nuovo ordine mondiale ad illimitata egemonia americana (vedi il discorso di Giovanni Paolo II al corpo diplomatico del 12 gennaio 1991). Un altro ancora è il proposito di instaurare tra la Chiesa e il mondo musulmano un rapporto non di scontro ma di “dialogo”, analogo a quello intercorso col blocco sovietico negli anni della Ostpolitik.

In effetti, negli anni a seguire, la Santa Sede proteggerà le sue offerte di dialogo al mondo musulmano con un generale silenzio sulle aggressioni provenienti da quel mondo, anche quando esse colpiranno i cristiani. Non esiterà a stringere occasionali alleanze – ad esempio contro la legittimazione e l’incentivazione dell’aborto, alla conferenza ONU del Cairo del 1994 – con governi musulmani clamorosamente oppressivi di libertà e diritti umani elementari. In obbedienza al realismo il papato subirà anche delle umiliazioni: come alla moschea di Damasco nel 2001, quando Giovanni Paolo II sopportò in silenzio che al suo fianco il presidente siriano si producesse, coinvolgendolo, in una sfrontata invettiva antiebraica.

Intanto però, sempre negli anni Novanta, nella tormentata regione dei Balcani la geopolitica vaticana torna a utilizzare il paradigma wilsoniano, o meglio, la sua variante internazionalista liberal, affermatasi negli Stati Uniti con le amministrazioni Clinton.

Nella Iugoslavia in guerra, la politica vaticana si fa decisamente interventista. Sul piano diplomatico la Santa Sede precede quasi tutti gli altri governi europei nel riconoscere la Slovenia e la Croazia come nuovi stati sovrani. E sul piano militare invoca in più occasioni che vengano dispiegati eserciti in difesa delle popolazioni a rischio di strage.

Il 7 agosto 1992 il cardinale segretario di stato Angelo Sodano lo dice a chiare lettere: “Gli stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere”. Nei mesi e negli anni successivi, in riferimento alla Bosnia, lo stesso Giovanni Paolo II predica più volte “il dovere di disarmare l’aggressore”. La svolta è notevole. In nome dell’”ingerenza umanitaria” armata il magistero papale fa cadere il dogma dell’inviolabilità delle frontiere. Anche per il Kosovo, alla fine del 1999, papa Wojtyla invoca un intervento militare della comunità internazionale. Ma nell’uno e nell’altro caso i fatti non corrispondono alle sue attese. A intervenire militarmente non è una coalizione sotto l’egida dell’ONU, condizione da lui ritenuta irrinunciabile. Sono gli Stati Uniti e la Nato. Il papa non manca di manifestare la sua disapprovazione.

Altre “ingerenze umanitarie” appoggiate dalla Santa Sede in quegli anni sono quelle a Timor Est, ad Haiti, nella regione africana dei Grandi Laghi : quest’ultima non attuata, col conseguente incontrollato genocidio di intere popolazioni. Basta questo per smentire la leggenda di un Giovanni Paolo II “pacifista”: attributo che egli stesso ha più volte negato gli appartenesse. Quanto al temuto “scontro di civiltà”, è interessante notare che per due volte, in Bosnia e nel Kosovo, la Santa Sede si è mossa a difesa di popolazioni non cristiane, ma musulmane.

Anche dopo l’11 settembre 2001, Giovanni Paolo II riconoscerà il “diritto a difendersi dal terrorismo”, di fatto approvando le operazioni belliche in Afghanistan. Ma al profilarsi di una nuova guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, voluta dagli Stati Uniti con George W. Bush presidente, egli dirà fin da subito tutta la sua contrarietà, con un crescendo martellante di atti.

Ed è questa l’immagine pubblica di papa Wojtyla che più resterà impressa, sullo sfondo di cortei pacifisti a Roma e nel mondo. Ma è un’immagine che non dà ragione dell’intera realtà.

Perché Giovanni Paolo II ha sì contrastato con tutte le sue forze la guerra in Iraq, ma non l’ha mai condannata come immorale. Non l’ha mai definita un “crimine contro l’umanità”, come invece fece una volta il suo ministro degli esteri Jean-Louis Tauran, con un’espressione che imporrebbe un aut aut radicale per ogni coscienza cristiana. Piuttosto, all’Angelus del 16 marzo 2003 papa Wojtyla disse: “Sappiamo bene che non è possibile la pace a ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto grande è questa responsabilità”, riferendosi alla competenza di decisione dei governanti con parole che echeggiano quelle del catechismo. Egli sapeva che tra persone a lui vicinissime e da lui molto stimate, ad esempio tra i sacerdoti e gli intellettuali cattolici della rivista di Cracovia sulla quale egli stesso aveva scritto, c’erano fautori convinti del cambio di regime in Iraq e dell’esportazione della democrazia in quel paese, anche con le armi. Sapeva, e riteneva tutto ciò sbagliato. Ma giudicava tali posizioni – molto simili a quelle dei neoconservatori americani – comunque legittime, non contrastanti con la fede cristiana.

Certo, in quei primi mesi del 2003, con incombente la guerra in Iraq, la linea dominante in Vaticano era di tipo realista. La conservazione dello “status quo” in quell’area era ritenuto il più sicuro antidoto contro il temutissimo “scontro di civiltà”, da cui la Chiesa doveva rimarcare con la massima forza la propria dissociazione. C’era poi in curia un “partito francese” che spingeva tale realismo all’estremo, e tratteggiò fino all’ultimo di Saddam Hussein un profilo quasi encomiastico, come fece il cardinale Roger Etchegaray di ritorno da una missione a Baghdad. C’era un partito pacifista sentimentale, rappresentato dall’”Osservatore Romano”. E c’era un partito accesamente antiamericano, delle cui tesi si fecero interpreti soprattutto due editoriali della “Civiltà Cattolica” stampati con l’imprimatur della segreteria di stato. In essi non mancavano punte d’invettiva nello stile della sinistra radicale di Noam Chomsky e Michael Moore, contro un’America imperialista pronta a “sconvolgere l’ordine mondiale” per sola avidità di petrolio.

Ma non era tutto. Il papa ha anche un suo vicario, che era ed è il cardinale Camillo Ruini. E questi, come presidente della conferenza episcopale italiana, ha un suo giornale, “Avvenire”, che aveva ed ha come commentatore di geopolitica un professore dell’Università Cattolica di Milano, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali, che è uno dei più riconosciuti specialisti italiani in materia, Vittorio Emanuele Parsi. E questi, a proposito dell’Iraq, prima, durante e dopo la guerra, è andato pubblicando su “Avvenire” analisi orientate non in senso realista, ma piuttosto tra il neoconservatore e l’internazionalista liberal, con “l’alleanza inevitabile” tra gli Stati Uniti e l’Europa – titolo del suo ultimo libro – come asse di una nuova politica internazionale finalizzata anche alla democratizzazione del mondo islamico, con il ricorso alla forza tra gli strumenti ammessi.

Nei mesi della guerra in Iraq, dunque, sotto l’icona di papa Wojtyla si muovevano, ai vertici della Chiesa, linee varie e talora contrastanti. Che però hanno trovato modo di ricomporsi in sostanziale unità a partire dall’autunno del 2003. Il punto di svolta è stato l’eccidio terrorista di Nassiriya del 12 novembre. E a segnare il nuovo orientamento è stata l’omelia del cardinale Ruini nella messa per i diciannove italiani uccisi:

“Amare anche i nostri nemici: è questo il grande tesoro che non dobbiamo lasciar strappare dalle nostre coscienze e dai nostri cuori, nemmeno da parte di terroristi assassini. Non fuggiremo davanti a loro, anzi, li fronteggeremo con tutto il coraggio, l´energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li odieremo, anzi, non ci stancheremo di sforzarci di far loro capire che tutto il nostro impegno, compreso quello militare, è orientato a salvaguardare e a promuovere una convivenza umana in cui ci siano spazio e dignità per ogni popolo, cultura e religione”.

Da lì in avanti, a partire da questo memorabile “non fuggiremo”, la Santa Sede ha costantemente definito non più come “occupazione” ma come “missione di pace” la presenza di truppe occidentali in Iraq a difesa della nascente democrazia.

Quella stessa linea realista, dunque, che in Vaticano aveva fortemente contrastato la guerra, ne difende ora i risultati ed esige che i soldati restino in Iraq, finché necessario, a tutela del formarsi di un nuovo ordine libero e pacifico che, per quanto precario, è giudicato molto più accettabile di un abbandono a se stesso di quel cruciale paese.

Insomma, nella visione vaticana della geopolitica, pace e guerra non sono tra loro necessariamente incompatibili. Oltre alla pace, anche la guerra può avere le sue giuste ragioni. L’ultima conferma di questa visione è di pochi mesi fa. Nel settembre 2005, alle Nazioni Unite, il nunzio Celestino Migliore ha presentato a nome della Santa Sede una proposta mirata proprio a coniugare la guerra con la pace. E l’ha spiegata così:

“Le guerre del XX secolo hanno mostrato come le politiche per la cessazione di una guerra e le pianificazioni operative post-belliche sono essenziali allo scopo di ristabilire giustizia e pace e di fornire protezione. Nel passato, è stata fatta giustamente molta attenzione allo ‘ius ad bellum’, cioè alle condizioni necessarie per il ricorso alla forza, e allo ‘ius in bello’, i parametri legali di comportamento etico durante la guerra. È giunto il momento di focalizzare e sviluppare una terza dimensione della giurisprudenza legata alla guerra, cioè lo ‘ius post bellum’, ovvero come raggiungere rapidamente ed efficacemente lo stabilimento di una pace giusta e duratura, che è l’unico obiettivo ammissibile per l’uso della forza”.