[ di Sandro Magister www.chiesa.espressonline.it]

Come e perché l’Iraq dà lezione al mondo. E anche alla Chiesa.

Lo spiega l’intellettuale musulmano Khaled Fouad Allam. Tra islam e democrazia l’intreccio è possibile, e in Iraq sta diventando realtà. Ma in Vaticano sono scettici.

ROMA, 31 ottobre 2005 – “L’Osservatore Romano” ha dato notizia dell’approvazione popolare della nuova costituzione in Iraq con il titolo di testa, in prima pagina dell’edizione del 26 ottobre. E ha fatto precedere il servizio da una breve nota in carattere “bold”, che solitamente segnala la mano della segreteria di stato nella scrittura del testo.

Pur nella freddezza con cui usa trattare la vicenda irachena, il quotidiano della Santa Sede ha definito l’esito del referendum “un passo avanti lungo il difficile e faticoso processo politico dell'Iraq”. E ha così proseguito:

“Di fronte alla strategia del terrore, che non conosce tregua, s'impone sempre più l'urgenza di adeguate soluzioni politiche – da adottare concordemente nell'ambito interno e nel contesto internazionale – in grado di assicurare al paese sufficiente serenità e stabilità. In questo senso sembra di buon auspicio l'approvazione della nuova costituzione, premessa per ulteriori progressi nel cammino verso una reale democrazia”.

Lo stesso giorno, da Amman dove era in viaggio, ha commentato l’esito del referendum anche il nunzio vaticano in Iraq, l’arcivescovo Fernando Filoni, intervistato dall’agenzia “Asia News”.

Il nunzio ha tenuto ad apprezzare come “fatto in sé positivo” anzitutto la grande partecipazione dei cittadini iracheni al voto: “segno della voglia che la gente ha nel voler ricostruire e ricominciare”. Ha lamentato che la nuova costituzione “ha delle lampanti contraddizioni: da una parte si vuole renderla un modello per il Medio Oriente, dall’altra cade in alcuni elementi tradizionalisti”. Ma ha aggiunto che il prossimo governo “avrà almeno quattro mesi per migliorarne alcuni aspetti, e questa è una via d’uscita per risolvere contenziosi che altrimenti sarebbero più problematici e violenti”.

La principale contraddizione denunciata nella nuova carta costituzionale anche da vari vescovi cattolici iracheni è tra gli articoli 2.1 (b) e 2.2, che difendono le libertà e i diritti religiosi, e l’articolo 2.1 (a), che stabilisce che “è proibito approvare una legge che contraddica le regole dell’islam”.

Inoltre, il nunzio Filoni ha lamentato il calo d’attenzione della comunità internazionale verso l’Iraq: “Esso è frutto di mancanza di informazione. Quando vi sono mezzi di comunicazione sociale sul posto, è più facile interessare e appassionare la comunità internazionale. I rapimenti dei giornalisti hanno prodotto questo black-out. Nel momento in cui è mancato l’olio della lampada – l’informazione – anche l’interesse del mondo è scemato”.

Più che una mancanza d’informazione, tuttavia, è un’incapacità a capire la novità dei fatti e ad analizzarli in modo nuovo che spiega il calo d’attenzione sull’Iraq. Questo, almeno, è il giudizio di un importante commentatore musulmano, Khaled Fouad Allam, algerino di nascita e cittadino italiano, professore di islamologia alle università di Trieste e di Urbino, molto stimato in Vaticano (ma non altrettanto ascoltato). Allam ha argomentato questo suo giudizio in una nota sul più diffuso quotidiano progressista italiano, “la Repubblica”, di cui è editorialista.

In questa sua nota – riportata più sotto – Allam non fa cenno esplicito al Vaticano, né alla Chiesa cattolica. Critica però a fondo gli schemi di giudizio sul caso Iraq ricorrenti nella politica e nella cultura europee, in particolare di sinistra. E si sa che gli orientamenti prevalenti in campo cattolico e tra le stesse autorità vaticane, sulla questione irachena, sono in larga parte gli stessi della sinistra europea. In particolare, tra i dirigenti vaticani, non c’è solo la risaputa contrarietà ad “esportare” la democrazia con le armi nei paesi arabo-islamici. In alcuni c’è scetticismo sulla stessa compatibilità dell’islam con la democrazia.

Anche la comunità cattolica in Iraq è divisa. Al voto sulla nuova costituzione i cristiani iracheni sono andati in ordine sparso, con alcuni gruppi schierati per il “no”. Tra loro c’è chi teme l’imporsi di un regime teocratico.Per Allam è invece in atto nel mondo arabo-islamico, con epicentro l’Iraq, un cambiamento epocale di apertura alla libertà. Di fronte al quale “è necessario un nuovo sguardo” da parte di tutti, compresa la Chiesa.

Dall’Iraq che si apre alla democrazia – scrive Allam – viene “una lezione al mondo intero e soprattutto a coloro che negli ultimi tre anni non hanno fatto che dubitare sulle questioni del secolo: democrazia e mondo arabo, democrazia e islam, esportazione della democrazia”.


Ecco dunque la sua nota, apparsa su “la Repubblica” del 26 ottobre 2005:

È esportata, ma è democrazia - di Khaled Fouad Allam

Ogni volta che il terrorismo irrompe nella cronaca dopo un periodo di silenzio, sembra che esso sia capace di invertire il corso della storia. Ma in questa gara terribile fra azione terroristica e ineluttabilità della storia, vince la seconda. Nel caso dell’Iraq, ciò significa che gli iracheni non hanno alternative al negoziato fra le diverse componenti etnico-confessionali, perché Saddam Hussein non tornerà mai più e il capitolo del nazionalismo arabo si sta concludendo.

Qualche mese fa, a proposito delle elezioni in Iraq del 30 gennaio, il leader del maggior partito della sinistra italiana, Piero Fassino, con lucidità e coraggio affermò che in quella occasione i veri democratici erano il popolo iracheno che, sfidando il terrorismo, obbligava gli occidentali a una lettura diversa di quanto stava accadendo in quella parte del mondo arabo.

Le votazioni si sono ripetute in Iraq durante l’anno, con una partecipazione sempre crescente: come se quel popolo avesse deciso di dare una lezione non soltanto al terrorismo, ma al mondo intero e soprattutto a coloro che negli ultimi tre anni non hanno fatto che dubitare sulle questioni del secolo: democrazia e mondo arabo, democrazia e islam, esportazione della democrazia.

L’opinione pubblica europea si è divisa tra chi giustificava l’azione di guerra come mezzo di esportazione della democrazia e chi invece contestava l’azione americana.

In Italia, lo spirito della costituzione nazionale che nell’articolo 11 ripudia la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, la forte impronta della sensibilità cattolica che a qualsiasi guerra oppone l’ideale della non violenza, e soprattutto l’ ideologia culturalista sottesa a buona parte dell’approccio europeo al mondo arabo e all’islam sono tutti elementi che hanno influito sul posizionamento di fronte alla questione irachena.

A quasi tre anni dall’inizio della guerra, è necessario un nuovo sguardo sul Medio Oriente e sul mondo arabo.

Oggi, che lo si voglia o no, quel mondo sta cambiando, perché la guerra in Iraq inaugura comunque quello che è stato chiamato il “momento americano”, e mette in luce l’assenza di un progetto politico europeo sulle grandi questioni che attraversano quelle società.

Certo, si tratta di una “democratizzazione imperiale”, su cui pesano palesi errori: destrutturazione della società irachena attraverso la totale cancellazione del vecchio apparato dello stato legato al partito Ba’ath; percezione comunitarista di quella nazione, per cui la “building policy” è partita dal presupposto di una società divisa per linee etniche e confessionali.

Ma a ben guardare sono errori in cui probabilmente anche l’Europa sarebbe incorsa.

Sono gli errori che l’Europa aveva fatto nel 1921 in Iraq, con la repressione britannica delle ribellioni sciite, poiché già allora gli sciiti rivendicavano una partecipazione politica. Il colonialismo franco-britannico ha sempre appoggiato i sunniti, perché da secoli erano essi l’élite del paese, anche se costituivano una minoranza. E il nazionalismo arabo ha perpetuato quella situazione.

Ma ora tutto ciò è morto o sta morendo, definitivamente. E bisogna capire che il rovesciamento in atto produrrà un effetto su larga scala, nel Medio Oriente e nel mondo arabo in generale.

Le pressioni esercitate dagli Stati Uniti sulla Siria hanno già ottenuto l’abbandono del protettorato siriano sul Libano. E questo non va separato da quanto è avvenuto in Iraq. Entrambi gli eventi sono il prodotto di una nuova storia, la lenta decomposizione dell’autoritarismo politico nel Medio Oriente.E se in passato la Francia ha formato le élite del mondo arabo – come ad esempio Michel Afflak, uno dei fondatori del partito Ba’ath, laureatosi alla Sorbona – oggi le nuove élite arabe preferiscono studiare a Stanford o a Princeton piuttosto che a Parigi.Ciò non significa assolutamente la fine di una tradizione europea, di uno sguardo europeo sul mondo arabo. Bisogna però che la politica aiuti a reinvestire in quella dimensione storica che gli europei hanno perduto.

L’Europa deve mutare il proprio sguardo verso il mondo arabo e islamico progettando politicamente, gettando le basi di un partenariato che non sia più figlio di una dialettica fra dominante e dominati, bensì prodotto di una nuova storia.L’Italia, in particolare, ha bisogno del mondo arabo e il mondo arabo ha bisogno dell’Italia. Come la Spagna ha instaurato con l’America Latina un rapporto storico determinante, l’Italia – collocata in mezzo al Mediterraneo, alla confluenza dell’islam dei Balcani e dell’islam afro-arabo – si trova quasi obbligata a definire una sua politica araba, una sua politica in relazione all’islam.

Mentre la “democrazia imperiale” americana ha bruscamente inaugurato una nuova era per i popoli del Medio Oriente, la sinistra deve promuovere uno sguardo autentico sulle società civili del mondo arabo, tenendo conto che non sono le stesse dei paesi dell’Est europeo. Il Libano non è l’Ucraina, e il mondo arabo oppresso da dittature e regimi autoritari per oltre cinquant’anni – e, prima, dai regimi coloniali – non ha avuto il suo Solgenitsin, non ha avuto il suo Arcipelago Gulag, non ha saputo denunciare al mondo la barbarie che stava subendo.

Certo, nel mondo arabo non vi è stato un universo concentrazionario come nell’Unione Sovietica. Ma molti hanno pagato di persona la denuncia dell’assenza di libertà. Inoltre si deve sottolineare che l’Europa raramente ha ascoltato le voci di dissidenza da quel mondo, voci che gridavano l’assenza di libertà.

Certo, la questione della legittimità di un’azione di guerra si pone, e si porrà sempre. Ma quella domanda non congela la storia: perché la storia va avanti. La storia è qualcosa di troppo serio per poterla liquidare in un dibattito in cui le voci a favore sono tante quante le contrarie. La richiesta del figlio di Hariri di far giudicare gli assassini dell’ex primo ministro del Libano da un tribunale internazionale è sintomo di una storia che sta cambiando. E il pur contestato processo a Saddam Hussein avrà una funzione fortemente catartica nell’immaginario collettivo arabo. Significherà la riconsegna della propria storia al popolo iracheno. Ritengo perciò importante che il processo si svolga in lingua araba.

Prendere atto di tutto ciò porta a concludere che la democrazia non è un lusso per alcuni popoli privilegiati, e che la geopolitica del Medio Oriente sta uscendo definitivamente dall’assetto in zone di influenza che l’avevano intrappolata durante il XX secolo.

Significa pensare nuovi rapporti con il mondo arabo, e un nuovo approccio all’islam. In quest’ottica la questione della Turchia è di fondamentale importanza, perché anch’essa porta a rovesciare tutte le precedenti prospettive. Se entrerà nell’Unione Europea, quella della Turchia non sarà una storia a parte, ma parte di una storia, la storia d’Europa.

Pochi giorni dopo la caduta del regime iracheno, il 10 aprile 2003, in un editoriale del quotidiano marocchino “Bayane al-Yum” si poteva leggere: “Se la vera democrazia non arriva dall’esterno con i carri armati, ciò significa che tutti coloro che sono interpellati dalla lezione della democrazia devono aprire gli occhi e gettare essi le basi della democrazia, e dotare i loro paesi della forza del diritto e della legge, e dei valori di libertà indispensabili per ogni paese e qualsiasi popolo”.

Per me esistono alcune immagini di questo nuovo sguardo euro-arabo: il palazzo dell’Alhambra a Granada, la Zisa a Palermo. Essi devono essere simbolo non più di un mondo decaduto, ma di un’Europa che si ricongiunge con la propria storia, perché anche essi sono simboli dell’Europa.


Gli ultimi due libri di Khaled Fouad Allam sono “L’islam globale” e “Lettera a un kamikaze”, editi in Italia da Rizzoli, il primo tradotto anche in Germania.

A commento del discorso rivolto a Colonia il 20 agosto 2005 da Benedetto XVI a rappresentanti delle comunità musulmane, Allam ha detto al quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”:

“Le parole di Benedetto XVI sono per noi musulmani un salutare scossone. In un momento in cui all’interno delle nostre comunità sembrano imperversare i cattivi maestri, le sue parole sono un incoraggiamento a far emergere i veri educatori, che esistono e sono all’opera, ma non riescono a far sentire la loro voce come sarebbe invece necessario. Il papa ha ragione quando dice che non ci può più essere spazio per l’apatia e il disimpegno. Ci vuole il coraggio della denuncia per isolare chi ha una lingua di fuoco e incita alla violenza usando il nome di Dio”.

In Vaticano, la più esplicita professione di scetticismo nei confronti della compatibilità tra islam e democrazia è stato l’editoriale della “Civiltà Cattolica” del 7 febbraio 2004, pubblicato con l’imprimatur della segreteria di stato.

In esso, non solo si condannava come “particolarmente offensiva per la comunità islamica la pretesa di volervi esportare la democrazia occidentale”, ma si specificava che secondo l’islam “la democrazia toglie la sovranità ad Allah per trasferirla al popolo, ciò che per un musulmano credente è un atto di miscredenza”.