L'egemonia iraniana -Il
revival dei musulmani sciiti
Sandro Magister -www.chiesa.espressonline.it
ROMA, 8 agosto 2006 – Quasi negli stessi giorni, un libro e un
saggio di Vali Nasr su “Foreign Affairs”, un’inchiesta
di Peter Waldman su “The Wall Street Journal” e in Italia
un editoriale di Khaled Fouad Allam su “la Repubblica” hanno
tutti richiamato l’attenzione sulla svolta
storica che è in
atto nel mondo musulmano: il “revival” degli sciiti.
“The Shia revival” è appunto il titolo del libro
che Vali Nasr ha dedicato al tema. L’autore, 46 anni, è nato
in Iran ed è figlio di un islamologo di un’importante
famiglia che discende del profeta Maometto. Entrambi hanno vissuto
a Teheran fino alla rivoluzione khomeinista del 1979, dopo di che sono
emigrati negli Stati Uniti. Il padre, Seyyed Hossein Nasr, insegna
alla George Washington University, mentre il figlio è professore
alla Naval Postgraduate School di Monterey, in California.
Sia nel libro – edito negli Stati Uniti da W.W. Norton & Co. – sia
in un saggio pubblicato sul numero di luglio-agosto di “Foreign
Affairs”, la prestigiosa rivista americana di geopolitica,
Nasr allinea una serie impressionante di dati a sostegno della sua
tesi.
La novità più importante è avvenuta in Iraq.
Lì gli sciiti, che sono la maggioranza della popolazione, fino
alla caduta di Saddam Hussein erano sempre rimasti esclusi dal potere.
Ora no. La parte più consistente del comando è loro.
La città santa di Najaf è più che mai la capitale
religiosa mondiale dei musulmani sciiti. I santuari iracheni di Najaf
e Kerbala sono meta crescente di pellegrinaggi da paesi vicini e lontani.
I legami col regime sciita iraniano sono sempre più stretti.
Ma cambiamenti altrettanto forti sono in corso in un’area molto
più estesa, che va dal Libano all’Asia centrale. Il potere
sciita non è più concentrato nel solo Iran e non si
limita più alle sole popolazioni persiane. Dall’Iran e
dall’Iraq si espande in Libano con il “partito di Dio” Hezbollah,
in Arabia Saudita, negli stati del Golfo, in Pakistan, in forme sempre
più transnazionali. Scrive Nasr su “Foreign Affairs”:
“L’antagonismo etnico tra arabi e persiani non è più così importante,
quando il supremo leader religioso dell’Iraq, il grande ayatollah
Ali Sistani, è iraniano e il capo della magistratura dell’Iran,
Mahmoud Shahroudi, è iracheno”.
Nell’inchiesta
pubblicata su “The Wall Street Journal” del 4 agosto, Peter
Waldman riferisce che l’amministrazione di George W. Bush segue
con crescente attenzione quello che Nasr va sostenendo. Due assistenti
di politica internazionale della Casa Bianca sono andati a una sua
conferenza a Washington, ai primi di agosto. Condoleezza Rice ha avuto
con lui un colloquio. “Ma la sua influenza sulla politica degli
Stati Uniti non è evidente”, per ora.
Nasr sostiene che gli Stati Uniti debbano riconoscere all’Iran
un ruolo di potenza regionale ed entrare in trattativa con esso,
rinunciare al rovesciamento del regime di Teheran e lavorare piuttosto
per limitarne l’espansione.
In altre parole, Nasr propone una politica realista di “containment”:
l’opposto di quella neoconservatrice teorizzata dall’islamologo
sinora più ascoltato dall’amministrazione Bush, Bernard
Lewis, e fondata sull’ipotesi che la democratizzazione dell’Iraq
produca la caduta delle tirannie confinanti, in primis quella iraniana.
A giudizio di Nasr, la politica americana ha creato in Iraq il primo
stato arabo a dominio sciita e con ciò ha esaltato le aspirazioni
dei 150 milioni di sciiti nel mondo, ma fa l’errore di continuare
a operare sotto il “vecchio paradigma” del predominio sunnita
nel “Grande Medio Oriente”.
La frattura tra sciiti e sunniti risale alla morte di Maometto e
alla nomina dei successori. Gli sciiti presero “partito” – in
arabo shi’a – per il genero di Maometto, Ali. Ma prevalsero
i sostenitori di altri tre califfi, prima di lui. E dopo che finalmente
anche Ali divenne califfo, fu ucciso. Anche suo figlio Hussein fu
sconfitto e ucciso. Da allora la memoria del martirio di Hussein,
avvenuto nella regione che oggi è l’Iraq, è il
culmine dell’anno
liturgico dei musulmani sciiti. Le differenze tra sunniti e sciiti
toccano anche importanti punti di dottrina, al punto che le correnti
sunnite più radicali giudicano gli sciiti eretici.
Nel suo saggio su “Foreign Affairs”, Nasr fornisce queste
statistiche sulla presenza degli sciiti nei vari paesi, in percentuale
sulla popolazione:
Iran 90 per cento
Azerbaigian 75
Bahrein 75
Iraq 65
Libano 45
Kuwait 30
Pakistan 20
Afganistan 19
Qatar 16
Arabia Saudita 10
Emirati Arabi Uniti 6
Siria 1
Queste percentuali tengono conto solo del ramo principale degli sciiti,
i duodecimani. Ma sono sciiti anche gli aleviti, presenti in gran
numero in Turchia, gli alawiti, al potere in Siria con la famiglia
Assad, e gli ismailiti dell’Aga Khan, diffusi in Afganistan e più ancora
in Pakistan.
Con l’Iran la Santa Sede intrattiene regolari rapporti diplomatici.
Per sua tradizione, la diplomazia vaticana è più in
sintonia con il realismo propugnato da Nasr che con la politica di “regime
change” dei neoconservatori americani.
L’egemonia iraniana
di Khaled Fouad Allam
Khaled Fouad Allam – islamologo algerino che vive in Italia
ed insegna alle università di Trieste e Urbino, molto stimato
e ascoltato dalla Chiesa di Roma – spinge la sua analisi ancora
più a fondo.
Il risveglio sciita è in larga misura ispirato
dalla rivoluzione khomeinista, che per la prima volta attrae settori
importanti del mondo arabo e sunnita e minaccia di estendersi all’intero
Medio Oriente. L’Iran può così diventare oggi,
anche sul piano politico, quello che non fu mai quando Khomeini era
in vita: una grande potenza regionale.
Quali conseguenze derivano nella politica internazionale?
« Uno degli effetti dell’attuale conflitto
in Libano è che
cambieranno i rapporti di forza fra sciiti e sunniti.
Dal Libano e dal ruolo di Hezbollah [ Hezbollah dall'
Arabo: ḥizbu-llā , Partito
di Dio è un organizzazione islamica sciita con una propria milizia
civile e militare in Libano-n.d.r. ] appare una prospettiva
sconvolgente: ciò che non era riuscita a fare la rivoluzione
khomeinista, lo sta facendo il movimento Hezbollah. Esso tende a
monopolizzare la questione palestinese trasformandola in una questione
sciita, per poi internazionalizzare l’ideologia della rivoluzione
khomeinista.
In effetti, mentre in Iran le tendenze nazionaliste avevano funzionato
da freno alla rivoluzione sciita dell'ayatollah Khomeini, ora il
partito Hezbollah minaccia di estendere quella rivoluzione a gran
parte del Medio Oriente. Si sta realizzando il sogno del pan-sciismo,
che era s tato congelato all’inizio degli anni Novanta per
pragmatismo politico.
Attraverso Hezbollah e la situazione irachena gli sciiti iraniani
vedono rafforzarsi la loro posizione. L’Iraq, fatto senza precedenti
nella storia del mondo islamico, è diventato improvvisamente
il secondo paese sciita del mondo. E anche se vi sono forti differenze
etniche tra sciiti iraniani e sciiti arabi, Hezbollah riesce a operare
una congiunzione fra essi. La congiunzione si fonda sulla stessa
rivoluzione di Khomeini che, va ricordato, non è nata a Qom,
in Iran, bensì nelle università irachene di Najaf.
Gli sciiti arabi rivoluzionari e gli sciiti iraniani rivoluzionari
hanno un leader in comune: Mohammed Bakr Sadr, vero ispiratore del
Wilayat al Faqih, il governo dei dotti, formula politica inventata
a Najaf ed applicata nell’Iran khomeinista. Le librerie del
sud del Libano traboccano degli scritti di questo ayatollah, che
fu messo a morte da Saddam Hussein nel 1982. Hezbollah si è nutrito
di questo tipo di letteratura politica; certo, esso si è configurato
negli ultimi anni come un partito armato nel paesaggio politico libanese, è rappresentato
in parlamento, ma non ha mai abbandonato la sua valenza transnazionale.
In effetti, in tutti i movimenti politico-religiosi dell’islam
contemporaneo la nazione è considerata un momento storico
da superare, per arrivare un giorno alla grande Umma transnazionale:
per i sunniti il califfato, per gli sciiti uno stato che va dall'Iran
al Libano passando per l’Iraq e il Bahrein.
Da una parte l’attuale conflitto in Libano rischia di dare
man forte al terrorismo di matrice sunnita, come quello di al Qaida
che nei suoi proclami continua a ribadire che gli sciiti sono miscredenti,
e che la loro attuale ascesa politica in Iraq è illegittima
e quindi va demolita.
Da un’altra parte l’attivismo sciita rivoluzionario continua
ad esercitare, come all' inizio della rivoluzione khomeinista degli
anni Ottanta, un certo fascino anche sui sunniti. Secondo alcuni
ideologi sunniti, lo sciismo rivoluzionario fornisce un modello di
stato islamico: sogno dei Fratelli Musulmani che essi non sono mai
riusciti a elaborare teoricamente e concretamente, ma che oggi sembra
più vicino.
Si delinea dunque un forte rischio di conflitto tra sciiti e sunniti.
I regimi mediorientali sono tutti in allarme, sia per il rischio
dell’avanzata di un nuovo pan-sciismo, sia per il pericolo
che la questione palestinese sia monopolizzata da Hezbollah, che
così risucchierebbe anche Hamas. Mentre vent’anni fa
la contestazione palestinese era alimentata dal nazionalismo arabo,
oggi lo sciismo radicale ne sta prendendo la guida, internazionalizzando
il conflitto sul piano regionale. Le strutture di Hamas sono già una
copia di quelle di Hezbollah: la loro letteratura di propaganda veicola
la stessa mistica rivoluzionaria, e per entrambi Israele non dovrebbe
esistere.
Ma la cosa che appare più sorprendente è l’attuale
silenzio di al Qaida, un silenzio che fa capire come essa si trovi
in realtà intrappolata: perché colta di sorpresa dal
modo in cui gli Hezbollah hanno sfidato Israele entrando militarmente
in guerra; e perché si trova in concorrenza sul suo stesso
terreno, la questione palestinese, con Hezbollah, che con una diversa
strategia militare e politica e una diversa propaganda riporta al
centro della scena il conflitto israelo-palestinese cercando di aggregare
le forze più disparate del Medio Oriente. La contrapposizione
tra al Qaida e Hezbollah aumenterà di intensità nei
prossimi mesi, a motivo del radicale rifiuto dello sciismo da parte
dei sunniti salafiti di al Qaida.
Tutto ciò rischia di riprodursi oggi anche in Iraq, dove le
milizie di Muqtada al Sadr non sono molto diverse da quelle di Hezbollah.
Ma l’elemento più importante è che attraverso
l’Iraq si rafforza l’Iran il quale, anche se per motivi
tattici durante l’intero conflitto iracheno ha mantenuto un
basso profilo, sempre più si delinea come la grande potenza
regionale del Medio Oriente.
Un motivo è che in Iraq, come in Libano, si congiungono lo
sciismo radicale arabo e quello iraniano: e questo fa paura a tutte
le cancellerie del Medio Oriente.
Un altro motivo è che oggi, con il rovesciamento dei rapporti
di forza ancestrali che la storia aveva costruito lungo i secoli
e che in una primavera del 2003 sono sfumati a Bagdad, non si profila
più il risuonare metallico delle sciabole, ma l’incubo
della questione nucleare. »