Il Papa non vuole
evitare la parte critica nel dialogo con l'Islam.
“Asse del sacro” e
critica interreligiosa. Bisanzio a Ratisbona
di Pietro De Marco -esperto
in geopolitica religiosa, professore all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica
dell'Italia Centrale;
www-chiesa.espressonline.it
Vi è un disegno di taglio inconfondibile nell’importante
discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona. È la
volontà del papa di non evitare la parte critica entro il suo
rapporto dialogico con l’islam, ovvero entro quella stessa prospettiva
che è stata anche definita impropriamente un “asse del
sacro” cristiano-islamico.
La profonda visione strategica di papa Benedetto sembra operare ad
integrazione del magistero di Giovanni Paolo II, con le stesse caratteristiche
di fermo discernimento sui temi della verità e della ragione
che Joseph Ratzinger aveva esercitato, come prefetto della congregazione
per la dottrina della fede, di fronte alle derive teologiche interne
alla Chiesa.
Si trattava, e si tratta oggi su altro fronte, di assumersi il rischio
di dire “opportune et importune” l’eccesso e l’errore,
quando dottrine e condotte oltrepassino soglie estreme di tollerabilità.
Lo spazio di tolleranza implicito nella ricerca e nella condotta dialogica,
e richiesto dalla sua stessa logica profonda, ha comunque i suoi confini.
Anzi, questi ultimi sono la condizione stessa della sensatezza del
confronto: senza confini di accettabilità che si impongano
ai protagonisti, si dissolve la ragione del dialogo e ogni risultato
diviene in sé indifferente.
La costante – e feconda contro molte previsioni – prassi
di Giovanni Paolo di attenzione alle sensibilità islamiche,
nonché l’obiettiva convergenza della Santa Sede col mondo
musulmano sui fronti della bioetica (a partire da quello che è stato
chiamato lo “scontro del Cairo” del 1994) sembrano per
Benedetto XVI dati acquisiti. Da qui in avanti egli vuole aprire una
nuova fase nelle relazioni con l’islam. Chiede alla soggettività islamica
un incremento di sapienza autocritica. In altre parole, il papa vuole
integrare quel che c'è di reciproca fiducia tra Chiesa e grande
comunità islamica, faticosamente ottenuto su basi pragmatiche,
con la prima sperimentazione di un vero e proprio dialogo, che è più della
coesistenza senza palese conflitto.
Questa sperimentazione di dialogo riguarda anzitutto i preamboli. Uno
di essi è la scelta di un comune terreno di ragione. Il secondo,
quasi un corollario, è relativo alla milizia sacra. Sappiamo
che la fede militante non è patologica ma è costitutiva
delle religioni di salvezza. L'islam deve però – secondo
papa Benedetto – rinunciare criticamente alla attuale versione
violenta e belligerante del “jihad”. Ecco allora che i “Dialoghi
con un maomettano” – discussioni controversistiche tra
un cristiano, l’imperatore di Bisanzio Manuele II Paleologo,
e un dotto persiano, composti da Manuele nella tremenda congiuntura
di fine Trecento, quella degli anni dell’assedio di Costantinopoli
e della vana ricerca di aiuto in Europa – sono parsi a Benedetto
XVI un perfetto esempio su cui fare perno. Per l’imperatore la
riflessione sull’essenziale, che è poi il confronto tra
leggi, quella biblica e quella coranica, non era resa implausibile
dall’incombere del nemico. Il colto sovrano pensava la relazione
con la religione avversa e conquistatrice pur sempre come un confronto
tra verità.
Al tempo stesso l’islam che dilaga in armi non veniva edulcorato,
ma nel “Dialogo” settimo era polemicamente ricondotto al
suo fondatore Maometto, per chiedere al contraddittore persiano una
risposta (che sarà estesa e importante, vedi “Dialogo” 7,
5a-5d ). Insomma, se il confronto tra fedi non dissimulava la presenza
delle armi, le armate del sultano sul Bosforo non impedivano di porre,
sul terreno della disamina razionale, la questione decisiva.
Movimenti e governi dei paesi musulmani si attendono sicuramente dei
vantaggi tattici dalla mobilitazione delle “masse” di questi
giorni, e dalle dichiarazioni di rammarico del pontefice. Ma le élites
politiche e religiose musulmane sanno anche che l’apertura critica
del papa di Roma non ha niente a che fare con il dileggio delle vignette.
Non solo, è il loro contrario. È il massimo apprezzamento
dialogico dell’islam come fede – nella possibile individuazione
di un sapiente “asse” delle religioni bibliche – nella
massima onestà critica e rigorosità del metodo.
Terminato il breve e sterile tempo della piazza, il mondo musulmano
dovrà specchiarsi costruttivamente nello sguardo spirituale
e storico di un papa che, per la verità e la lealtà del
confronto, ha voluto assumersi i rischi sia della strumentale incomprensione
delle sue parole, sia della loro comprensione ostile.
L'irragionevole guerra dell'islam contro Benedetto XVI
di Sandro Magister -www.chiesa.espressonline.it
ROMA, 18 settembre 2006 – Appena ritornato dal suo viaggio in
Baviera, come da programma, Benedetto XVI ha insediato il cardinale
Tarcisio Bertone alla testa della segreteria di stato e ha promosso
l'arcivescovo Dominique Mamberti a nuovo ministro degli esteri della
Santa Sede.
Contemporaneamente si è trovato ad affrontare un'ondata di proteste
senza precedenti da parte del mondo musulmano. Per le cose da lui dette
all'Università di Ratisbona il 12 settembre.
I due fatti non sono tra loro slegati. Bertone non è un diplomatico
di carriera ma un uomo di dottrina e un pastore d'anime. Più che
segretario di stato – ha detto – vorrà essere segretario “di
Chiesa”. Insediandolo, il papa ha confermato che dalla segreteria
di stato e dalle rappresentanze pontificie nel mondo si aspetta collaborazione
anzitutto nel compito che gli spetta come successore di Pietro: “confermare
i fratelli nella fede”.
Anche in Baviera Benedetto XVI era andato a far questo, e non altro.
Come ha sottolineato al termine del viaggio:
“Sono venuto in Germania, in Baviera, per riproporre le eterne
verità del Vangelo come verità e forza attuali e confermare
i credenti nell'adesione a Cristo, Figlio di Dio fattosi uomo per la
nostra salvezza. Sono convinto nella fede che in Lui, nella sua parola,
si trova la via non solo per raggiungere la felicità eterna, ma
anche per costruire un futuro degno dell'uomo già su questa nostra
terra”.
Meno diplomazia e più Vangelo: è questa la rotta che Joseph
Ratzinger assegna al governo centrale della Chiesa. Anche nella scelta
dell'arcivescovo Mamberti come ministro degli esteri il papa ha tenuto
conto, più che della sua competenza diplomatica, della sua conoscenza
diretta del mondo musulmano e delle connesse questioni di fede e di civiltà.
Nato a Marrakesh, francese della Corsica, Mamberti è stato rappresentante
pontificio, oltre che in Cile e alle Nazioni Unite, in Algeria, Libano,
Kuwait, Arabia Saudita, e da ultimo in Sudan, Eritrea e Somalia.
Ed è ancora questo – meno diplomazia e più Vangelo – il
criterio che ha portato il papa, nel corso del suo viaggio in Germania,
a dire parole così politicamente scorrette. E potenzialmente così esplosive.
Qualsiasi esperto nelle arti diplomatiche e cultore del “realismo” nelle
relazioni internazionali avrebbe sicuramente censurato, come inopportuni
e pericolosi, numerosi passaggi delle omelie e dei discorsi tenuti da
Benedetto XVI in Germania.
Ma questo non è un papa che si assoggetti a simili censure o autocensure,
che egli giudica, esse sì, inopportune e pericolose quando toccano
i capisaldi della sua predicazione. Nel suo viaggio in Germania si era
prefisso di far risplendere davanti all'uomo moderno cristiano, agnostico
o di altra fede, dell'Europa come dell'Africa o dell'Asia, quella verità semplice
e suprema che è l'altra faccia dell'affermazione alla quale ha
dedicato l'enciclica “Deus Caritas Est”.
Due giorni prima della lezione all'Università di Ratisbona sulla
quale si è avventata la protesta di governanti e opinion-maker
musulmani, Benedetto XVI aveva esposto questa verità nell'omelia
della messa di domenica 10 settembre a Monaco di Baviera, con accenti
che l'avevano fatto passare, in qualche commento sui media, addirittura
per filoislamista.
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