Ancora sull'ora di Isalm a scuola.

Velo e Corano a scuola non minacciano l'Italia
Non arriva certo dall'Islam in sé il pericolo per la nostra identità. Ecco perché l'ora di religione musulmana nelle scuole statali non deve scandalizzare o spaventare

di RICCARDO PEDRIZZI

La proposta di consentire l'insegnamento della religione islamica nelle scuole statali italiane, qualora un numero sufficiente di studenti musulmani ne facessero richiesta, da un lato può lasciare perplesso qualche osservatore superficiale e prevenuto, dall'altro presenta certamente una serie di problemi. Ma in ogni caso, l'ora di Corano a scuola dovrebbe essere comunque compatibile con i fondamenti della nostra convivenza civile e sociale sanciti nella Costituzione, con la nostra programmazione scolastica e con le normative relative ai titoli necessari per l'insegnamento.

Ma esaminiamo innanzitutto qual è la situazione legislativa attuale. In Italia l'insegnamento della religione cattolica è stato fortemente ridimensionato nel 1984, con la stipula del nuovo Concordato tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Una riforma che non solo declassò da obbligatorio a facoltativo l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali, ma lo degradò da "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica" (articolo 36 dei Patti Lateranensi del 1929) a mero riconoscimento dell'importanza della «cultura religiosa [...] patrimonio storico del popolo italiano» (articolo 9 del nuovo Concordato).

In tale quadro normativo si è passati dall'insegnamento della religione cattolica, compendiato nel catechismo, all'insegnamento della cultura religiosa attraverso l'esame e la comparazione storico-critica di tutte le forme religiose. Vi era allora chi paventava, non a torto, che «la tradizionale ora di religione verrà trasformata di fatto in ora di irreligione, esplicita o implicita, in coerenza con la proclamata neutralità religiosa dello Stato» e prevedeva, come esito del relativismo, «una forma di evoluzionismo religioso che sfoci in qualche tipo di neoecumenismo a sfondo panteistico». Bisognerebbe perciò, innanzitutto, per analogia, essendo questa la normativa vigente per la religione cattolica, non parlare di insegnamento del Corano ma di cultura religiosa islamica. Inoltre è evidente che la questione dell'ora di "cultura religiosa islamica" a scuola s'intreccia strettamente con quella più generale dell'immigrazione. Perché se sosteniamo che, in nome dell'accoglienza e della solidarietà, occorre far entrare nel nostro Paese non solo i cattolici, dobbiamo poi garantire anche ai non cattolici la libertà religiosa, che è diritto fondamentale di ogni uomo. Badando naturalmente non solo alle esigenze economiche del Paese ma anche a quelle che investono la convivenza civile e sociale e i requisiti fondamentali per una completa idea di cittadinanza.

Se, dunque, esiste la necessità di salvaguardare l'identità storica e culturale italiana anche attraverso il diritto di esporre il Crocifisso nelle scuole, negli ospedali, nei tribunali, o il diritto di ricevere l'insegnamento della religione cattolica, dobbiamo anche essere consapevoli che non è possibile mettere tutti i culti sullo stesso piano, cadendo nel relativismo religioso, nel facile sincretismo, nel postmodernismo New Age da religione-fai-da-te.. D'altro canto, bisogna invece accettare il fatto che tutte le identità autentiche e radicate nella storia - anche le più diverse dalla nostra - sono meritevoli di rispetto e di tutela. E che tutti i popoli hanno diritto di rivendicare le rispettive specificità. In proposito, ha scritto Giovanni Paolo II: «Dal punto di vista cristiano, le nazioni e le patrie sono una realtà umana di valore positivo e irrinunciabile, che fondano dei diritti inviolabili in seno ai vari popoli ed in particolare il diritto dei popoli alla propria identità ed al proprio sviluppo».

Senza prevaricazioni e senza complessi di superiorità, però, non si può far finta di ignorare che il popolo italiano, insieme agli altri popoli europei, è stato ed è protagonista della creazione di un'identità civile, giuridica, culturale, etica ed estetica che non solo rischia di perdersi e di annegare nel fenomeno della mondializzazione della cultura e della globalizzazione dell'economia e della finanza, ma anche di venire dissolta sotto la spinta di una pressione migratoria non regolata e non controllata. Questo non dovrà accadere. In ogni caso, in linea generale, va riaffermato che la dimensione religiosa, sacra, di fede, essendo costitutiva della persona e della comunità nella sua integralità, non può rimanere chiusa nel recinto della sfera intima, personale, domestica, privata. Essa deve fare parte anche della sfera pubblica, sociale, culturale del nostro essere e del nostro agire. Chi è contrario alla pubblica presenza del Crocifisso e all'ora di religione, pensa che la dimensione religiosa sia una cosa che appartenga soltanto ed esclusivamente alla sfera privata dell'individuo, e che perciò di essa non vi possa essere traccia nella sfera pubblica, dalla quale debba essere cancellata, rimossa. Si nega cioè che il sentimento religioso sia parte integrante e costitutiva dell'essere umano.

Questo è integralismo, fondamentalismo laicista. Questo è il contrario della libertà religiosa. E laicità non vuol dire agnosticismo, indifferenza religiosa. Va dunque evitato il pericolo di incamminarci sulla strada della legge francese di matrice giacobina che vieta l'esposizione di qualsivoglia simbolo religioso nelle aule scolastiche, secondo una deriva giacobina che, in nome di una malintesa concezione di laicità, cade nel "totalitarismo laicista". Intendiamoci non ci convince certo l'idea di vivere, un domani, in un'Italia talmente spalancata a tutte le religioni da avere il suo simbolo, più che nella cupola di San Pietro, in una sorta di nuovo Pantheon in cui ogni confessione trovi dimora. Allo stesso tempo, però, siamo persuasi che l'alternativa non possa essere quella francese delle catacombe per tutte le religioni mediante legge dello Stato. Perché garantire ad ogni religione un ruolo pubblico è meglio che non garantirlo a nessuna. Del resto, riteniamo di poter essere considerati al di sopra di ogni sospetto, essendo impegnati da sempre a far sì che l'identità cristiana del nostro Paese sia preservata; che non si smarrisca, non si disperda nel magma indistinto della società postmodernista, multi-religiosa e multi-culturale (cosa diversa dalla società inter-religiosa e inter-culturale, che noi auspichiamo).

Intenzionati a difendere la nostra identità, a riscoprire e riaffermare ciò che abbiamo ricevuto dai nostri padri: il privilegio di essere cristiani, appartenenti ad una religione che ci ha dato la verità. Perché mantenere viva l'eredità lasciataci dai nostri padri, il patrimonio valoriale tramandatoci dai nostri avi, è non solo un diritto, ma anche un dovere. Nei confronti dei nostri figli, delle generazioni che verranno e della stessa comunità internazionale. Mettere a repentaglio un patrimonio storico, culturale e spirituale che non appartiene solo a noi ma all'intera umanità, infatti, non rientra nelle facoltà e nei diritti di una classe dirigente e nemmeno di una generazione. Distruggere e disperdere sotto la pressione multietnica e pluriculturale di altre visioni del mondo e della vita, di cui sono portatori uomini sradicati dai loro ambienti d'origine, non solo il retaggio di un glorioso passato, ma anche la testimonianza di quello che ha rappresentato il cammino della civiltà dell'uomo, sarebbe un delitto universale che nessuno dei nostri posteri potrebbe mai perdonarci. Nemmeno con la giustificazione e l'alibi della solidarietà nei confronti di chi ha più bisogno.

Ma proprio per questo, perché viviamo forte la nostra identità, perché non abbiamo paura delle altrui identità e non le neghiamo, non ci scandalizza, in linea di principio, una proposta come quella dell'ora facoltativa di cultura religiosa islamica nelle scuole statali italiane. Ecco, dunque, il nocciolo della questione: capire che le nostre radici religiose e culturali non si difendono negando quelle degli altri; comprendere che non bisogna aver paura delle altrui identità, ma riscoprire e riaffermare la nostra, tornare a essere cristiani, incarnare i principi e i valori in cui diciamo di credere. Perché la minaccia alla alle nostre radici, alla nostra tradizione, alla nostra cultura, ai nostri principi, alla nostra civiltà, non è - e non può essere - nelle altre religioni. Ma nel relativismo etico, nel nichilismo di massa, nel laicismo ideologico e nella secolarizzazione galoppante che, come un virus, hanno infettato il nostro modo di pensare e di vivere, la nostra società, la società italiana, europea e occidentale. Insomma, riscoprire, difendere e riaffermare la nostra identità culturale, i nostri principi, i nostri valori, la nostra tradizione, non vuol dire chiudersi al dialogo con altre culture, altre religioni e altre civiltà. Significa anzi aprirsi a tale confronto, renderlo possibile, autentico e fecondo, cioè foriero di un'integrazione correttamente intesa e praticata. In altri termini, quanto più riusciremo a recuperare la nostra identità religiosa e culturale, i nostri principi, tanto più potremo instaurare il dialogo vero e costruttivo con altre religioni, altre culture e altre civiltà. Anche perché l'architrave dell'incontro tra culture diverse è proprio nel valore aggiunto della cristianità - in particolare cattolica e, quindi, romana e universale - che tutto ricomprende nella logica di un umanesimo che ha posto al centro della storia il primato della persona.

[Secolo d'Italia, 29 novembre 2006]