In Asia centrale si può sperimentare la terza via islamica

di Massimo Introvigne (il Giornale, 14 maggio 2005)

La rivolta scoppiata improvvisamente nella città uzbeka di Andijon, accompagnata da un tentativo di attentato suicida contro l’ambasciata israeliana nella capitale Tashkent, attira nuovamente l’attenzione su una regione cruciale. Dieci dei cinquanta milioni di musulmani dell’Asia Centrale vivono nella valle di Fergana, che dalla parte orientale dell’Uzbekistan sconfina nel Tagikistan e nel Kirghizistan.Si tratta di un’area sovrappopolata, povera, amministrata da una classe dirigente corrotta che per di più non riesce a controllarne vaste zone, porto franco per estremisti e terroristi di ogni genere.

La tradizione islamica locale è legata alle confraternite sufi, che hanno animato la resistenza pacifica alle politiche antireligiose dell’era sovietica. Dopo la caduta del comunismo, le poverissime istituzioni islamiche uzbeke hanno dovuto accettare gli aiuti dell’Arabia Saudita, i cui missionari hanno importato il puritano islam detto wahhabita, che detesta e cerca di smantellare il sufismo.

Il governo che è emerso è invece laicista e nazionalista; il suo personale è composto da ex-funzionari sovietici, molti dei quali in odore di legami con il fortissimo crimine organizzato.

Gli imam “wahhabiti” denunciano la “mafiocrazia”, ma insieme propugnano l’instaurazione di un nuovo califfato che comprenda tutta l’Asia Centrale e si estenda fino al Sinkiang cinese.

Il gruppo più radicale, il Movimento Islamico dell’Uzbekistan (IMU), è entrato in clandestinità alla fine degli anni 1990 e il suo leader, Juma Namangani, ha aderito alla rete internazionale di Al Qa’ida. Osama bin Laden ha ripreso la tesi del califfato centro-asiatico, anche se Namangani è stato ucciso in Afghanistan nel 2001.

Contro il nuovo islam “wahhabita” il governo uzbeko ha usato la mano pesantissima, ricorrendo alla retorica sovietica dei “nemici del popolo”. La repressione si è estesa a tutte le forme di islam che rifiutano lo stretto controllo dello Stato, comprese quelle sufi. Mentre nella capitale Tashkent la popolazione “russificata” è in buona parte non religiosa, nella valle di Fergana il consenso per le organizzazioni islamiche è valutato intorno all’85%. Il regime mette sullo stesso piano l’IMU e l’Hizb ut-Tahrir (Partito della Liberazione Islamica), anche se il secondo – pure di ideologia fondamentalista assai rigida – si dichiara almeno in teoria contrario al terrorismo.

La logica secondo cui in Uzbekistan, come altrove, l’alternativa è fra nazionalisti laicisti, per di più corrotti, e fondamentalisti terroristi amici di bin Laden contagia parecchi analisti occidentali, ma è sbagliata e pericolosa. Spinge l’Occidente a sostenere regimi impresentabili e “mafiocratici”, che – se hanno il solo merito di reprimere gli ultra-fondamentalisti – sono anche precari e destinati prima o poi a cadere. La scelta del vicino Kirghizistan, dove alcuni movimenti dell’islam politico – discutibili, ma non coinvolti nel terrorismo – sono stati fra i protagonisti della rivolta democratica appoggiata dall’Occidente sembra andare in una direzione migliore.

L’alternativa all’islam radicale, in Uzbekistan come altrove, non è la repressione indiscriminata della religione o il puntello occidentale alla “mafiocrazia” del presidente Karimov, ma l’emergere di un islam centrista e conservatore.

Per il regime di Karimov sta suonando la campana dell’ultimo giro. Il processo è irreversibile, ma chi verrà dopo Karimov non è né scontato né irrilevante.

Nell'Azerbaijan può crescere l'Islam moderato

di Massimo Introvigne (il Giornale, 8 novembre 2005)

Cento anni fa parecchi islamologi notavano i segni di un risveglio fondamentalista nell'islam sunnita, ma vedevano invece nel mondo sciita, che aveva subito a lungo l'oppressione e la violenza, una speranza di pace e di dialogo. Uno dei soliti abbagli in cui cadono spesso gli studiosi? Certo, oggi si sente dire «sciiti» e si pensa subito all'Iran khomeinista. Ma negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale - molto prima che Khomeini elaborasse la sua sintesi mortale di messianismo sciita, fondamentalismo di origine sunnita e teorie rivoluzionarie occidentali - un Paese sciita indipendente dava al mondo il primo esempio di un capitalismo costruito sul petrolio dove collaboravano in pace imprenditori musulmani, ebrei e cristiani, costruendo un'effimera ma scintillante Svizzera del Caucaso. Si trattava dell'Azerbaijan la cui capitale Bakù, il maggior porto petrolifero internazionale agli inizi del Novecento, fioriva di ville, teatri e perfino di un casinò considerato il secondo del mondo dopo Montecarlo. Sull'importanza petrolifera e religiosa dell'Azerbaijan un comunista georgiano indirizzò un rapporto a Lenin che, appena scoppiata la rivoluzione bolscevica, mise Bakù a ferro e fuoco, facendo almeno cinquemila morti e riducendo il pacifico Stato sciita a una colonia sovietica. Il suo nome era Josif Stalin, e il mondo ne avrebbe ancora sentito parlare a lungo.

Stalin continuò a temere per tutta la vita la rinascita in Azerbaijan di un'opposizione sciita. Con i suoi soliti spostamenti di popoli, moltiplicò il numero di sunniti in Azerbaijan: oggi sono il 20%, ma il 75% rimane sciita. Demolì la maggioranza delle moschee, lasciando in piedi la sola storica moschea Juma a Bakù, che Breznev trasformò nel 1967 nel Museo Nazionale del Tappeto. Creò un Ufficio degli affari musulmani che era di fatto un'articolazione del Kgb. Dell'Ufficio (e del Kgb) hanno fatto parte per cinquant'anni membri della famiglia Aliyev che, diventato l'Azerbaijan indipendente dopo il crollo dell'Unione Sovietica, sono andati al potere con il colpo di Stato del 1993 di Heydar Aliyev che nel 2003, morente, ha lasciato il potere al figlio Ilham, dopo una sequela di elezioni caratterizzate da intimidazioni e brogli. Nelle elezioni del 6 novembre Ilham dichiara di avere vinto, ma ci sono stati nuovi brogli, in alcuni casi clamorosi.

La situazione è tesa, e non si può escludere una rivoluzione pacifica di tipo ucraino o kirghiso. Ma sarà decisivo l'atteggiamento dell'Occidente, dove non manca chi sostiene Aliyev, affermando che almeno controlla il fondamentalismo islamico. Tutti i dittatori dell'Asia Centrale agitano lo spauracchio del terrorismo, ed è vero che nel Paese ci sono un centinaio di militanti sunniti di Al Qaida e qualche migliaio di Hezbollah sciiti manovrati dall'Iran. Tuttavia la maggioranza degli sciiti azeri è moderata, e ha come punto di riferimento Ilgar Ibrahimoglu, fautore del dialogo inter-religioso e imam della moschea Juma, riaperta nel 1992 ma che Aliyev ha chiuso nel 2004 e vuole di nuovo trasformare in museo del Tappeto. I musulmani moderati, sciiti e anche sunniti che guardano al modello turco, sono al cuore dell'opposizione contro Aliyev.

L'Occidente può salvare quest'ultimo, che comunque ha finora garantito l'ordine pubblico e il passaggio degli oleodotti fino al porto di Bakù. Ma se alla fine in Azerbaijan andasse al potere un islam sciita moderato, l'esempio azero potrebbe costituire una lezione e una speranza per l'Iran.