Introvigne dice perché bisogna aiutare
l’Islam moderato.
A Baghdad come a Kabul si discute su come conciliare democrazia
e Allah. Analisi
("Il Foglio", 6 dicembre 2003)
Roma. “A non essere esportabile nel mondo islamico è
la democrazia laica alla Chirac, che in quella situazione si può
reggere solo sui militari. Mentre si può esportare la democrazia
senza laicismo”. Il sociologo delle religioni Massimo Introvigne,
direttore del Cesnur, spiega al Foglio perché, nella discussione
sulle costituzioni afghana e irachena, è obbligatorio rivedere
molti luoghi comuni e guardare alla Turchia. Bersaglio del terrorismo
anche perché “è un modello di via islamica alla
democrazia, che coniuga Islam politico, liberismo e politica estera
filo-occidentale. Per questo i terroristi lo attaccano e lanciano
avvertimenti mafiosi. Come il riferimento, nelle rivendicazioni, al
‘Grande Oriente’, concetto che nell’immaginario
politico turco coincide con il primato politico dell’Islam,
considerato il ‘vero’ Grande Oriente, in contrapposizione
a quello massonico”. La Turchia, secondo Introvigne, è
anche la prova che la modernizzazione, pur in presenza di uno sforzo
di laicizzazione, non genera scomparsa ma risveglio della religione
(a questa tesi ha dedicato il suo ultimo libro, firmato con l’americano
Rodney Stark, edito da Piemme e intitolato “Dio è tornato”).
“Le prime elezioni turche veramente libere le ha vinte Erdogan
con il suo partito d’ispirazione religiosa. Dimostrando che
le campagne di laicizzazione, che vorrebbero estirpare le radici sociali
dell’Islam, non funzionano. Si possono sradicare le istituzioni,
ma le credenze individuali persistono”. Ed è significativo
che “nel suo ultimo saggio, l’islamologo francese Olivier
Roy, consigliere di Chirac, ammetta che forse gli americani sono un
passo avanti nella comprensione del problema, quando si dimostrano
disponibili a sostenere tentativi democratici (quello afghano) che
si fondano su valori religiosi. Va incoraggiata la versione islamica
della democrazia cristiana (per riprendere una battuta di Berlusconi),
perché la versione araba del Partito d’azione o socialista
francese non prenderà mai piede tra il popolo. Il problema
iracheno è complicatissimo: laggiù tutte le forze conservatrici
sono state fatte fuori”. E invece i conservatori sono necessari.
Introvigne invita a distinguere “conservatori alla Erdogan,
fondamentalisti come i Fratelli musulmani, e ultrafondamentalisti,
come Hamas o bin Laden. In condizioni di normalità, il ‘mercato’
religioso dovrebbe premiare i conservatori. Non avviene in situazioni
di guerra, quando prevalgono le posizioni estreme, come in Cecenia
o in Israele. E non avviene dove i regimi non religiosi reprimono
tutto l’Islam. I conservatori non reggono alla repressione,
gli ultrafondamentalisti, clandestini per definizione, ci riescono
brillantemente. La domanda di conservatorismo religioso finisce così
per confluire sulla destra estrema. L’Algeria è un caso
da manuale. I francesi hanno creduto di risolvere il problema finanziando
generali che hanno raso al suolo il movimento islamico. Sono sopravvissute
solo le bande ultrafondamentaliste”. Il fenomeno Erdogan, conclude
Introvigne, “nasce dalla lungimiranza dei militari turchi, che
dopo il colpo di Stato dell’80, con la nomina a primo ministro
del sufi Ozal hanno consentito alla domanda di conservatorismo di
orientarsi al centro. Erdogan è un ex fondamentalista divenuto
conservatore. Nel suo partito ha fatto l’operazione che fece
Fini a Fiuggi”. Ma a chi crede che la Turchia sia già
pronta per l’Europa, Introvigne dice “è opportuna
un’apertura per gradi. Bisogna incoraggiare Erdogan a insistere
nel cammino, ancora agli inizi. Come Fini, deve fare i conti con i
suoi colonnelli riluttanti”.
Islam “moderato”,
ma non per i convertiti alla fede cristiana
Ondata di arresti in Egitto per apostasia. La storia di
un giovane battezzato, costretto a tenere nascosta la sua nuova fede.
La posizione oscillante della Chiesa-di Sandro Magister
ROMA – Lanciata dall’informatissima agenzia “AsiaNews”
del Pontificio istituto missioni estere, la notizia dell’arresto
in Egitto di cittadini colpevoli d’essersi fatti da musulmani
cristiani getta nuova luce sui pericoli che incontrano i convertiti
dall’islam a un’altra fede.
I pericoli esistono anche per i musulmani che si convertono in occidente.
Essi circondano di mille precauzioni la loro scelta. E da parte sua
la Chiesa cattolica fa altrettanto, coi convertiti alla fede cristiana.
Sulla loro preparazione al battesimo, la conferenza episcopale italiana
ha stampato nel 2000 un manualetto di istruzioni. La prima: “Fin
dall’accoglienza è importante assicurare discrezione”.
Anche il numero dei battesimi è tenuto segreto. Si sa che in
Italia circa la metà dei convertiti sono albanesi: e questi
sono i meno in pericolo, perché in Albania l’islam è
quasi solo anagrafico, con debolissimo controllo sociale. Ma per chi
è maghrebino, o siriano, o pakistano, il rischio è serio.
La comunità musulmana d’origine e la stessa famiglia
mettono al bando l'apostata. Persino la sua vita può finire
appesa a un filo.
I musulmani curdi sono un’altra isola di relativa tolleranza
per chi di loro si converte. Daniel Ali abbracciò il cristianesimo
quando ancora viveva nell’Iraq del nord e combatteva contro
Saddam Hussein. Poi nel 1993 emigrò negli Stati Uniti, nel
1995 fu battezzato e nel 1998 entrò nella Chiesa cattolica.
Oggi assieme al gesuita arabista Mitch Pacwa ha creato un “Christian-Islamic
Forum” e gira gli States per predicare a sua volta il cristianesimo
ad altri musulmani.
Ma quasi ovunque, nel mondo, la clandestinità è la
regola. E da parte della Chiesa cattolica c’è la diffusa
tendenza a rispondere a questo stato di cose semplicemente rinunciando
a “creare il problema”, cioè a far proseliti tra
i musulmani. Un dirigente italiano della Fondazione Migrantes, che
chiede l’anonimato, opera da anni a contatto con musulmani tunisini
e dice: “Abbiamo deciso di non incoraggiare in alcun modo le
conversioni al cristianesimo, checché ne pensi il cardinale
Giacomo Biffi”. Perché il battagliero cardinale la pensa
proprio all’opposto: “Predicare e battezzare è
dovere statutario della Chiesa. Per tutti. Gesù non ci ha comandato
di predicare il vangelo a ogni creatura tranne ai musulmani, agli
ebrei e al Dalai Lama”.
La tendenza a dialogare senza evangelizzare ha però i suoi
contraccolpi negativi proprio su quelli che comunque si fanno cristiani.
La protesta di una maghrebina di nome Nura è arrivata lo scorso
settembre fin su in Vaticano: “Ci sentiamo abbandonati. Dopo
la conversione non abbiamo nessuno che ci sostenga. Chiediamo aiuto
alla Chiesa: proteggeteci, difendeteci”. L’arcivescovo
Michael Fitzgerald, presidente del pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso, le rispose con parole di fumo. Peggio, di diffidenza:
“Si deve sempre chiedere le motivazioni di questo cambiamento.
Talvolta si presenta con il desiderio di essere un vero italiano.
Ma uno potrebbe essere italiano e al tempo stesso essere musulmano.
Avrei una preoccupazione all’arrivo, nel senso dell’accoglienza
nella comunità cristiana”.
Pochi giorni dopo, il 28 settembre, Giovanni Paolo II pubblicò
la lista dei nuovi cardinali. Fitzgerald, titolatissimo ad avere la
porpora, non vi figurò. Ancora qualche settimana e il cardinale
Joseph Ratzinger, in un’intervista, ingiunse che “dobbiamo
avere il coraggio di assistere queste persone”, e smetterla
con una certa “coscienza cristiana insicura di sé”.
L'autorevole rivista “La Civiltà cattolica”, voce
ufficiosa della Santa Sede, ha rinfrescato la memoria sulle condizioni
di vita dei cristiani in terra islamica, con un articolo di durezza
inaudita. Insomma, un soprassalto c’è stato. Chissà
se Nura si sentirà meno sola.Ma ecco qui di seguito uno sguardo
ravvicinato a quanto è accaduto in queste settimane in Egitto,
con un regime islamico generalmente classificato come “moderato”.
L’inchiesta è uscita su “L’espresso”
n. 50 del 5-11 dicembre 2003.
Non avrai
altro Allah di
Dina Nascetti
IL CAIRO – Ibrahim a 13 anni conosceva a memoria il Corano.
L’imam del suo quartiere al Cairo lo portava ad esempio per
tanti giovani e intravedeva per lui un futuro di grande predicatore
dell’islam più radicale. Ibrahim, giovanissimo predicatore
lo è stato: già a 16 anni il venerdì, con l’esuberanza
e la foga delle sua giovane età, arringava i fedeli che accorrevano
nella moschea per sentire proprio lui, l’astro nascente della
jihad, la guerra santa. “Avevo imposto a tutte le donne della
mia famiglia, la nonna, mia madre e le sorelle, il velo”, racconta:
“Non sopportavo le espressioni non islamiche della nostra società
nella vita quotidiana. Vigilavo e denunciavo chiunque non rispettasse
le regole e deviasse dalla retta via”.
Ibrahim predicava a metà degli anni Novanta, quando nell’Egitto,
su pressioni dei movimenti islamisti molti dei quali legati all’università
di Al Azhar, vennero rispolverati gli hadit, i detti di Maometto,
sull’isba, il principio che permette a chiunque di intentare
un processo contro chi si allontana dagli insegnamenti della sharia,
la legge islamica, e sulla ridda, l’accusa di apostasia. Uno
dei primi hadit sostiene che il sangue di un musulmano “potrà
essere versato in tre casi: l’omicidio, l’adulterio e
l’apostasia”. Quindi il pio cittadino è autorizzato
a uccidere il peccatore. Sulla base di questo dogma, in quegli anni
alcuni intellettuali furono assassinati o feriti gravemente come lo
scrittore, premio Nobel, Naghib Mahfuz, condannati, appunto, per le
loro opere miscredenti.
Due anni fa Ibrahim, nato nella fede in Allah e nel Corano, si è
convertito alla fede cattolica. Ha preso il nome di Mikeil, Michele,
l’arcangelo più venerato in Egitto. Conventi, chiese,
cappelle gli sono dedicate in tutto il paese. Tracce di luoghi di
culto a lui consacrati nell’Egitto preislamico sono ancora visibili
nella fortezza di Babilonia nella Cairo Vecchia.
Ma Ibrahim-Mikeil vive la sua conversione in gran segreto. Non ne
sono al corrente la famiglia, gli amici e neanche la giovane moglie.
Rischia di essere travolto proprio dall’accusa di apostasia
che “potrebbe trasformarsi in una condanna a morte”, dice,
“da parte dei vecchi amici, un parente, o nel migliore dei casi
in una sentenza che infligge anni di detenzione con sicure torture”.
Le paure di Ibrahim sono fondate? Formalmente no. L’articolo
3 della costituzione egiziana del 1923 proclama l’uguaglianza
di tutti gli egiziani di fronte alla legge senza distinzione di razza,
lingua o religione. Ma la realtà è diversa. È
dal 1971 che è in corso nel paese una costante tendenza a islamizzare
il sistema giuridico egiziano. È stato il presidente Anwar
Al-Sadat, poi ucciso dagli integralisti islamici, ad accogliere talune
richieste dei Fratelli Musulmani allo scopo di combattere i partiti
nazionalisti e di sinistra che si opponevano alla sua politica economica:
introdusse nella costituzione un emendamento secondo il quale la “sharia
è una delle fonti principali della legislazione” per
diventare poi, nel 1980, la “fonte principale”.
“Un musulmano di nascita non potrà mai cambiare religione”,
conferma Youssef Sidhom, direttore del settimanale cristiano “Watani”:
“Non solo cercheranno con tutti i mezzi di dissuaderlo, ma la
sua stessa vita sarà in pericolo. Sarà escluso dall’eredità
e dalla comunità di appartenenza. Mentre al contrario un egiziano
cristiano che abbracci la fede musulmana è accolto con tante
feste, la carta di identità viene cambiata in fretta, è
facilitato nel lavoro, nella casa”.
La segretezza con cui vive il suo nuovo credo ha permesso per ora
a Ibrahim-Mikeil di non cadere nella retata della polizia che ha portato
all’arresto, tra la fine di ottobre e la metà di novembre,
di 23 egiziani convertiti al cristianesimo, mentre un altro centinaio
sono ricercati. La notizia, completamente ignorata dai media egiziani,
è stata lanciata da Roma dall’agenzia “AsiaNews”,
che informa sulla critica situazione dei cristiani nel mondo islamico.
L’unico giornale arabo a dare conto degli arresti è stato
“Al Quds”, edito a Londra e interdetto in Egitto. Che
denuncia: “Continua in silenzio l’opera della polizia
egiziana di criminalizzare ex musulmani convertiti al cristianesimo.
Ci meraviglia che una vicenda così delicata sia lasciata in
mano alle forze di polizia. È vero che la sharia non ammette
l’apostasia, ma in uno stato di diritto la questione dovrebbe
essere affrontata non certo seguendo l’onda dei fondamentalisti”.
Secondo un sacerdote che chiede l’anonimato “gli arresti
da parte della polizia, ormai infiltrata, come la magistratura e le
corporazioni professionali, sono dovute al radicamento dell’integralismo
nel sistema educativo egiziano. Sono infatti frequenti i casi in cui
gli studenti appartenenti a minoranze religiose vengono pesantemente
discriminati e maltrattati. Accade ad esempio che venga imposto il
velo a bambine cristiane delle elementari. Le scuole pubbliche hanno
subito la forte ingerenza degli imam di Al Azhar e delle autorità
governative, da tempo inclini ad accontentare le richieste degli integralisti,
per mantenere il loro potere. Dei convertiti arrestati, per mesi non
si sa nulla. E nel frattempo subiscono maltrattamenti bestiali. La
loro sorte sarà poi demandata a un giudice, non sempre imparziale.
Scontata la condanna, non rimane loro che prendere la via dell’esilio
negli Usa, in Canada o Australia, per non incorrere nel disprezzo
sia della famiglia che della comunità circostante».
Aspetti completamente trascurati dai media egiziani, ma non da “Watani”.
“Il nostro è un giornale indipendente”, dice il
direttore Sidhom, “senza relazioni particolari con la Chiesa,
da cui non riceve alcun sussidio”. Di fronte a questa recrudescenza
repressiva nei confronti dei cristiani, il patriarca copto Shenuda
III, uso in passato a rimarcare l’armonia tra cristiani e musulmani,
ha mutato atteggiamento, lamentando i numerosi attacchi portati contro
la sua comunità. La vita dei cristiani, di cui i copti, 6-7
milioni, sono la gran maggioranza, negli ultimi anni non è
stata facile. Le persecuzioni nei confronti di questa comunità
sembrano tornare alle forme del martirio dei primi cristiani. La memoria
torna ai terribili avvenimenti dell’ottobre del 1998, quando
forze di sicurezza egiziane fecero rapimenti e crocifissioni durante
le incursioni nel villaggio copto di El-Kosheh, nelle vicinanze di
Luxor. Le crocifissioni furono a gruppi di 50 persone, letteralmente
inchiodate o incatenate a porte, con gambe legate le une contro le
altre. Vittime picchiate e torturate con l’uso della corrente
elettrica nei genitali dalla polizia che le accusava di essere infedeli.
Romani Boctor, 11 anni, è stato appeso con un cavo elettrico
al soffitto.
Ma è la discriminazione perpetrata in tutti gli aspetti della
società a rendere difficile la vita dei cristiani. Per legge
costituzionale il presidente deve essere musulmano. Nessun cristiano
può essere primo ministro, benché ce ne siano stati
in passato. Dei 32 ministri solo due sono cristiani, quello dell’economia
e quello dell’ambiente. Nessun sindaco di città né
di villaggio può essere cristiano. Le alte cariche dell’esercito,
della polizia, della guardia presidenziale sono destinate solo ai
musulmani. Nessun cristiano può ricoprire un’alta carica
nei tribunali. Anzi, secondo la legge, occorrono due testimoni per
emettere una sentenza, ma se uno dei due è cristiano, il giudice
può rifiutarne la testimonianza.
Nessun cristiano può ricoprire la carica di rettore universitario
o di preside di facoltà. Il governo paga gli stipendi degli
imam, ma non dei preti cristiani. L’università di Al
Azhar non accetta studenti cristiani, anche se vive grazie alle imposte
sia dei musulmani che dei cristiani. A ciò si aggiungono gli
ostacoli insormontabili per costruire una chiesa. Difficoltà
che risalgono a una legge del 1934 che detta dieci condizioni per
ottenere il permesso. Ad esempio, una chiesa non può essere
edificata su un terreno agricolo; non deve essere vicina a una moschea
né a monumenti pubblici; occorre l’autorizzazione della
polizia se viene a trovarsi vicino a ponti sul Nilo o ai suoi canali
o alla ferrovia. Ed è necessaria la firma del presidente della
repubblica. “Malgrado le proteste, lo stato vuole mantenere
queste condizioni e ciò provoca in tutti gli egiziani uno spirito
di fanatismo e di divisione tra cristiani e musulmani”, sostiene
Sameh Fawzi, giornalista cristiano.
“La cultura e la vita dei copti sono completamente scomparse
dalla stampa egiziana. Per questo abbiamo intensificato il nostro
interesse per le minoranze cristiane. Vogliamo favorire l’unione
fra egiziani, cristiani e musulmani, perché tutti sono figli
della stessa nazione», dice Sidhom che avverte: “L’assenza
dello stato sta portando i cristiani all’amara convinzione che
l’Egitto li considera cittadini di seconda categoria. Che un
cristiano è un kafir, un infedele, non conosce la vera religione
né ha la vera fede, quindi non vale la pena che sia ascoltato.
E che in questo paese si è creata un’umiliante discriminazione
su base religiosa».
Ibrahim-Mikeil conosce tutti i pericoli della sua conversione, ma
vive l’adesione al cattolicesimo con grande serenità.
“Quando aprii gli occhi sulla violenza , ho cominciato a mettere
in discussione la mia religione”, racconta: “Il Dio che
desideravo così vicino a me, nell’islam lo scoprivo molto
lontano. Padrone di ogni cosa, ma non un Dio che sta con noi. Era
questo che mi tormentava. Poi un giorno mi recai allo splendido monastero
di Santa Caterina nel Sinai e lì ebbi la vera ispirazione”.
La giovane principessa egiziana convertita al cristianesimo venne
decapitata per ordine dell’imperatore romano Massenzio. Il sogno
di Ibrahim-Mikeil? “Andare a Roma e poter pregare liberamente
a San Pietro, magari assieme a mia moglie”.
Islamici conservatori cercasi-
di Massimo Introvigne
(il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 2, n. 50, 13 dicembre
2003)
Gli USA hanno distrutto “La base” di Osama bin Laden,
ma ne sopravvivono cellule indipendenti, comunque operative. L’Occidente
cerca interlocutori nell’islam laico, ma in realtà sono
più affidabili gl’integralisti. Che non sono però
tutti uguali
Sul terrorismo in Irak, dopo Nassiriya e gli attentati successivi,
si sono dette molte cose. Alcune – riecheggiate anche da qualche
politico nostrano – sono basate su una nozione del tutto inadeguata
dell’attuale situazione del terrorismo islamico in generale
e della sua presenza in Irak in particolare. Mi limito a quattro esempi.
Nessuna resistenza
Il criminale attentato di Nassiriya, con ogni probabilità,
non ha nulla a che fare con la cosiddetta “resistenza irachena”
di cui alcuni parlano. Tale presunta “resistenza” è
l’ultima raffica di un regime terrorista e assassino che si
è mantenuto al potere in Iraq grazie ai gas asfissianti e alle
fosse comuni, oltre che grazie alla complicità affaristica
e talora ideologica – meglio un nemico che un amico degli americani,
meglio il peggior esponente del mondo “laico” del partito
Baath che il miglior esponente religioso – di diversi governi
europei, Francia in testa. Ma Nassiriya è sempre stata una
delle città irachene più ostili a Saddam Hussein, che
ne ha terrorizzato la maggioranza sciita con ogni mezzo. Chiunque
siano gli esecutori materiali, la tecnica utilizzata corrisponde al
marchio di fabbrica di al-Qa’ida, descritto nella voluminosa
Enciclopedia del Jihad compilata da Osama bin Laden e dai suoi collaboratori.
È quasi come se avessero lasciato la firma. Dunque non “resistenza”
di una popolazione ispirata da un presunto orgoglio nazionale contro
gli “occupanti”, ma ennesima strage di un terrorismo internazionale
che spara sull’ONU, sulla Croce Rossa, su pacifici abitanti
della capitale dell’Arabia Saudita, su contadini algerini (musulmani)
inermi e anche su italiani colpevoli solo di aiutare la popolazione
con la generosità propria del nostro ethos nazionale.
La principale battaglia contro al-Qa’ida non è in corso.
È già stata vinta dagli Stati Uniti, in Afghanistan.
Al-Qa’ida (la “base”, come dice il suo nome) era
– come alcuni hanno scritto – un gigantesco “supermercato”
del terrorismo islamico: un luogo dove movimenti del fondamentalismo
islamico radicale di tutto il mondo, pre-esistenti all’iniziativa
di Osama bin Laden e non inventati da lui, venivano a rifornirsi di
denaro, armi, addestramento e idee. Un luogo fisico: per addestrare
combattenti e ammassare armi occorre controllare un territorio. Questo
territorio non esiste più: la base afghana è stata spazzata
via, e nessun altro paese del mondo concederà ad al-Qa’ida
le vaste estensioni di territorio necessarie a impiantare di nuovo
il “supermercato” perché sa quale sarebbe la reazione
americana.
Rimane, è vero, l’elemento economico: grazie anche qui
alla insufficiente collaborazione europea, la banca è l’unico
elemento del supermercato che, non avendo bisogno di territorio, funziona
ancora. Ma anche questa ha subito duri colpi. Gli elementi del network
chiamato alQa’ida, però, pre-esistevano a bin Laden,
e continuano a esistere anche dopo che lo smantellamento della base
afghana ha reso difficile il collegamento fra la “testa”
e le “gambe” della rete del terrore (i cui dirigenti o
sono morti o sono principalmente impegnati a non farsi trovare). Questo
successo – la cui portata è raramente concepita dall’opinione
pubblica – rende più difficili i “grandi”
attentati dell’11 settembre. Tuttavia le “gambe”,
in buona parte separate dalla testa, continuano a scalciare ognuna
per conto suo.
Gli elementi un tempo riuniti nel network al-Qa’ida hanno ripreso
ciascuno la loro autonomia. Essi “sono” ancora al-Qa’ida
in quanto a stile e ispirazione, ma le loro azioni locali in gran
parte non obbediscono più a un centro unico, quindi sfuggono
a ogni logica politica e diventano terrorismo allo stato puro.
Se le cose stanno così, quando si dice che “ai tempi
di Andreotti” funzionava il patto secondo cui l’Italia,
in cambio di una politica medio-orientale ammiccante e terzaforzista,
sfuggiva al terrorismo, si dice insieme una verità e un anacronismo.
Andreotti ammiccava ad Arafat, a Gheddafi, ad Assad. Oggi non c’è
neppure più nessuno cui ammiccare. Non funzionerebbe neppure
più mettersi d’accordo sottobanco con la testa di al-Qa’ida
(un sospetto che in passato ha sfiorato più di un esperto di
intelligence americano in relazione ai soliti francesi), perché
la testa non controlla più le gambe.
La “sindrome di Voltaire”
Da tempo, sostengo che uno degli errori dell’Occidente nel trattare
con l’islam – originario o d’importazione tramite
l’immigrazione – consiste nel soffrire di una “sindrome
di Voltaire” che spinge a immaginare che l’unico interlocutore
accettabile sia il “laico” culturalmente occidentalizzato
e sostanzialmente miscredente. Questi “laici” esistono,
ma raramente godono del sostegno popolare. Possono governare, come
Saddam o i generali algerini, ma governano contro la loro società
civile con il terrore e l’arbitrio. Penso anche che uno dei
problemi sia semantico: noi chiamiamo – certo per mancanza di
categorie più adeguate capaci nello stesso tempo di essere
largamente condivise – “fondamentalisti” tutti coloro
che interpretano l’islam in modo conservatore e vogliono una
politica ispirata dall’islam. Così “fondamentalista”
è il partito al governo in Tuchia, fondamentalisti sono i Fratelli
Musulmani, e “fondamentalisti” sono i vari spezzoni di
al-Qa’ida.
Qualche distinzione, invece, si impone.
C’è un islam politico conservatore che afferma di voler
considerare la legge islamica, la shari’a, come orizzonte ideale
e come ispirazione, non come un insieme di precetti codificati una
volta per tutte nel Medioevo: che cosa ne potrà risultare è
tutto da scoprire, ma è questa l’impostazione che dichiara
Erdogan in Turchia (e lo stesso fanno vari intellettuali “fondamentalisti”
in Tunisia, in Egitto, in Europa).
C’è un islam “fondamentalista”, ben più
conservatore rispetto alle posizioni di un Erdogan, che persegue i
suoi scopi “dal basso” con un’operazione “neo-tradizionalista”
di islamizzazione della società civile e di partecipazione
alla vita politica con mezzi democratici e non violenti. E c’è
un islam “fondamentalista” di tipo “radicale”
che almeno non esclude, quando non lo organizza e lo pratica, il terrorismo
come mezzo di lotta. Con il primo cosiddetto “fondamentalismo”,
quello di Erdogan, si può e si deve dialogare: sono forze simili,
non i presunti “laici”, che possono offrire alle popolazioni
medio-orientali una leadership credibile e ostile al terrorismo. Con
i fondamentalisti radicali il dialogo è impossibile, e dopo
Nassiriya non è neppure più tempo di dialoghi sottobanco
e di furbizie. Restano i fondamentalisti “neo-tradizionalisti”:
organizzazioni come i Fratelli Musulmani, peraltro assai diverse nelle
loro varie anime nazionali, cui in Italia si ispira ampiamente la
dirigenza della più grande delle organizzazioni che si candidano
a rappresentare l’islam, l’UCOII (Unione delle Comunità
e Organizzazioni Islamiche in Italia).
Si può dialogare con costoro? Il governo italiano può
e deve considerarli interlocutori affidabili? La cartina di tornasole
è la condanna del terrorismo “senza se e senza ma”:
anche quello di Hamas (il che non implica evidentemente – sarebbe
assurdo chiederlo all’UCOII o a chiunque altro – indossare
la politica del governo israeliano), anche quello ceceno (il che –
ancora – non significa non porsi il problema politico e umanitario
della Cecenia), anche quello del Kashmir. I terroristi non sono “fratelli
che sbagliano” (tanto simili ai “compagni che sbagliano”
di un’altra stagione): sono criminali assassini. In un giorno
di lutto nazionale fra i più tragici della storia italiana
recente, l’UCOII ha avuto l’occasione storica di condannare
il terrorismo “senza se e senza ma”. L’ha perduta,
come già preannunciava l’adesione di suoi esponenti,
una settimana prima, a una manifestazione «contro il sionismo,
con l’Intifada e con la resistenza irachena» a fianco
di no-global e di movimenti insurrezionalisti per cui l’unico
“amerikano” buono è quello morto. L’UCOII
nel suo comunicato del 13 novembre ha certo condannato la strage di
Nassiriya, ma con un linguaggio pieno di se e di ma, arrivando a sostenere
che i caduti italiani erano in Iraq nel «dispregio dell’opinione
pubblica e dei valori fondanti della Repubblica». Il segretario
dell’UCOII, «a titolo personale» (ci mancherebbe)
persevera, e conferma anche la sua presenza alla marcia pro-resistenza
irachena di dicembre. Confondere fondamentalisti “neo-tradizionalisti”
e “radicali” rimane ingiusto e sbagliato. Ma per l’UCOII
l’esame di maturità questa volta è fallito: il
nostro governo, nella sua futura gestione dei problemi sul tappeto
con l’islam italiano, non potrà che prenderne atto.