Inviolabilità della vita umana: un testo del 1947 in difesa della vita umana embrionale.

[ di Sandro Magister www.chiesa.espressonline.it]

ROMA, 13 maggio 2005 – Insediandosi nella basilica di San Giovanni in Laterano, sabato 7 maggio, Benedetto XVI ha pronunciato la sua prima omelia dalla cattedra di vescovo di Roma. Ha affermato che compito del vescovo di Roma è “presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore”: espressione, quest’ultima, ripresa da sant’Ignazio di Antiochia.L’amore, ha spiegato, è quello di Cristo che si fa realtà nell’eucaristia, da cui la Chiesa “rinasce sempre di nuovo”. Quanto alla dottrina, ha detto che il papa “non deve proclamare la proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all'obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte a ogni opportunismo”. Di questa sua “obbedienza alla Parola di Dio” Benedetto XVI ha richiamato due doveri che ritiene oggi essenziali.
Il primo è che “dall’alto di questa cattedra il vescovo di Roma è tenuto costantemente a ripetere: ‘Dominus Jesus’, Gesù è il Signore”, a fronte dei “cosiddetti dèi nel cielo e sulla terra”.
L’altro suo dovere è di predicare “in modo inequivocabile l'inviolabilità dell'essere umano, l'inviolabilità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale”, a fronte di “tutti i tentativi apparentemente benevoli verso l'uomo” e alle “errate interpretazioni della libertà”.

1- Eucaristia,
2-“Dominus Jesus”,
3- difesa della vita:

su questi tre assi Joseph Ratzinger ha impostato il suo programma di papa.

Il terzo asse coincide con la “questione antropologica” che domina l’inizio del secolo XXI: il grande conflitto di fede, di cultura, di civiltà, in atto tra la visione cristiana e quella laica della vita e dell’uomo.

Proprio su questo terreno di conflitto si terrà il 12 giugno in Italia un referendum mirato a cancellare parti essenziali della legge 40/2004 che regola la fecondazione artificiale: in particolare a cancellare il divieto di uccidere vite umane nelle loro primissime fasi di crescita. Il richiamo di Benedetto XVI a “l’inviolabilità della vita umana dal concepimento” ha dato sostegno alla scelta compiuta dalla Chiesa italiana di opporsi con tutte le sue forze al referendum. Ma Ratzinger ha inteso rivolgere il suo appello non solo all’Italia ma al mondo. Non solo ai fedeli cattolici ma a tutti gli uomini. Perché a suo giudizio
l’inviolabilità della vita umana nascente non è solo un comandamento della fede cristiana, ma una legge naturale scritta nel profondo di ogni uomo e valida sotto ogni cielo.
È quanto si ricava da tutti gli scritti e i documenti precedenti di Ratzinger teologo, vescovo, prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Ed è quanto si ricava da uno dei suoi maggiori maestri, il filosofo e teologo tedesco Romano Guardini (1885-1968), alla cui scuola Ratzinger ha detto più volte di essersi formato, così come a Möhler, Newman, Scheeben, Rosmini, de Lubac, von Balthasar. Il 7 maggio, lo stesso giorno in cui Benedetto XVI ha pronunciato l’omelia d’insediamento sulla cattedra del vescovo di Roma, è uscita nelle librerie italiane la ristampa di una conferenza di Guardini dal titolo: “Il diritto alla vita prima della nascita”.Guardini scrisse questo testo mentre in Germania si legiferava sull’aborto, nel 1947. Ma le sue argomentazioni appaiono più che mai attuali. E sono argomentazioni essenzialmente filosofiche, che volutamente “rinunciano a mettere in primo piano i punti di vista più strettamente cristiani”.

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Lucetta Scaraffia, docente di storia moderna all’Università di Roma La Sapienza, riassume le tesi di Guardini e le applica all’attuale controversia sulle vite umane prodotte artificialmente.

La difesa della vita e l’ombra del nazismo
di Lucetta Scaraffia

Sembra scritto per l’acceso dibattito che sta precedendo in Italia il referendum sulla legge 40/2004 questo piccolo ma intenso saggio del filosofo e teologo tedesco Romano Guardini , “Il diritto alla vita prima della nascita”, scritto nel 1947 – quando fu presentata al parlamento tedesco la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza – e pubblicato nel 1949.

Stupisce per lo sguardo acuto, per la capacità di trattare temi complessi come la dignità dell’uomo e i modi in cui la vita dev’essere salvaguardata, per la pacata lucidità e la chiarezza che i contendenti di oggi di rado sanno raggiungere.

Stupisce anche perché difende la sua posizione senza mai ricorrere ad argomenti religiosi.

I problemi dell’uso dell’embrione, che a noi sembrano sorti con le tecniche di procreazione assistita, agli occhi di Guardini erano già tutti presenti al momento della legislazione tedesca sull’aborto, e s’intrecciano con la consapevolezza storica del recentissimo passato nazista, il quale impedisce di vedere che “ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo stato totalitario”.

Il ragionamento del filosofo inizia smontando l’obiezione che l’aborto sia una questione di competenza degli esperti – giuristi, medici, sociologi – mentre è problema che “riguarda l’intero rapporto del singolo con la società, investendo il carattere fondamentale dell’esistenza umana”.

E prosegue contrapponendo la moderna “concezione dell’uomo quale unico responsabile e padrone della propria esistenza” con “il senso prima vivissimo della fondamentale intangibilità della vita umana”.

Nel valutare questi due diversi modi di giudicare, Guardini considera centrale il ruolo del nazismo, responsabile di avere stabilito l’eliminazione dei disabili, a cui sarebbe seguita quella dei malati inguaribili e dei vecchi, di quanti cioè non erano più “utili” alla società, ma costituivano un peso, un danno: “Se si comincia a considerare il danno come una ragion sufficiente per violare la vita umana, non si può più tener fermo nessun limite in maniera convincente”.

Il filosofo è infatti fortemente convinto che “il rispetto dell’uomo in quanto persona è una delle esigenze che non ammettono discussione: ne dipendono la dignità, ma anche il benessere e alla fine la durata dell’umanità. Se questa esigenza viene messa in forse, si cade nella barbarie”.

Guardini risponde, con anticipo, alla pretesa delle donne di essere padrone assolute del proprio corpo, e quindi anche del figlio che vi è racchiuso: “La donna non ha il diritto di disporre del proprio corpo, non è padrona della vita in divenire, ma questa le è affidata; in sostanza non ha su di essa maggiori diritti di quanto ne abbia un qualsiasi essere umano su un altro essere umano”.

Anche su questo ritorna il parallelo con il nazismo: “L’affermazione che il figlio nel grembo della madre sia semplicemente una parte del corpo di lei, equivale a quella che l’uomo sia nello stato una semplice parte del tutto” e quindi “questa opinione deve egualmente concedere allo stato il diritto di disporre degli uomini che ne fanno parte”.

Un intero capitolo è dedicato alla questione dell’embrione, se cioè questo possa essere considerato un essere umano fin dal primo momento del suo sviluppo.

Guardini risponde che l’organismo si manifesta in forma sia sincronica che diacronica, secondo gli stadi in cui è passato o deve ancora passare l’essere umano. E che entrambe le forme, quella strutturale e quella del divenire, “si coappartengono, vale a dire rappresentano entrambe appunto l’organismo, la prima nello spazio, l’altra nel tempo. In entrambi i casi si tratta di una unità indivisibile”, perché l’uomo “è la totalità della sua esistenza, che non è soltanto natura, ma anche storia, che non possiede soltanto uno sviluppo, ma anche un destino”.

Se si rifiuta questa realtà, se si considera l’essere umano non un carattere essenziale, ma qualcosa che è dato in grado superiore o inferiore, si finisce fatalmente con il costruire una graduatoria, applicabile non solo alla fase embrionale, ma a tutte le parti del complesso vitale. La distanza dall’optimum si può dunque manifestare sia nella decadenza della vecchiaia sia nelle menomazioni e nelle malattie, cosicché “quanto più un individuo è malato, debole, sventurato, tanto meno può pretendere al carattere di vero essere umano”. In perfetta analogia con il concetto, originariamente nazista, di “vita non degna di essere vissuta”.

La difesa della vita, in Guardini, coincide con la difesa dell’umanità dalla barbarie, appena sperimentata nella dittatura hitleriana, e il suo lucido ragionare mette in guardia da ripetere gli stessi errori, perché “le azioni sbagliate, anche se appaiono utili, alla fine conducono alla rovina”.

Guardini confuta chi sostiene che l’aborto, la selezione degli embrioni e il loro uso a fini di ricerca sono libere decisioni individuali e non coercizione dello stato, come al tempo del nazismo. La sostanza, sostiene, è la stessa e uguale il pericolo di barbarie.

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Perché il concepito è vero uomo fin dal primo istante
di Romano Guardini

Il capitolo IV della conferenza di Guardini, in cui l’autore spiega perché il nascituro è un essere umano compiuto – e quindi inviolabile – fin dall’istante del concepimento.

Può dirsi essere umano il frutto che matura nel grembo materno? Che lo sia negli ultimi mesi del suo sviluppo è incontestabile, perché dire che lo diventa soltanto al momento in cui si stacca dal grembo materno sarebbe troppo ingenuo. La psicologia è in grado di avanzare, sulla strada dell’inconscio, persino nella vita psichica del nascituro, e la pedagogia parla di un’educazione prenatale.

Ma il frutto è forse un essere umano fin dal primo momento del suo sviluppo? Oppure lo diventa in un momento qualsiasi, che va determinato con esattezza, tra il concepimento e la nascita, di modo che, riguardo al nostro problema, risulterebbe veramente importante determinare in modo esatto tale momento, onde poter effettuare l’intervento [abortivo] senza scrupoli morali?

Si dice che nel primo periodo, ossia fino al centesimo giorno, l’embrione non sia ancora un vero e proprio essere autonomo, bensì una formazione del tutto appartenente all’organismo materno. Non appena si esamini senza pregiudizi questa dichiarazione, si vede subito che non è dettata necessariamente dall’oggetto medesimo, ma dall’esterno, da motivi che hanno a che fare con determinati interessi vitali. E si vede inoltre che si fonda su una concezione meccanicistica dell’essere vivente.

Che cosa si obietterebbe se qualcuno asserisse che un certo vegetale c’è come tale soltanto quando si manifesta chiaramente il carattere di albero? O se qualcuno asserisse che un animale, il cui sviluppo avviene fuori dall’organismo materno, ad esempio un pesce, è questo pesce soltanto quando ha squame e pinne e quant’altro ancora appartiene alla sua forma caratteristica? Si risponderebbe che si tratta di un’assurdità. Poiché il modo di esistere del vivente proviene da un inizio semplice, ossia dalla divisione di una cellula o dall’unione di due, passa attraverso una serie di trasformazioni fino al pieno svolgimento morfologico, per giungere poi attraverso le varie forme della stabilizzazione e del decadimento fino alla morte.

Questi singoli stadi però – e ciò è essenziale – non si susseguono l’uno dopo l’altro in una serie esteriore, ma formano un tutto, una forma [Gestalt] nel senso stretto del termine.

Ciò che chiamiamo organismo, da questo punto di vista, ha due forme per manifestarsi.

Una è sincronica, laddove le varie formazioni (a cominciare dalle molecole proteiche fino agli organi più complessi) si congiungono in una struttura complessiva, o, per meglio dire, ogni momento singolo si forma fin dall’inizio secondo la struttura complessiva: chiamiamo questa prima forma “forma strutturale” [Baugestalt].

Ma v’è anche l’altra forma, quella diacronica, laddove i vari stadi attraverso i quali è passato o deve ancora passare l’individuo (a cominciare dalla prima forma delle cellule originarie che si separano o delle cellule dei genitori che si uniscono, per passare per la piena maturità ed arrivare all’ultimo decadimento) portano a formare la struttura complessiva, o per meglio dire: ogni fase si coordina nel complessivo processo di sviluppo; chiamiamo questa seconda forma “forma in divenire” [Werdegestalt]. Questa forma in divenire è necessaria e caratteristica per l’essere vivente in questione, tanto quanto la forma strutturale, e non è possibile togliere né una fase a quella, né un membro a questa.

Da parte loro entrambe le forme, quella strutturale e quella in divenire, si coappartengono, vale a dire rappresentano entrambe appunto l’organismo, la prima nello spazio, l’altra nel tempo. In entrambi i casi si tratta di un’unità indivisibile, poiché ogni elemento è determinato dal tutto e viceversa il tutto ha necessità di ogni elemento. “L’albero” è quella figura che ha la sua presenza nello spazio, disposta in radici, tronco, rami, fogliame – ma è pure quella serie di fasi che vanno attuandosi nella successione temporale di seme, embrione, pianticella, albero adulto pienamente sviluppato. L’albero, in ogni fase sempre identico a se stesso, si attua interamente soltanto nella serie completa fino all’ultimo morire della radice.

Sostenere che l’essere da noi considerato incominci a esser se stesso solamente quando ha già percorso un certo numero di forme evolutive, sarebbe piatto meccanicismo, essendo posta in tal caso una somma di particelle in luogo di una totalità vivente. Chi in qualche modo ha compreso che cosa sia l’”organismo”, non può far a meno di dire che l’essere vivente in questione incomincia fin dalla divisione della prima cellula ovvero dall’unione delle due cellule dei procreatori.

E ciò vale anche per l’uomo. La curva della sua forma in divenire inizia con l’unione delle cellule dei genitori, culmina nella perfezione morfologica e giunge alla morte. Egli dunque è già essere umano fin dal concepimento – come lo è ancora all’ultimo momento del morire. Non è logicamente possibile pensare altrimenti.

Se poi si vorrà obiettare come i primi stadi dell’evoluzione possano comportare già l’importanza spirituale della dignità umana, si deve nuovamente rispondere: è materialismo porre un pensare secondo la quantità al posto di un pensare secondo la qualità. Poiché già le prime cellule possiedono infatti tutta la potenzialità strutturale della vita futura, esse contengono in potenza tutte le forme che si generano non solo durante lo sviluppo embrionale ma pure in quello che seguirà alla nascita, attraverso infanzia, età matura, decadimento. Affinché dalla quantità 2 risulti la quantità 5, bisogna aggiungervi la quantità 3, altrimenti rimane ancora 2. Ma affinché dal primo stadio dell’organismo si formino i seguenti stadi, non c’è bisogno di aggiunta alcuna, bensì di uno svolgimento; v’è già in potenza tutto ciò che verrà.

Una concezione meccanicistica non può rendersi conto dell’essere vivente, poiché lo vede come giustapposizione esteriore, come macchina. Inoltre tale concezione comporta un grande pericolo rispetto alla comprensione del valore: quello di essere improntata dalla quantità, sia in quanto massa, sia in quanto somma degli elementi formativi in atto. Chi pensa in tal modo, vedrà tanto meno l’uomo nell’embrione, quanto minore sarà la grandezza e meno differenziata l’organizzazione del relativo stadio evolutivo; e quindi si sentirà sempre meno impedito a intervenire nella vita embrionale.

Non dobbiamo inoltre dimenticare le altre conseguenze di una simile visione che, in termini generali, sostiene che l’essere-uomo non è un carattere essenziale, ma qualcosa che è dato in grado superiore o inferiore, e precisamente in quella misura in cui lo stadio di sviluppo preso in considerazione si avvicina all’optimum, alla situazione suprema di ricchezza formale e di energia vitale.

Viene così manifestandosi una graduatoria, non solo nelle evoluzioni embrionali che siamo andati finora esaminando, ma anche in altri punti del complesso vitale. La distanza dal punto ottimo può essere proiettata all’indietro, in direzione del principio, con questa conclusione: quanto più lo stadio dell’evoluzione embrionale è primitivo, tanto meno umano è il prodotto. Si può però proiettarla anche in avanti, per concludere: quanto più lo stadio dell’evoluzione autonoma dista dal culmine già raggiunto, ossia quanto più l’individuo è vecchio, tanto meno è ancora uomo. La distanza dall’optimum può inoltre manifestarsi mediante tutte quelle menomazioni che si chiamano malattia, debolezza, sventura, e allora si conclude: quanto più un individuo è malato, debole, sventurato, tanto meno può pretendere al carattere di vero essere umano.

Ma allora tutto dipende da come si fissa la scala esplicativa con cui ‘indicizzare’ l’eliminazione delle forme indebolite, non solo quelle embrionali, ma anche quelle postnatali.

E si deve nuovamente ricordare che teoria e prassi del non lontano passato sono giunte a questa conclusione anche effettivamente e con piena coscienza, ammettendo lo spaventoso concetto di una “vita priva di valore vitale”. Prime vittime furono i malati mentali e gli idioti, sarebbero seguiti gli incurabili – e, infatti, molti di essi vennero uccisi – e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la serie. Ma a questo punto la sfera dell’esistenza degna dell’uomo era definitivamente abbandonata, poiché una tale mentalità è barbarie nuda e cruda.

In verità concepimento e morte, ascesa e decadenza, infanzia e maturità, salute e malattia, appartengono a quel tutto che chiamiamo “uomo”. Sono elementi della totalità della sua esistenza [Gesamtdasein], che non è infatti soltanto natura, ma anche storia; che non possiede soltanto uno sviluppo, ma anche un destino; in cui si compiono non solo incremento e danneggiamento, ma anche conservazione e deperimento, vittoria e sconfitta, superamento ed espiazione. E la malattia sopportata con coraggio, la incapacità di rendimento dalla quale fioriscano bontà, saggezza, maturità sono assai più “valori vitali” di una salute che renda brutali e di una perizia tecnica che estrometta l’esistenza.

Chi pensa in maniera conseguente non può non concludere che l’uomo è realmente un vero uomo fin dal primo momento del suo sviluppo, ossia dall’unione delle cellule dei genitori, cosicché tutti gli stadi del suo divenire sono soggetti alle norme che valgono per l’uomo.

Sia lecito dirlo ancora più chiaramente: la maturità etica presente si rivela nel caso in cui qualcuno, spinto dal fatto che l’esteriore somiglianza dell’embrione con l’uomo diminuisce sempre più guardando all’indietro, o si senta indotto a non considerarlo come uomo, o invece protegga l’umanità ancora latente dell’embrione con vigilante coscienza.

Al forte è affidato l’indifeso, e nel fatto che l’uno usa la sua superiorità per proteggere l’altro, sta la differenza tra forza e prepotenza [Gewalttätigkeit]. Questo prendersi cura, laddove si tratta della vita in divenire, assume uno speciale carattere decisivo per tutta la vita umana. Perciò ci si commuove sempre per il sacrificio che la vera madre compie a favore di questo compito. Lo stesso compito adempie il padre quando protegge la madre e il bambino che in lei si forma. E così pure fa il medico, che sa vedere l’essere umano laddove l’occhio inesperto non lo riconosce ancora, e si fa quasi suo procuratore contro tutte le considerazioni utilitaristiche che lo sollecitano.

Con ciò è stato detto qualcosa che stabilisce il più profondo ethos del medico. Il maestro di pedagogia Hermann Nohl definì una volta l’educatore come quell’uomo che rappresenta il senso della gioventù di fronte alle pretese autoritarie della società – e quindi ovviamente anche di fronte ai suoi stessi impulsi istintivi. Per il medico si può dire qualcosa di simile: egli rappresenta il diritto dell’uomo malato di fronte alla brutalità dei sani. E così pure rappresenta il diritto dell’uomo in divenire di fronte all’egoismo degli adulti – anche all’egoismo che nasce in un caso di necessità.

Qui occorre quell’incorruttibilità che riposa su una chiara visione dell’essenza dell’uomo e dell’incondizionata obbligazione di tutelarne la dignità. Il medico conosce più di ogni altro il dolore e i casi urgenti della vita. Sa pure che il dolore e i casi urgenti degli uomini sono d’altra natura di quelli degli animali, poiché l’uomo è una persona inalienabile nella sua dignità spirituale, insostituibile nella sua responsabilità eterna. Al medico è affidata la situazione di malattia e di incompiutezza del singolo, non solo come fenomeno psicofisico o come utente della pubblica assistenza, ma in quanto contenuto della persona, del suo essere e della sua conservazione. Perciò non deve mai fare come se la persona non fosse; è piuttosto obbligato a proteggerla nell’ambito della sua competenza, anche contro la pressione dei motivi in sé buoni ma che debbono rimanere subordinati a ragioni superiori, prima di tutto all’inviolabilità della persona.