SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Bagnasco : il cristiano di domani o è sarà un mistico o non sarà. 

CARDINALE ANGELO BAGNASCO - Arcivescovo Metropolita di Genova
CAMMINARE NELLE VIE DELLO SPIRITO ALLE SORGENTI DELLA VITA SPIRITUALE
LETTERA PASTORALE 2009-2010

“Grazia e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo” (1 Cor 1,3)

1. Con le parole dell’Apostolo Paolo mi rivolgo a voi, cari fratelli e sorelle nel Signore. Voi siete la mia famiglia, la Chiesa Particolare che il Signore ha affidato alle mie cure pastorali. Da quando il Santo
Padre mi ha nominato Arcivescovo di Genova, ho sentito rinnovarsi quell’affetto - dono dall’Alto prima
che decisione del cuore - che esprime la paternità spirituale di ogni Pastore verso il suo popolo. In verità,
il mio amore per Genova ha radici nella mia infanzia e nasce nel centro storico della nostra Città, dove ho
vissuto con la mia famiglia. Si è poi alimentato ed è cresciuto nel tempo della formazione in Seminario
con l’aiuto di tanti Sacerdoti; si è sviluppato nei trentadue anni di ministero là dove - in parrocchia e
altrove - i miei Arcivescovi mi hanno inviato dandomi fiducia. A Genova non immaginavo più di tornare; la
Provvidenza ha disposto diversamente, e dopo dieci anni sono tornato con tremore e gioia. Ma anche con fiducia nella bontà e nella benevolenza di tutti. A tutti sono profondamente grato, a cominciare dai
miei confratelli. Ho iniziato a scrivervi parlando della preghiera (2007), poi della divina Eucaristia (2008) e infine di Eucaristia e famiglia (2009). Sulla famiglia abbiamo riflettuto nei vari Consigli e nei Vicariati arrivando ad un aggiornamento circa la preparazione al matrimonio. Le precedenti Lettere erano ispirate dalle parole che il Santo Padre aveva indirizzato ai Vescovi Liguri a conclusione della Visita ad Limina, l’incontro che ogni Vescovo fa periodicamente al Successore di Pietro. Egli infatti diceva: “La fiaccola della fede, che avete ricevuto nel battesimo, va tenuta ben accesa con la preghiera e con la pratica dei sacramenti”. Ora ci troviamo nel cuore di un evento particolare che coinvolge tutta la Chiesa, “l’Anno Sacerdotale” che il Papa ha indetto in occasione del 150° anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars (1786-1859). Esso interpella innanzitutto noi, ministri ordinati, ma anche i fedeli laici che nel Battesimo hanno ricevuto quel sacerdozio battesimale che li abilita ad offrire se stessi e la propria vita come “culto spirituale” gradito a Dio. In questo orizzonte, mi è parso che una riflessione
sulla “vita spirituale” fosse non solo una certa continuazione, ma anche un modo per entrare insieme
in questo particolare Anno: un modo che, al di là delle specifiche differenze che affronteremo in altre
forme, riguarda tutti - sacerdoti, consacrati e laici - perché tutti chiamati alla santità in quanto discepoli
di Gesù.

I. INTRODUZIONE
«La messe è molta, ma gli operai sono pochi». 1. Non intendo qui riflettere sulla penuria degli operai del Vangelo, ma sull’abbondanza della messe. Basta guardarsi attorno e vediamo moltitudini che sembrano languire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cercare disperatamente la speranza. Il Santo Padre descrive la situazione con assoluto realismo e fiducia: «Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio». La messe dunque è estesa, come quando Gesù vedeva le folle e ne sentiva compassione «perché erano stanche e sfinite». Ma è estesa anche in profondità, cioè nelle profondità dell’anima e nelle complessità del vivere: nella ricerca insopprimibile della felicità, l’uomo contemporaneo sembra procedere per tentativi e spesso sbaglia la strada. In questo andare ondeggiante – che richiama l’ondeggiare delle messi nei campi – non si esprime forse la perenne nostalgia di Assoluto? l’essere – ogni uomo – un mendicante di Infinito, un perenne cercatore di Dio? La diffusa e a volte confusa esigenza di spiritualità, nonostante il secolarismo che vorrebbe indurre a vivere senza Dio, sembra essere un “segno dei tempi”, esprime un rinnovato bisogno di interiorità, di punti di riferimento per ritrovare se stessi e la strada del vivere. Esprime l’intuizione antica del bisogno di essere salvati. Da che cosa? Dall’indegnità morale, dall’assurdità e dal non senso di tutto - soprattutto della morte – dallo smarrimento interiore che cresce quanto più l’uomo cerca di soffocarlo. È la spia di una intuizione reale anche se a volte confusa: che senza la radicale apertura alla Trascendenza viene meno la consistenza dell’uomo, e il tessuto della vita individuale e comunitaria si sfalda e si corrompe. La stessa dimensione etica – personale e sociale – si indebolisce perché privata del suo ultimo fondamento. Senza Dio si perde l’uomo.

2. Il Santo Padre Benedetto XVI avverte che «una nostalgia di Dio, di spiritualità, di religione esiste
oggi nelle persone e che si ricomincia anche a vedere nella Chiesa una possibile interlocutrice, dalla quale,
a questo riguardo, è possibile ricevere qualcosa (…) Cresce nuovamente la consapevolezza: la Chiesa è
una grande portatrice di esperienza spirituale; è come un albero, nel quale possono porre il loro nido gli uccelli, anche se poi vogliono di nuovo volar via – ma è, appunto, il luogo dove ci si può posare per un certo tempo». La “diffusa esigenza di spiritualità” esprime, a ben vedere, anche il bisogno di un’educazione integrale. Se la persona non si educa nella sua completezza di anima e di corpo, non si ha personalità adulta: resta carente e incompleta, quindi fragile di fronte all’urto incessante del quotidiano. Non basta sviluppare, anche al meglio, alcune capacità personali: perché il percorso educativo sia efficace è indispensabile coltivare l’uomo nella sua totalità. Il bisogno di spiritualità, dunque, rivela anche questa intuizione, forse non sempre chiara e distinta. In una cultura che esalta ed assolutizza l’aspetto fisico, la forma e l’immagine, l’uomo non riesce a costruire se stesso e a trovare la felicità, non può formare una società veramente umana, né portare serenamente – insieme alle gioie – i pesi dell’esistenza. La ricerca della dimensione spirituale dice che l’uomo non può fondarsi sulla sabbia, ma deve edificare
se stesso sulla solida roccia. E la roccia è l’anima: educare l’anima non significa deprezzare o escludere
nulla della persona, ma rendere vero e duraturo tutto ciò che la riguarda. Ecco la “vita spirituale”.
La coppia e la famiglia, la maturità solida della persona, la vocazione personale, la speranza verso il
domani, la sintesi feconda tra fede e vita, lo spessore etico, la reazione alla conflittualità sociale, l’onestà
nel lavoro… non hanno forse nella vita spirituale il “punto di forza”? Se coltivassimo di più l’anima,
che è il centro dell’uomo, non saremmo più capaci di affrontare le inevitabili sfide della vita, di superare le
tentazioni del male e di resistere alle lusinghe delle facili evasioni dalla complessità e dalla durezza del
reale? I mondi artificiali, o addirittura virtuali, sono fughe dalle quali si ritorna sempre delusi e vuoti!
Quindi deboli.


II. VERSO IL “CENTRO”

3. Nonostante le non poche luci del nostro tempo, la modernità non ha mantenuto la promessa di fondo:
costruire un mondo più umano e sereno. Il valore del progresso e della funzionalità, se assunto a mito,
rischia di ridurre la persona ad una sola dimensione, quella della materialità. La dimensione etica è spesso
soppiantata dalle crescenti possibilità tecnologiche, per cui tutto ciò che è possibile tecnicamente è ritenuto
legittimo moralmente. Così il grande dono della ragione, usata solo in chiave strumentale – in modo
utilitaristico – mortifica l’uomo e lo rende incapace di ascoltare il mistero delle cose, di contemplare la
realtà, di ritrovare l’unità con la natura e i suoi tempi. Soprattutto, lo ostacola nel riflettere sul senso ultimo
di se stesso, del suo esistere e morire. Già il grande pensatore italo-tedesco, Romano Guardini, metteva in guardia da un mondo puramente funzionale: «Non ci sarebbe posto in esso per il favore del dono, per il fiorire di una cosa nuova, per la riuscita, che rende felici, di una cosa perfetta, per il libero aprirsi del cuore».
4. Ma l’uomo non può vivere a lungo così: in un modo o nell’altro, prima o dopo, si pone il perenne
problema ed è costretto a «giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta»8. Anche se gli
impegni della famiglia e del lavoro gli permettono di realizzare dimensioni importanti, l’uomo cerca il
senso globale dell’esistenza e non solo quello parziale delle singole azioni. Si tratta, in altre parole,
della domanda antica quanto l’uomo, ma alla quale ognuno deve dare personalmente risposta: «Per quale
scopo sono qui? La mia vita è utile a qualcuno? Che cosa c’è dopo la morte?». Porsi questi interrogativi è
indirizzarsi verso il “centro”, recuperare quella dimensione profonda dello spirito che una cultura orizzontale e pragmatica vorrebbe mettere tra parentesi.
Il filosofo ebreo Martin Buber (1878-1965), nel suo celebre scritto Il cammino dell’uomo, ricorda
una massima della tradizione ebraica: «Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto. Chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame».
Trovato il “centro”, è possibile costruire o continuare quell’edificio interiore che costituisce la struttura
portante di ogni persona, la sua consistenza, e che chiamiamo “vita spirituale”. 5. Il fenomeno diffuso dell’occultismo e della superstizione, la suggestione delle filosofi e orientali, la ricerca di spiritualità esoteriche, le diverse forme di New Age, sono a loro modo segni di una ricerca, dell’intuizione che l’uomo non è riducibile a un grumo di cellule più sviluppate, una somma di bisogni fisici o di istanze psicologiche e affettive. Al fondo di certe tendenze, pur non coerenti con la fede, scorre la sensazione che la vita non è una pura sequenza di giorni fino al definitivo spegnimento. In ogni tempo e luogo, le culture attestano che l’uomo ha una percezione di sé decisamente più completa e alta: egli cioè si percepisce come uno spirito immortale in unità profonda con la propria corporeità e in vitale rapporto con Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza». Quanto più si avvicina al centro interiore dell’anima, tanto più diventa cosciente che il suo “centro” radicale e fondativo è fuori di sé: è Dio. E comprende che Dio gli chiede di aprirgli l’intima dimora dello spirito per incontrarlo nel vincolo dell’amore che crea e che salva.
Significativa è la testimonianza di uno storico greco del primo secolo dopo Cristo: «Se tu andassi in
giro per il mondo, potresti trovare città prive di mura, che ignorano la scrittura, non hanno re, case, ricchezze, non fanno uso di monete, non conoscono teatri e palestre; ma nessuno vedrà, né vedrà mai, una città senza templi e senza divinità».

6. Anche gli impegni e le preoccupazioni che riempiono le nostre giornate sono una sfida da prendere in
debita considerazione: il rischio è quello di rincorrere le cose da fare, tanto da esserne presi e da rimanere
alla superficie degli avvenimenti, dei rapporti con gli altri, di noi stessi… senza cogliere la dimensione più
intima, l’anima. L’esistenza può diventare una specie di congegno di nascondimento rispetto alla responsabilità della vita e di noi stessi. Un nascondersi, come l’antico Adamo, da Dio. Esiste per tutti il pericolo di una specie di atrofia dello spirito. Per questo occorre tirarsi “fuori”, o meglio entrare in noi stessi, affacciarsi a quella realtà più profonda di noi che rischia di essere poco guardata, presi da mille cose immediate. Ma le cose più urgenti non sono sempre le più importanti. Si tratta di accogliere l’antica e attualissima esortazione di sant’Agostino: «Non uscire da te; rientra in te; nell’uomo interiore abita la verità». È necessario ritornare a se stessi non per ripiegarsi e rinchiudersi, ma per ripartire e aprirsi. L’esperienza di Agostino potrebbe essere anche nostra: «Tardi ti ho amato, bellezza antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che, se non esistessero in te, neppure avrebbero esistenza». La grande mistica santa Teresa d’Avila (1515-1582) ha avuto in dono una visione di questo “centro” profondo insito in ogni uomo, e lo ha così descritto:
«Possiamo considerare la nostra anima come un castello fatto di un solo diamante o di un tersissimo
cristallo, dove sono molte stanze, come molte ve ne sono in cielo. (...) Io non vedo nulla a cui paragonare
la grande bellezza di un’anima e la sua immensa capacità; a stento possiamo capire qualcosa della grande
dignità e bellezza dell’anima. (...) Tutta la nostra attenzione si volge sulla rozza incastonatura di questo
diamante o sul muro di cinta di questo castello, cioè il nostro corpo. Nel centro di questo castello,
in mezzo a tutte le stanze, si trova la principale, che è quella nella quale si svolgono le cose di maggior
segretezza tra Dio e l’anima».

7. C’è una condizione indispensabile per arrivare al “centro”: il silenzio. Oggi sembra si abbia paura
del silenzio, forse perché fa sentire di essere soli, perché mette di fronte a se stessi. A volte la compagnia
di sé spaventa: meglio il rumore assordante che distoglie da questo difficile confronto; meglio la compagnia
chiassosa che illude di essere “insieme” mentre si è solo “accanto”. La via per entrare in noi stessi, nel nostro cuore, è il silenzio e quindi la buona solitudine. Il Signore Gesù, nella sua missione terrena, non aveva neppure il tempo per mangiare, ma non esitava di lasciare le folle per ritirarsi in un luogo solitario abitato dal silenzio: «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù».
Ascoltiamo ancora il Guardini: «C’è in te un silenzio che si ascolta con l’anima. In questo silenzio
l’ospite riposa, l’anima si risana». È questo il “silenzio buono” che ognuno deve cercare per fermare
la corsa interiore e tornare sulle cose, per coglierne il significato e il valore, per rapportarle al fine per cui
viviamo, perché da semplice cronaca diventino esperienza, anzi saggezza.
Esiste, per contro, un silenzio che possiamo definire “cattivo”, perché non è il luogo della verità ma
segno di distanza e di distacco, spesso di risentimento: «Per esistere personalmente, l’uomo deve anche
tacere. Non essere muto: la mutezza è mancanza di parola, in cui la persona soffoca. Il tacere invece
suppone la persona»16. E Bossuet affermava che il silenzio è «il guardiano dell’anima». Esso non
è evasione, ma è raccogliere noi stessi nel cavo di Dio. Il silenzio, quello abitato dalla ricerca e dal gusto
della verità, non è dunque mutismo. È il silenzio dei santi e dei profeti che entrano nella cella segreta
dell’anima e incontrano se stessi nel mistero di Dio, fanno ordine nei sentimenti, riconoscono i propri errori.
In questo spazio gli accadimenti trovano la loro misura, il dolore diventa maestro di vita, le gioie si
distinguono tra vere e false, le aspirazioni si rivelano ragionevoli oppure sproporzionate, le conquiste si
manifestano come doni e segnali verso la Meta. In una parola, nel silenzio pensoso l’anima riconosce se
stessa, ordina la vita, si scopre importante per Dio, ne percepisce il richiamo. Suonano come un programma le parole di Papa Benedetto XVI: «La risposta a Dio esige quel cammino interiore che porta il credente ad
incontrarsi con il Signore. Tale incontro è possibile solo se l’uomo è capace di aprire il suo cuore a Dio,
che parla nella profondità della coscienza. Ciò esige interiorità, silenzio, vigilanza (…)»

III. LA VITA SPIRITUALE

8. Qualcuno ha affermato che il cristiano del futuro sarà un “mistico” o non sarà volendo mettere in
evidenza che lo specifico della fede cristiana non è avere buoni sentimenti e neppure un codice di comportamento, ma è la vita della grazia. La fede cristiana è conoscere Dio perché lo si incontra; è sapere che Dio è Qualcuno; non è fare alcune cose ma vivere riferiti, ricongiunti a Lui; è intuire che noi esistiamo
perché Dio vive; è esserne affascinati, ghermiti e posseduti.
Il rischio di pensare il Cristianesimo come fatto morale e non innanzitutto soprannaturale, come riserva
di valori – una specie di “religione civile” – e non innanzitutto come apertura al Mistero, è oggi diffuso.
Se esso è ridotto a teoria o a codice, svuota se stesso: solo una persona suscita incanto! Il cristiano è colui che sente l’attrattiva di Gesù perché rivela il volto di Dio, e di questo fascino vive nonostante fatiche e cadute.
Suonano ardite, ma straordinariamente vere le parole di grandi santi: «L’uomo ha ricevuto l’ordine di
diventare dio», afferma san Basilio. E sant’Atanasio incalza: «Dio si è fatto uomo affinché l’uomo potesse
diventare dio secondo la grazia», e perché l’uomo potesse rispondere a questa straordinaria vocazione
«il Verbo si è fatto carne perché noi potessimo ricevere lo Spirito Santo»!

9. Questo «diventare dio secondo la grazia» esprime un dono e una responsabilità, una chiamata
e una risposta. Il dono è il Battesimo, la risposta è il cammino del nostro mondo interiore,
è il lavoro dell’anima. La vita spirituale è “spirituale” perché è implicato il nostro spirito immortale
con la sua libertà e le sue caratteristiche; è “spirituale” perché è un camminare secondo lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto nel Battesimo: «In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito non può entrare nel Regno di Dio. Quel che è nato da carne è carne e quel che è nato dallo
Spirito, è Spirito»19. E San Paolo riprende: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito costoro sono
figli di Dio… E lo Spirito attesta che siamo figli di Dio». Ne consegue, da parte dell’uomo, il compito
della vita spirituale: «Camminate secondo lo Spirito… se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo
anche secondo lo Spirito».
Per questo dobbiamo avere fiducia: fiducia nell’azione potente dello Spirito Santo, primo protagonista
del nostro itinerario spirituale.

10. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù»22. L’esortazione di Paolo indica lo scopo del cammino spirituale: avere gli stessi sentimenti di Gesù. Non si tratta di sentimenti evanescenti e volubili, ma di solidi criteri che fanno lo stile di Cristo, modello attraente e vitale del credente: «La creazione dell’uomo è fatta per Lui (Cristo), affinché l’uomo non possa separarsi dal suo modello»23. Dall’acqua del Battesimo l’uomo riceve nell’anima il Volto di Gesù; ma nel corso dell’esistenza terrena egli deve far risplendere questa originaria bellezza vivendo con gli stessi sentimenti di Cristo: imparando a pensare con il pensiero di Lui e ad amare con il suo cuore. Questo cammino di conformazione spirituale e ascetica a Gesù, anzi di appartenenza radicale a Lui, è la vita spirituale. Il compito che il Servo di Dio Giovanni Paolo II indicava alla Chiesa all’inizio del millennio era quello di “ripartire da Cristo”, contemplare il suo Volto profondamente umano e profondamente divino. Scopo di questa contemplazione spirituale è la nostra configurazione a Lui, cioè la santità: «Chiedere a un catecumeno: ‘Vuoi ricevere il Battesimo?’ significa al tempo stesso chiedergli: ‘Vuoi diventare santo?’ (…) È ora di riproporre a tutti con convinzione questa ‘misura alta’ della vita cristiana ordinaria».

IV. LE SORGENTI DELLA VITA SPIRITUALE

1. La Parola di Dio

11. «Tu hai parole di vita eterna» risponde Pietro a Gesù che chiede se anche loro, gli apostoli, volevano
abbandonarlo come la folla. Nel grande mercato delle parole, l’uomo moderno cerca la Parola come il mercante cerca la perla preziosa. La Parola di cui il mondo ha bisogno riguarda il senso ultimo di questo straordinario e fragile universo, della nostra tormentata storia. L’uomo cerca la luce sulla morte e sul dolore, specialmente quando questo bussa alla porta di casa. È di questa parola che ognuno ha desiderio: le altre hanno significato se in qualche misura servono a questa parola decisiva. Immergersi nelle Scritture Sante, affidarsi con semplicità e costanza alla Parola del Signore, è la prima sorgente della vita spirituale. Dal Vangelo infatti emerge il volto di Gesù: le sue parole, i silenzi, i gesti, i sentimenti, il suo rapporto con il Padre. A questa sorgente cristallina le anime si sono sempre dissetate prendendo vigore per vivere, come ricorda
il Concilio: «La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo,
non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del Pane della vita dalla mensa sia della
Parola di Dio che del Corpo di Cristo»26. E il grande Vescovo e martire del secondo secolo, sant’Ignazio
d’Antiochia, affermava in modo incisivo: «Mi affido al Vangelo come alla carne di Cristo»! Nella linea di
questa viva tradizione, i Vescovi italiani esortano tutti a fare della Bibbia il pane quotidiano: «Dovremmo
nutrirci della Parola di Dio bramandola come il bambino cerca il latte di sua madre: per la vitalità della
Chiesa, questa è un’esperienza essenziale».
Accostare ogni giorno un brano evangelico richiede un po’ di fede e di buona volontà. È come esporsi
alla luce per diventare luminosi, è nutrire l’anima, è mettersi alla scuola di Gesù, il Figlio eterno di Dio.
Attraverso le mani invisibili dello Spirito Santo, la Parola modella il nostro spirito e gli imprime i sentimenti di Cristo. Il Vangelo, “frequentato” ogni giorno, diventerà la nostra casa accogliente anche se esso è impegnativo perché mette a nudo l’anima. Lasciamoci incoraggiare dalle parole del salmo: «Sono più
saggio di tutti i miei maestri perché medito i tuoi insegnamenti. Ho più senno degli anziani perché osservo
i tuoi precetti».

12. Per accostare con verità e frutto le Sacre Scritture è necessario credere che esse «contengono la Parola
di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio». Il Vangelo non è un libro fra i libri. È la
parola del Verbo di Dio fatto vita da contemplare e da raccontare. In esso c’è una virtù che illumina e trasforma, un dono che si riversa nelle mani della fede; che si riceve nelle profondità della speranza; che
chiede un’anima prosternata nell’adorazione. È avvincente la testimonianza dell’agnostico André Gide:
«Non perché mi sia stato detto che tu eri il Figlio di Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al
di sopra di ogni parola umana e da ciò riconosco che sei il Figlio di Dio»!
Inoltre, occorre ricordare che Gesù continua ad essere con noi anche oggi per spiegarci le Scritture:
è Lui, con il suo Spirito e nella sua Chiesa, a spiegare la sua parola. Ecco perché la Bibbia va sempre
letta nella Chiesa e con la Chiesa, per non correre il rischio di dare interpretazioni puramente soggettive
e distorte; per lasciarlo parlare senza aggiustamenti; per non «metterlo alla pari con la moda del giorno,
come se Dio non fosse alla moda di tutti i giorni, come se si potesse ritoccare Dio», come scriveva una
ventenne francese, Madeleine Delbrêl, che si convertì al Cattolicesimo nel 1924.
Una vita spirituale solida, dunque, richiede l’attenzione alla Tradizione viva e al Magistero autentico:
la Chiesa è Madre e Maestra, e ha ricevuto dal suo Signore il compito di custodire intatta la fede apostolica
per il bene dei credenti. Ecco perché l’ascolto filiale e docile della parola del Papa, e dei Vescovi con
lui, fa parte della crescita spirituale di ogni credente. Ascoltiamo ancora il Concilio Vaticano II: «L’ufficio
di interpretare la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui
autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo».
Inoltre, perché la fede diventi adulta, non si può prescindere dalla conoscenza progressiva di tutte le
verità della fede cattolica, altrimenti diventa un sentimento senza contenuti. È qui da ricordare la grande
ignoranza che dilaga a proposito delle verità della nostra religione: purtroppo anche delle più basilari. A
tale proposito è strumento provvidenziale il Catechismo della Chiesa Cattolica, autorevole e completa
sintesi dottrinale.
In questo contesto, è opportuno ricordare che la crescita della fede si misura anche con la storia, cioè
con la testimonianza di fronte al mondo. Il Signore Gesù ha dato ai discepoli il compito di essere «luce
e sale della terra»32: si tratta della responsabilità di ogni fedele laico di animare le realtà terrene con i
valori cristiani, consapevole che una cultura ispirata al Vangelo è un bene per tutti. Cosciente che il suo
compito è di «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal
di dentro (...)» fino a «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio,
i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita
dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza». La fede non può
mai essere confinata nella sfera del privato: coinvolge l’intera persona e quindi anche la sua dimensione
pubblica e sociale. I grandi valori della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà – pilastri di un
mondo prospero e pacificato – sono valori evangelici, desiderati e perseguiti da ogni uomo di buon senso e di buona volontà. Per rispondere a questo delicato e irrinunciabile compito, dobbiamo ricordare la necessità e il dovere di conoscere e mettere in pratica il Magistero sociale della Chiesa. Il “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa” deve essere, per ogni cattolico che intende vivere una fede matura e incarnata, un punto di costante riferimento e di concreto orientamento.

13. Anche le parole degli uomini possono aiutare: se non sono chiacchiere. Si può parlare senza dire;
peggio ancora è seminare idee false e principi immorali. Tra le molte parole che dilagano è necessario
discernere per individuare quelle dense di significato, di saggezza; che aiutano a camminare nelle vie della
verità e del mistero; che illuminano per conoscere se stessi. Sappiamo che la parola umana è veicolo di verità e di comunicazione; ma può diventare strumento di menzogna, di raggiro, di violenza.
Gli uomini che, dall’antichità ad oggi, hanno pensato e scritto con intelligenza e onestà interiore,
sono come delle luci per l’umanità. Meritano di essere considerati con attenzione e gratitudine. Bisogna
distinguere tra i buoni e i cattivi maestri: gli uni umilmente indicano delle vie per introdurci al mistero della realtà. Gli altri con sufficienza, a volte arrogante e a volte melliflua e contorta, demoliscono i valori in nome di una concezione di libertà impazzita perché sradicata dalla verità delle cose. Tentano di insinuare e di «far prevalere una antropologia senza Dio e senza Cristo»34, chiusa allo spirito e alla Trascendenza.
Quando ciò avviene, la libertà perde se stessa e si rivolta contro l’uomo: basta pensare alle varie idee circa la vita, la bioetica, la coppia, la famiglia, il matrimonio. Attaccare questi “santuari” dell’uomo significa non solo andare contro Dio ma anche contro l’uomo.
Solo aderendo alla verità la persona vive sulle ali della libertà. La vera libertà è scegliere il bene, perché
solo il bene realizza l’uomo: e il bene ce lo indica Dio che è il Sommo Bene.

2. La preghiera

14. Come sulla via di Emmaus, non basta essere ammaestrati dalla Parola del Signore: perché l’incontro
con Lui si compia è necessario entrare nella preghiera. Mentre le Sacre Scritture ci svelano il mistero di Cristo, la preghiera personale esprime il dialogo con Lui, e i sacramenti – in modo particolare la divina Eucaristia – ci introducono tra le braccia del Risorto.
Emerge, dunque, un altro aspetto fondamentale dell’itinerario spirituale: l’unità tra Parola, preghiera
e Sacramenti. L’ascolto della Parola scritta, infatti, tende per suo intimo dinamismo all’incontro con la
Parola fatta carne, Cristo. È ancora Giovanni Paolo II che ci incoraggia. Egli constata «un rinnovato bisogno di preghiera» e ci ricorda che «la grande tradizione mistica della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, può dire molto a tale proposito. Essa mostra come la preghiera possa progredire, quale vero e proprio dialogo d’amore, fino a rendere la persona umana totalmente posseduta dall’Amato divino (…) Si tratta di un cammino interamente sostenuto dalla grazia, che chiede tuttavia forte impegno spirituale e conosce anche dolorose purificazioni (la “notte oscura”), ma approda, in diverse forme possibili, all’indicibile gioia vissuta dai mistici come unione sponsale».

15. Il cammino di vita spirituale richiede ogni giorno un piccolo tempo dedicato alla preghiera personale:
potrà essere all’inizio della giornata o al suo termine, da soli o con altri, in casa o in chiesa davanti al Santissimo Sacramento; con un brano del Vangelo, con i salmi o con le tradizionali preghiere del cristiano (il Padre nostro, l’Ave Maria, il Ti adoro, l’Angelo di Dio, l’Eterno riposo…), o con il Rosario che è il
Vangelo meditato e pregato con la Santa Vergine. Nessuno deve sentirsi incapace o escluso! Nessuno
deve pensare che è troppo difficile o impossibile!
La preghiera, ci insegnano i Santi, è semplice: «Per me la preghiera è uno slancio del cuore, un semplice
sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia». E ancora:
«La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti». Uno sguardo
al crocifisso, al tabernacolo, all’immagine della Madonna, un semplice grazie, un’invocazione di aiuto
nella difficoltà, un’umile richiesta di perdono, una riflessione su una pagina di Vangelo… tutto è preghiera
gradita a Dio. Ed è possibile a tutti.

16. Vorrei aggiungere una certezza di fede: non dobbiamo lasciarci impressionare dalla semplicità e
a volte dalla povertà della nostra preghiera. La cosa più importante e decisiva è credere che attraverso
questi momenti di orazione, piccoli ma quotidiani, lo Spirito Santo forma la nostra anima e la configura al
volto di Gesù.
Quando il dolore, il bisogno, le difficoltà bussano alla nostra porta, la preghiera sgorga più facile e immediata.
Nel mio ministero molte volte ho ascoltato l’obiezione che la preghiera fatta in stato di necessità
non è autentica perché “interessata”! È un’obiezione ingiusta. Dimentica l’esempio di Cristo che mai,
nella sua vita terrena, ha biasimato la preghiera dei malati e dei sofferenti: di coloro che si rivolgevano
a lui sulla spinta dell’afflizione. Senza dire che Egli stesso, nell’orto degli Ulivi, in stato di sanguinosa
agonia di fronte alla passione imminente, ha pregato di allontanare il calice della sofferenza e della morte:
«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!».
L’esperienza della difficoltà e della debolezza riconduce l’uomo alla sua verità: la verità di non essere
creatore ma creatura, non padrone della vita ma beneficiario e quindi umile custode. Troppo spesso
oggi si rischia una specie di “delirio di onnipotenza”, dimenticando che noi esistiamo perché “dipendiamo”
da Dio: «dimenticando che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. L’aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l’uomo»39. La prova ci ricorda, anzi ci fa toccare con mano questa realtà: per questo l’anima ritrova facilmente la via della preghiera che esprime umilmente il rapporto vitale con Dio, Creatore e Padre.
Certamente, è auspicabile e doveroso che la nostra preghiera vada oltre il momento della difficoltà
e percorra ogni istante, lieto o triste, della nostra esistenza. Così come, sull’esempio di Gesù, le nostre
richieste devono essere sempre ispirate al totale e fiducioso abbandono alla divina Provvidenza, le cui
vie non sono sempre le nostre: «Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà».

2.1 Eucaristia

17. Ma la preghiera delle preghiere, il gesto dei gesti, è la santa Messa, il Sacrificio divino, «fonte e
apice di tutta la vita cristiana»41: «nella Santissima Eucaristia, infatti, è racchiuso tutto il bene spirituale
della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua».
Nella partecipazione alla santa Messa offriamo al Padre, insieme al Sacrificio di Cristo, le pene e le
gioie della vita, le difficoltà e le speranze, perché tutto acquisti valore per il tempo e per l’eternità. Gesù
ci ha lasciato il memoriale del Sacrificio della Croce perché la nostra vita spirituale potesse attingere luce
e forza, e così imparare ad amare come Lui ama ciascuno di noi. L’apostolo Paolo afferma con inesausto
stupore: «…mi ha amato e ha dato se stesso per me…!». Ognuno applichi a sé queste parole! Sentirà
sua l’affermazione di san Giovanni Crisostomo: «Niente spinge tanto all’amore chi è amato, quanto il
sapere che l’amante desidera ardentemente di essere corrisposto!». La divina Eucaristia non è forse Gesù
stesso che nel pane e nel vino consacrati rende visibile il suo ardente desiderio di essere amato dall’uomo?
Lì Dio è con noi nella sua reale presenza: si fa pane di vita eterna, sorgente della comunione fraterna. Egli
non ha bisogno di noi, mentre noi abbiamo bisogno di Lui: nel presente e nell’eternità futura.
Comprendiamo che non si può camminare nella via dello Spirito senza partecipare il più possibile
alla santa Messa, a cominciare dalla domenica, il Giorno del Signore, in cui per tutti i cristiani esiste
un gioioso dovere. Nell’omelia per il XXIV Congresso Eucaristico nazionale, Papa Benedetto XVI ha rivolto a tutti questo invito: «Noi dobbiamo riscoprire la gioia della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di poter partecipare all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato. (...) Sant’Ignazio di Antiochia presentava i cristiani come persone “viventi secondo la domenica (...) Come potremmo vivere senza di Lui?”. Sentiamo echeggiare in queste parole di sant’Ignazio l’affermazione dei martiri di Abitene: “Sine dominico non possumus” – “senza la domenica non possiamo vivere”. Proprio di qui sgorga la nostra preghiera: che anche i cristiani di oggi ritrovino la consapevolezza della decisiva importanza della Celebrazione domenicale e sappiano trarre dalla partecipazione all’Eucaristia lo slancio necessario per un nuovo impegno nell’annuncio al mondo di Cristo “nostra pace”. Amen!».
Siamo tutti invitati, per la nostra vita spirituale come per quella delle nostre comunità, a crescere nell’amore
all’Eucaristia non solo con la regolare partecipazione alla Messa festiva, ma anche con la visita individuale
al Santissimo Sacramento, con la pratica della “Comunione Spirituale” quotidiana e, almeno una volta
nella settimana, con l’adorazione personale o comunitaria davanti al Santissimo esposto.
È questo il momento migliore per vivere la preghiera di adorazione, di lode, di benedizione. L’«adorazione
» è riconoscere e gioire della nostra piccolezza e fragilità di fronte a Dio «sempre più grande di
noi». È stare da creature di fronte al nostro Creatore che ci avvolge e ci abbraccia. La “lode” è cantare Dio perché Egli è, gioire perché esiste. La “benedizione” è la nostra risposta riconoscente e grata per i doni che Egli sparge nella nostra vita e nella storia. Come è evidente, la benedizione diventa ringraziamento, ed è preludio dell’intercessione e della domanda.

2.2 Riconciliazione

18. E che dire del sacramento della Riconciliazione o del perdono? «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio». Gesù dona agli Apostoli il potere di riconciliare con Dio i peccatori pentiti: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». La confessione individuale e integra e l’assoluzione sacramentale costituiscono l’unico modo ordinario con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa.
Siamo tutti peccatori, bisognosi della misericordia e del perdono di Dio. Vivere da cristiani è avvincente
ma arduo, significa spesso andare contro corrente, anche contro noi stessi: non di rado si è incoerenti.
Il Signore Gesù nella confessione ci fa scoprire e gustare il suo cuore compassionevole e ci riconcilia
pienamente a sé (grazia santificante). Ci dona anche una grazia tutta particolare per riprendere il cammino
della vita spirituale con fiducia e vigore (grazia sacramentale). Per questi motivi è importante accostarsi frequentemente alla confessione con umiltà e fede. Come non essere presi da intima commozione ripensando al padre misericordioso della parabola evangelica51, che ogni giorno scruta l’orizzonte per scorgere il ritorno del figlio dissoluto, da lontano ne riconosce la figura, gli corre incontro e lo avvolge con il suo abbraccio di perdono e di festa?
Alla luce di questo incontro che rigenera, comprendiamo e restiamo avvinti dalle parole di sant’Ambrogio:
«Non mi glorierò perché sono giusto, ma mi glorierò perché sono redento. Non mi glorierò perché sono
vuoto di peccati, ma perché i peccati mi sono rimessi. Non mi glorierò perché sono stato d’aiuto (…) ma perché il sangue di Cristo è stato versato per me». Un cammino spirituale serio non può prescindere
dalla Confessione frequente e ben preparata attraverso l’esame di coscienza, il dolore per il male compiuto,
il proposito sincero di migliorarci con la grazia di Dio, l’accusa dei propri peccati al sacerdote, e l’accettazione cordiale della penitenza.

3. La carità

19. «Uomo, dice il Signore, considera che io sono stato il primo ad amarti. Tu non eri ancora al mondo…
e io già ti amavo. Da che sono Dio, io ti amo!».
La carità cristiana, senza la quale non esiste vita spirituale, ha questa origine: «In questo si è manifestato
l’amore: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo
sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come
vittima di espiazione per i nostri peccati».
La carità, altra sorgente della vita spirituale, si presenta sotto un triplice profilo.

3.1 Risposta d’amore

20. Camminare nella vita spirituale significa lasciarsi amare da Gesù. Si dice che il problema più grave oggi
è la fede: ed è vero. Come ho già accennato, i cristiani devono essere attenti a non confondere la “fede” con la “religiosità”. Questa, infatti, esprime il bisogno umano verso la trascendenza, indica l’intuito di una qualche apertura verso il divino: ma l’esito è spesso una spiritualità vaga, astratta, non esente da superstizione, senza un reale impegno con Dio che in Cristo si è rivelato “persona”, “volto”, “parola”. Come affermava il Santo Padre, «il tema fondamentale è che noi dobbiamo riscoprire Dio e non un Dio qualsiasi, ma il Dio con un volto umano, poiché quando vediamo Gesù Cristo vediamo Dio (…) In certo modo il fenomeno religione ritorna, anche se si tratta di un movimento di ricerca spesso piuttosto indeterminata». È urgente «rendere visibile il Dio col volto umano di Gesù Cristo, offrendo così agli uomini l’accesso a quelle fonti senza le quali la morale si isterilisce e perde i suoi riferimenti». Dio non è, dunque, un’entità, un’energia cosmica, ma è un “Tu”, è il Padre che si coinvolge con la vita dei suoi figli fino a condividere e riscattare la sofferenza e la morte. Per questo “Dio è amore” come afferma san Giovanni56. Ma l’essere amati – aspirazione e bisogno esaltante di ogni uomo – è terribilmente serio e impegnativo! Richiede un esodo interiore continuo, un esporsi all’amore dell’Altro che è Dio. Richiede di rinunciare a se stessi, diventare docili all’Amore e alle sue esigenze per rispondere con il nostro amore:
«L’amore è il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se non alla pari (…) Perché non dovrebbe essere amato l’Amore?».
Ecco perché la fede cristiana ha una misura “alta”: alta e affascinante! Non è un sentimento vago, ma un
rapporto da persona a Persona: è impegnarsi con Lui che si è impegnato con noi! Il cristiano è “prigioniero”
per amore: prigioniero di una vita, di un pensiero, di uno slancio. La vita, il pensiero, la passione di Cristo.
Come è centrata la risposta di un giovane a cui chiese a bruciapelo: «Che cosa significa per te essere cristiano? ». Senza pensarci due volte mi rispose: «Non vergognarmi mai di Lui»! Per questo la prima forma della carità evangelica è amare il Signore: anche quando non lo comprendiamo! Gli apostoli, alla scuola del Maestro, qualche volta hanno sentito più pesante la difficoltà di comprenderlo; ma sempre si sono arresi all’amore appellandosi alla sua presenza. «Forse, dobbiamo amare quello che non possiamo capire», intuisce A. Camus nel suo celebre romanzo “La peste”.

3.2 Obbedienza fiduciosa

21. L’amore, anche tra gli uomini, se non si traduce in gesti concreti è vuoto, semplice dichiarazione
sentimentale priva di consistenza. La vita non si costruisce sullo slancio emotivo: questo deve diventare
gesto, opera, attenzione quotidiana e concreta. Gesù non ci ha amato a parole, ma con il fatto decisivo e
sconvolgente della sua Incarnazione: prendendo la nostra carne mortale ha preso su di sé la condizione
umana, ha condiviso tutto di noi eccetto il peccato. Ci ha amati, per così dire, “dall’interno”, aderendo a noi in un modo unico e sconvolgente. Fino alla croce. L’immagine del volto sofferente di Cristo coronato
di spine esprime in modo plastico e commovente la misura e la concretezza di come Egli ci ha amati e continua ad amarci. Per questo è necessario avere l’immagine del crocifisso presente e ben visibile nelle nostre case.

22. L’obbedienza alla Legge di Dio, dunque, è un’altra forma della concretezza del nostro amore
per Cristo, come afferma san Giovanni: «In questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi».
È utile ricordare che la Legge di Dio non è un abito che viene imposto all’uomo dall’esterno, ma esprime
ciò che è l’uomo in se stesso, nella sua profonda e immutabile natura. I dieci Comandamenti riflettono
l’ordine della creazione che la ragione stessa può individuare: «Fin dalle origini Dio radicò nel cuore degli
uomini i precetti della legge naturale. Poi si limita a richiamarli alla loro mente: è il Decalogo».
Alla luce di queste considerazioni, ciascuno deve chiedersi qual è la propria obbedienza alla Legge
morale. Solo nella prospettiva dell’amore a Dio, i dieci Comandamenti, le Beatitudini evangeliche,
le indicazioni morali della Chiesa potranno essere accolti e diventare puntuali criteri di vita. Solo in
questo orizzonte la vita spirituale non sarà un evanescente miscuglio di sensazioni e di sentimenti, ma
un percorso serio e concreto, sostenuto dalla fiducia nella grazia e ricco di frutti, come ricorda l’apostolo
Paolo: «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne
infatti ha desideri contrari allo Spirito (…). Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (…). Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo
anche secondo lo Spirito»60. In questa prospettiva, non esiste pericolo del cosiddetto moralismo.

3.3 Solidarietà evangelica

23. Ma non basta! «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi
anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli (…)
Fratelli non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità»61. E ancora: «Chi infatti non ama
il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede».
Alle sorgenti della vita spirituale, troviamo dunque anche la via della carità fraterna, il desiderio di
fare della nostra vita un dono per gli altri. Nella storia, l’esempio sommo di come fare di noi stessi un dono è Cristo: Egli si è fatto dono per il mondo con il sacrificio di sé e continua a farsi dono attraverso l’Eucaristia, Pane di vita eterna. Il Concilio, con grande chiarezza, afferma che l’uomo in terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa e «non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un sincero dono di sé».
L’esperienza insegna che quando siamo egoisti per paura di perdere qualcosa di noi, dell’esistenza, dei
piaceri immediati, il risultato è la sensazione di aver gustato una soddisfazione in più, ma di essere scesi
nella scala della stima di noi stessi e della felicità. Al contrario, quando in nome della generosità usciamo
dai nostri calcoli rinunciando a qualcosa di nostro o di noi, la certezza è quella di ritrovarci su un piano
più alto e nobile: ci sentiamo cresciuti come persone e come cristiani, spiritualmente più ricchi.

24. È quanto Gesù indica nel Vangelo in modo inequivocabile: «Chi vorrà salvare la propria vita la
perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la salverà. Che giova infatti all’uomo
guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?».
È la “regola d’oro”, il grande “segreto”: vuoi diventare adulto nello spirito, maturo nel cuore, forte nella
fede? Sull’esempio di Cristo che si dona a tutti fino al sacrificio, fai di te stesso, dei tuoi talenti, della tua vita, un dono di servizio ai fratelli: in famiglia, al lavoro, con gli amici, con chi ha bisogno. Forse non diventerai ricco e famoso ma, noto al cuore di Dio, sarai felice.
Ci sono uomini potenti e ricchi che il mondo ammira e invidia, ma che sono degli infelici e, non di rado,
dei gretti di spirito. La solidarietà evangelica conduce alla felicità del cuore, alla maturità della vita terrena,
anticipo e promessa della vita eterna.

25. La carità fraterna ci spinge a guardarci attorno con occhi attenti per cogliere la sofferenza e il bisogno
degli altri, per farci “samaritani” con la concretezza tempestiva delle opere. Ma non dobbiamo dimenticare
che l’intervento pronto e generoso del buon samaritano nasce da un cuore aperto e disponibile. Potremmo
dire che la carità “delle mani” scaturisce dalla carità “dell’anima”. Sant’Agostino descrive in modo magistrale questa sorgente interiore: «Una volta per sempre ti viene dato questo precetto.
Ama e fa’ ciò che vuoi.
Se taci, taci per amore.
Se parli, parla per amore.
Se correggi, correggi per amore.
Se perdoni, perdona per amore.
Sia il tuo cuore radicato nell’amore.
Da questa radice non può uscire che del bene».
Perché le opere di carità nascano da un’anima caritatevole, è opportuno ricordare almeno tre condizioni.
* Sii umile. È necessario riconoscere in noi una tendenza al male. Il diavolo non si stanca di seminare
zizzania nel cuore di ciascuno. L’egoismo, la gelosia, l’invidia, l’arrivismo, l’aggressività… sono forme del
“non-amore”, e nessuno è esente dalla vigilanza su di sé e dalla lotta con sé. Solo l’umile sa guardarsi nella verità e sa vedere i fratelli nella misericordia.
* Ama te stesso. È una condizione per amare il prossimo. Certi cattivi umori, molti contrasti nei rapporti
nascono dal fatto che non accettiamo noi stessi,non vogliamo bene a noi stessi. Non si tratta di amare
i nostri difetti, ma di riconoscerli serenamente, accettarli per superarli con la forza della grazia. Così è per
la nostra storia personale: nella vita di tutti vi sono pagine tristi e buie, torti dati e subiti. Non si può vivere in permanente lotta recriminando sul passato: è necessario accettarlo in una visione superiore di fede, credendo che il Crocifisso trae dal male occasione di bene. È necessario essere unificati per unificare,
essere pacificati per pacificare.
* Amati fino a dimenticarti. C’è l’amore che riceve, l’amore che condivide, l’amore che dona, l’amore
che perdona, l’amore che si dona. Infine, l’amore che s’immola come Gesù sul Calvario. Non cercare più
noi stessi significa lasciar trasparire solo Dio con il suo puro amore: è una grazia. Per questo dobbiamo
pregare per amare e amare pregando.

26. Non dobbiamo dimenticare che la carità evangelica, che ispira comportamenti coerenti e che è
ethos diffuso, ha radici precise. L’Italia, nonostante il secolarismo, respira il Vangelo. Il cristianesimo impregna l’ethos del nostro popolo anche se esistono palesi contraddizioni: il modo di sentire la vita, di
concepire il valore di ogni persona, il rapporto pacifico con gli altri, il senso della solidarietà con chi è
nella sofferenza e nel bisogno, sono radicati nell’anima di tutti.
La presenza capillare delle Parrocchie, l’opera costante dei sacerdoti e dei consacrati, le tradizioni, le
innumerevoli forme di aggregazione laicale, le molteplici espressioni della pietà popolare così radicata
nel nostro Paese, diffondono il “buon profumo di Cristo”. Non dobbiamo perderne la sostanza: la linfa
viva e vitale del Vangelo.
Nella prospettiva della carità cristiana, è necessario vivere le proprie responsabilità e svolgere i propri
compiti non come dominio e affermazione di sé, ma come servizio agli altri, ricordando che Cristo ha
dato la vita per tutti e che ognuno ha la dignità di figlio di Dio.
È importante, altresì, che ciascuno individui alcuni gesti di amore e di servizio gratuito – non previsto
già dai propri compiti – perché la dimensione della vita come “dono” si esprima con maggiore evidenza. In questo senso, la Domenica può essere lo spazio più idoneo perché la dimensione del dono e della gratuità si attui, e il “giorno del Signore” diventi anche il “giorno della carità”: la visita ad un ammalato, un dono, una telefonata, una preghiera per i defunti al Cimitero… possono essere un segno dell’amore di Dio che tutti abbraccia.

4. L’ ascesi

27. Sembra fuori moda parlare di “ascesi”: essa significa “salita” e ogni salita esige “sforzo” e “metodo”.
La mentalità corrente pare bandire questi valori come se fossero contrari alla gioia del Vangelo e
al primato della Grazia: quindi disdicevoli alla vita spirituale. Come se bastassero il desiderio e la spontaneità individuali per raggiungere una meta ardua. Il cammino spirituale non è un cammino spensierato, pianeggiante e trionfale. Non dimentichiamo: lo scopo è essere veri discepoli di Gesù, amici autentici dello Sposo. E questo è affascinante e arduo. L’ascesi cristiana, però, non ha nulla a che vedere con l’affermazione di sé, non è una forma di “volontarismo” chiuso e orgoglioso che fa dipendere il progresso spirituale direttamente dallo sforzo individuale secondo una visione pelagiana. Ma neppure è una sorta di “quietismo”, che considera inutile e incoerente lo sforzo spirituale del discepolo.
Essere figli di Dio è una grazia, ma vivere da figli è una responsabilità! Il primo e principale protagonista
della vita spirituale – è già stato detto – è lo Spirito Santo: la Sorgente di ogni altra sorgente. Per tale ragione la fiducia non deve mai venir meno. Nulla della nostra fragilità, neppure i nostri peccati, deve gettarci nello scoraggiamento e farci arrendere nella costruzione dell’uomo interiore. Assolutamente nulla! La potenza dello Spirito è più forte della nostra debolezza: «Tutto posso in colui che mi dà forza»66, era la convinzione e l’esperienza dell’Apostolo. Ma dobbiamo lasciarlo agire! Disporci nella via dell’ascesi, infatti, significa disporci all’azione viva e trasformante dello Spirito di Dio: è questo l’insegnamento di grandi maestri di spiritualità come santa Teresa d’Avila (1515- 1582) e san Giovanni della Croce (1542-1591).
Quest’ultimo descrive con un efficace paragone l’azione purificante e trasformante dello Spirito
nella vita dell’uomo spirituale: «Il fuoco divino dell’amore, di cui sto parlando, purifica l’anima e la
dispone alla perfetta unione con Dio, come fa il fuoco con il legno per trasformarlo in fuoco. Il fuoco,
appiccato al legno, prima lo dissecca, espellendone l’umidità e facendogli lacrimare tutto l’umore; poi
lo rende nero, brutto e anche maleodorante. Essiccandolo a poco a poco, gli cava fuori tutti gli elementi
interni incompatibili, anzi contrari all’azione del fuoco. Alla fine, quando incomincia a incendiarlo
all’esterno e a farlo crepitare, lo trasforma in fuoco, rendendolo brillante com’è esso stesso. A questo
punto il legno non presenta più alcuna sua proprietà e capacità naturale, se non il peso e la densità che
sono superiori a quelli del fuoco, di cui ora possiede le proprietà e forze attive. È secco e dissecca; è
caldo e riscalda; è luminoso e diffonde il suo chiarore; è molto più leggero di prima, avendogli il fuoco
comunicato le sue proprietà e i suoi effetti. Possiamo applicare il nostro paragone al fuoco divino
dell’amore. (...) Agli inizi della purificazione spirituale, il fuoco divino si volge più ad asciugare e disporre
il legno dell’anima che a riscaldarla; ma poi, con il passare del tempo, quando il fuoco comincia a riscaldare l’anima, assai sovente essa percepisce questi ardori e questo calore d’amore... Senza fare nulla, sente ardere così tanto nel suo intimo questo fuoco divino fiammeggiante d’amore che le sembra di essere divenuta un braciere ardente.
Quest’incendio d’amore è fonte di grande ricchezza e diletto per l’anima. È un certo contatto con
la Divinità e un inizio della perfezione dell’unione d’amore verso cui l’anima tende. Ma non si arriva a
questo contatto così elevato di conoscenza e d’amore di Dio se non dopo aver attraversato molte prove e
compiuto gran parte della purificazione».

28. Entra in gioco, così, il secondo protagonista: la nostra libertà e quindi il nostro personale impegno. È illuminante l’esortazione dell’Apostolo: «Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro alle passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo». In questa prospettiva, ho detto che l’ascesi cristiana richiede due inscindibili elementi: lo sforzo e il metodo. Innanzitutto lo “sforzo”, la fatica. San Paolo, che fu folgorato da Cristo sulla via di Damasco, non fu esonerato dalla via dell’ascesi. Spesso descrive la vita cristiana come lotta e combattimento: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile»69. Altrove, esorta il cristiano a comportarsi da buon soldato: «prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù».
Sono sullo sfondo le stesse parole del Maestro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso,
prenda la sua croce e mi segua»71. Lo sforzo cristiano, dunque, comporta rinuncia, abnegazione, accoglienza paziente della sofferenza.

29. L’altro elemento indispensabile dell’ascesi è il “metodo”, cioè un certo ordine. Nessun edificio è
costruito solo con grandi sforzi di lavoro: richiede anche un progetto e delle priorità. Così, non basta
individuare una meta: è necessario un “metodo”, cioè una “strada-alla-meta”. Nella vita spirituale, Gesù
Cristo è la Meta e il Metodo: «Io sono la via, la verità e la vita»72. È dunque il nostro rapporto vivo e
quotidiano con la persona di Gesù e con la Chiesa il metodo fondamentale.
L’immagine della “palestra”, evocata da san Paolo, è particolarmente intuitiva ed efficace. Non si può
raggiungere una abilità artistica o sportiva, una forma fi sica, senza un allenamento puntuale e costante, senza una disciplina che richiede sacrificio. L’atleta deve conoscere quali parti del suo corpo deve curare e sviluppare per raggiungere lo scopo. Inoltre, deve allenarsi non ogni tanto secondo la voglia del momento,
ma con perseveranza, anche ogni giorno, consapevole che solo nella ripetizione – sia dei gesti che degli atteggiamenti – il corpo e l’anima acquistano il gusto, la capacità e una certa facilità nel vivere determinati
valori. Ricordiamo che sul piano ascetico e morale, la facilità nel fare il bene si chiama “virtù”!
L’asceta cristiano non è colui che sfida se stesso per affermarsi agli occhi propri o altrui; egli è alla ricerca
di un progresso spirituale, della sua unificazione interiore in Cristo. È fiducioso ma non ingenuo: sa
che nel suo cuore si scontrano il desiderio del bene e le inclinazioni disordinate; è consapevole dei suoi
istinti e della debolezza della volontà; fa purtroppo l’esperienza del peccato; è alla ricerca della sua libertà
perché sa che, in un certo senso, liberi non si nasce, si diventa. Per questo è necessario un lungo e
faticoso esercizio.

30. Anche la rinuncia fa parte di questa palestra. È luogo comune – una vera falsità e violenza intellettuale
– ritenere che qualunque rinuncia sia di per sé negazione della vita e di diritti assoluti e intoccabili.
Sembra che il successo dell’esistenza dipenda dall’accumulo di esperienze a prescindere dal giudizio etico.
Nasce così una specie di frenesia che porta a quella che potremmo chiamare “sindrome di novità”: come
se la calma ripetizione dei giorni, dei doveri, dei rapporti, degli affetti, fosse esecrabile “monotonia” anziché fedeltà responsabile e feconda. Come se la felicità e la riuscita di una persona dipendessero dalla quantità delle cose provate e non piuttosto dalla qualità o, meglio, dalla loro bontà morale.
La vita concreta, e ancor più l’esempio di Gesù, dicono il contrario. Egli non esitò a rinunciare alle
gioie immediate per un bene infinitamente più grande: la nostra salvezza attraverso la sua croce73. La rinuncia, dunque, riguarda non solo il male nelle sue diverse forme, ma anche certi beni a cui a volte dobbiamo rinunciare in nome di beni maggiori. Diversamente dalla mentalità corrente, è necessario essere convinti che non si può assaporare tutto: la vita quotidiana ci chiede di fare serenamente delle scelte, e scegliere significa non solo “prendere” ma anche “rinunciare”.

31. In questo contesto non possiamo dimenticare la grande legge delle “piccole cose” o dei “piccoli
passi”: se non ci abituiamo a fare tanti piccoli atti buoni con animo grande, saremo in grado di fare
grandi atti d’amore, di affrontare la misura dell’eroismo?
Così, se non siamo capaci di rinunciare a delle piccole cose per amore di Gesù, di noi stessi, degli
altri, come faremo a dire di no a grandi e allettanti tentazioni? Sono sempre attuali le parole dell’“Imitazione di Cristo”: «Se non vinci i difetti piccoli e leggeri, come supererai i più difficili?».
Nel cammino dell’ascesi non dobbiamo né scoraggiarci né inorgoglirci, ma ricominciare sempre senza
desistere, come insegna la grande sapienza spirituale dei Padri del deserto: «Un anziano disse: “Se intraprendi un’opera di ascesi e poi ti lasci andare, rimettiti presto al lavoro e non smettere di ricominciare fi no alla morte (...) Esamina dunque te stesso ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno, per vedere se hai progredito nel raccoglimento, nel digiuno, nella preghiera e soprattutto nell’umiltà. Questo è il vero progresso dell’anima. Ogni giorno deve considerarsi più misera, pensando alle colpe in cui cade continuamente, e deve ritenere ogni uomo migliore di se stessa. Senza questo pensiero, l’uomo
si troverà lontano da Dio, anche se compie prodigi e risuscita i morti”».

5. Alcuni punti dell’ascesi

32. Segnalo ora alcuni punti dell’ascesi. Naturalmente, dobbiamo considerare sempre l’orizzonte
religioso e soprannaturale in cui ci muoviamo, consapevoli che non siamo noi gli artefici primi della nostra
santificazione che ha nelle virtù teologali della fede, speranza e carità, la struttura portante. Lo Spirito
Santo agisce nell’anima che si fa disponibile alla sua potenza trasfigurante.

5.1 Conoscenza di se stessi

33. Il punto di partenza è la conoscenza di noi stessi: nel bene e nel male. Con umiltà e fiducia dobbiamo
guardarci così come siamo, evitando la duplice tentazione dell’innamoramento di noi stessi in una
sorta di adolescenziale narcisismo oppure dell’autorifiuto. Il Signore ci ama per quello che siamo; vuole
che ognuno si conosca nella verità e che si voglia bene, cioè che si accetti con benevolenza. È solo da
questo inizio che si può procedere in modo costruttivo.
Ognuno si chieda quali sono i suoi pregi, quali i limiti costitutivi e i difetti acquisiti. È utile ricordare
anche che gli aspetti peggiori di noi stessi sono sempre motivo di disagio per gli altri e, in fondo, di
sofferenza per noi.
In genere, si arriva meglio alla conoscenza di sé chiedendo aiuto a qualcuno che ci vuol bene ed è in
grado di dirci con verità e amore le cose come si vedono dall’esterno. Alludo alla tradizionale e sempre
attuale figura del Padre o Direttore Spirituale.
Questa fase, in realtà mai conclusa, si accompagni sempre al ringraziamento a Dio perché ci ama per
quello che siamo di buono e di bello: «Ti ho disegnato sulle palme delle mie mani»76. Si accompagni con
la fiduciosa e mai interrotta preghiera perché lo Spirito Santo ci aiuti a crescere nel bene e a migliorare
negli aspetti che non vanno.

5.2 Disciplina dei sentimenti

34. I sentimenti sono una grande ricchezza, sono energie da ordinare alla costruzione della persona e
del cristiano. Fanno parte essenziale della vita spirituale.
Sono risonanze della coscienza rispetto agli stimoli che provengono dal nostro mondo interiore
o da quello esterno. La gioia, l’amore, il desiderio, l’entusiasmo, sono reazioni positive di simpatia e attrazione che coinvolgono la persona nel suo insieme; per contro, l’odio, la collera, la tristezza, la paura,
sono reazioni negative che ci allontanano da persone, situazioni, luoghi.
Non sempre è facile, ma è necessario che la persona impari a guardare in volto i propri sentimenti, chiamarli per nome senza nasconderli a se stessa, decifrarli nelle loro cause e valutarli alla luce del buon senso e della fede. I sentimenti e le emozioni non devono diventare criterio di giudizio sulla vita, né in genere né di quella spirituale. Infatti non ogni sentimento, per il fatto di averlo, è motivato e meritevole del nostro credito. Bisogna in un certo senso “smascherarlo”, capire da dove proviene e dove sta andando, quali sono le cause vere e dove ci spinge, sia per non essere indotti in vie sbagliate sia per incanalare positivamente le grandi risorse della nostra sensibilità.
Non di rado, facendo questo esercizio si è illuminati, oltre che dal Vangelo, anche dall’insegnamento
e dall’esempio dei genitori, dei nonni, degli educatori, di persone significative: la loro saggezza,
la capacità di sdrammatizzare, la visione soprannaturale delle cose aiutano a leggere quello che il grande
Alessandro Manzoni chiamava “il guazzabuglio del cuore umano”.

5.3 Disciplina del corpo

35. Anche il corpo, con le sue potenzialità e pulsioni, chiede di essere guidato. Altrimenti, come a
volte accade, tiranneggia con i suoi bisogni spesso indotti o disordinati. In concreto, siamo qui richiamati
alla sobrietà nel cibo, nel vestire, nell’uso dei beni di consumo. Se siamo onesti, è quanto mai opportuno
ricuperare anche una certa custodia negli sguardi, il dominio dell’istinto sessuale.
È necessaria la castità del cuore e la purezza del corpo per imparare ad amare veramente e a diventare
dono. È importante anche riscoprire la preziosità delle conversazioni: sembra che sia ovvio guardare
tutto per il gusto, non sempre limpido, di vedere. Una nuova, particolare attenzione si deve avere nell’uso di Internet, perché sia strumento di vantaggio nel bene e non mercato del peggio. Così per il parlare: «se uno non manca nel parlare è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo»78.
L’unità del mondo interiore richiede di evitare le dispersioni, pretende di essere difeso da quella tendenza
centrifuga che rende l’anima più un mercato chiassoso che un edificio armonioso e pacificante. Il
nostro sguardo dovrebbe scegliere ciò che è degno, e non essere catturato da ciò che si esibisce; i nostri discorsi dovrebbero tendere di più all’essenziale e alla comunicazione della verità e del bene, piuttosto che
alla vanità, alla critica o peggio. Comprendiamo che la via dell’ascesi porta a farci ragionare di più su tutte
le nostre azioni, dentro e fuori di noi, in vista di un maggiore dominio di noi stessi. Per poter agire, come
diceva San Tommaso, e non “essere agiti”!

V. NEL GREMBO DELLA CHIESA

36. Per il cristiano non esiste autentica e completa vita spirituale se non “in famiglia”, cioè nella e
con la Chiesa. Quanto più progredisce il rapporto con Cristo, tanto più siamo rimandati alla Comunità
Cristiana. Sono illuminanti le parole di sant’Agostino: «Non si può avere Dio come padre se non si ha
la Chiesa come madre». E G. Bernanos confidava: «Nella Chiesa io mi sento a casa mia».
Sì, la vita spirituale ci sospinge ad una più intensa e cordiale esperienza di Chiesa. La dimensione spirituale, così come la fede, è un atto personale – nessuno può sostituirsi a noi – ma non individualistico: se il cammino dell’anima è vero porta verso i fratelli del mondo, ma innanzitutto della Chiesa, Sposa di Cristo.
Porta a vivere la dimensione comunitaria come l’altro volto – necessario e vitale – della solitudine
con Dio. Quanto più ci sentiamo appartenenti a Gesù tanto più ci sentiremo cordialmente appartenenti al
suo Corpo, la Chiesa: «Cristo non è mai intero senza la Chiesa, come la Chiesa non è mai intera senza Cristo.
Infatti il Cristo totale ed integro è capo e corpo ad un tempo».
Mi piace qui ricordare la commovente testimonianza del vescovo vietnamita F.X. Van Thuan – poi
cardinale – che ha trascorso tredici anni di reclusione e isolamento, riacquistando la libertà nel 1988. Così
egli racconta: «È difficile immaginare con quanta ansia i nostri fedeli, negli anni di dura prova (dal 1958 in poi), sfidando la punizione o la prigione perché si trattava di “propaganda straniera, reazionaria”, cercavano di ascoltare la Radio Vaticana per sentire palpitare il cuore della Chiesa universale ed essere uniti con il successore di Pietro.
Più tardi ne ho fatto io stesso l’esperienza. Ero in isolamento ad Hanoi quando, un giorno, una signora
della polizia mi ha portato il piccolo pesce che avrei dovuto cucinare. Appena ho visto l’involucro, subito
ho avuto un sussulto di gioia che, tuttavia, mi sono ben guardato dal manifestare esteriormente. La gioia
non era per il pesce, bensì per il foglio di giornale nel quale era avvolto: due pagine dell’“Osservatore
Romano”... Con calma, senza farmi notare, ho lavato bene quei fogli, per liberarli dalla puzza, li ho fatti
asciugare al sole e li ho conservati come una reliquia.
Per me, in regime d’isolamento, quelle pagine erano un segno della comunione con Roma, con Pietro, con
la Chiesa, un abbraccio da Roma. Non avrei potuto sopravvivere se non avessi avuto la consapevolezza
di essere parte della Chiesa»

37. Ma la più concreta e consapevole partecipazione alla vita della Chiesa non è solo un “esito”, la conseguenza di un’autentica vita spirituale. Nel grembo vivo della Chiesa, infatti, il cammino spirituale del
credente – anche di colui che si trova agli inizi – trova luce, sostegno, accompagnamento rispettoso ed efficace: la Chiesa è madre e maestra. A lei il Signore ha affidato i Sacramenti della generazione e della vita; a lei ha affidato il tesoro delle Scritture perché il mondo avesse la luce della verità: in lei due millenni di Cristianesimo hanno costruito un tesoro incomparabile di santità e di martirio, di esperienza umana e di fede. Da questo tesoro ecclesiale ognuno deve attingere per il proprio cammino interiore e deve, come figlio, portare il suo contributo per il bene di tutti.
In qualche modo si cresce sempre insieme: anche l’eremita è “con” gli altri fratelli nella fede, perché
fa riferimento alla Chiesa e perché partecipa alla ricchezza del Corpo Ecclesiale. Il bene di uno, infatti, si
riflette positivamente su tutti. È la grande realtà che la Tradizione chiama “comunione dei santi”!

38. Inoltre, la Chiesa garantisce che la spiritualità cristiana sia autentica, cioè fedele all’insegnamento e
allo stile di Gesù senza contaminazioni di singoli, di gruppi o Sette che oggi circolano nel grande “mercato
del sacro”: «Il Vescovo è in mezzo alla sua Chiesa sentinella vigile, profeta coraggioso, testimone credibile e servo fedele di Cristo, “speranza della gloria”»81. Così è per ogni Sacerdote in comunione con il suo Vescovo. Non possiamo dimenticare l’attualità dell’esortazione dell’apostolo Paolo a Timoteo: «Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente»82. In questa prospettiva, l’Apostolo ricorda ai cristiani di Corinto lo scopo del suo servizio di guida e di maestro: «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia».

39. Il cristiano maturo nello spirito, inoltre, condivide con i fratelli la missione che il Signore ha affidato alla Chiesa intera: annunciare a tutti il Vangelo.
Anche quando il cristiano è fisicamente solo a testimoniare Cristo, spiritualmente è sempre insieme alla
comunità, partecipa della sua missione evangelizzatrice.
Egli sa che il tesoro della fede non è un dono da trattenere, ma da condividere con tutti e ovunque:
come i talenti di cui parla il Vangelo. Quanto sono significative e appassionate le parole di Giovanni: «Ciò
che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…) noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta».
Ovunque c’è bisogno di annunciare coraggiosamente il Signore. Nessuno si deve intimidire o pensare
di non essere in grado. Ogni credente è chiamato ad essere un “segno” di Gesù nel suo ambiente, con
semplicità e fierezza. Mantenere un certo “stile” nel linguaggio, nei gesti, nei comportamenti – uno stile
coerente con la nobiltà spirituale del Vangelo – , partecipare regolarmente alla Messa festiva invitando
anche gli altri, pregare, celebrare la confessione, dire una buona parola, offrire un aiuto… significa annunciare Gesù, significa attuare la missionarietà a cui ogni cristiano è chiamato in forza della fede.
40. All’inizio del nuovo millennio, Giovanni Paolo II invitava la Chiesa a non avere paura dei flutti
né delle ombre; a puntare verso il largo del mondo e della storia. Ma soprattutto al largo dentro al cuore di ogni uomo: «Vogliamo vedere Gesù». «Come quei pellegrini – scriveva – gli uomini del nostro tempo,
magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di ‘parlare’ di Cristo, ma
in un certo senso di farlo loro ‘vedere’. E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in
ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio? La
nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto».

41. In fondo, essere “contemplatori del volto di Cristo” è la sintesi della vita spirituale. Quel volto
infinitamente bello continua ad essere nei secoli contemplato dalla Chiesa da ogni cristiano che prende
sul serio la fede e le esigenze dell’anima. Egli, strada facendo, perviene ad una più lucida e avvincente
consapevolezza di essere parte viva della Chiesa, inviato con lei ad annunciare Gesù. La Chiesa è il
grande segno che lascia trasparire Cristo; la città posta sul monte, perché tutti possano vedere quel volto
che l’anima infuocata di un grande convertito così invocava con accenti appassionati e drammatici per gli
uomini del suo tempo: «Se non fai sentire la tua voce sopra il loro capo e la tua voce nei loro cuori seguiteranno a cercare solamente se stessi, senza trovarsi, perché nessuno si possiede se uno non ti possiede (…) Noi ti preghiamo dunque, o Cristo, (…) noi gli ultimi ti aspettiamo. Ti aspetteremo ogni giorno a dispetto della nostra indegnità e d’ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amore nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore».
Comprendiamo, allora, come la testimonianza della fede in Cristo sia il primo irrinunciabile compito
dei battezzati, il primo dono che essi possono offrire al mondo. Lo ha ricordato Benedetto XVI con
chiarezza: «In obbedienza al comando di Cristo, che mandò i suoi discepoli ad annunciare il Vangelo a
tutte le genti, la comunità cristiana anche in questa nostra epoca si sente inviata agli uomini e alle donne
del terzo millennio, per far loro conoscere la verità del messaggio evangelico ed aprir loro in tal modo la
via della salvezza. E questo non costituisce qualcosa di facoltativo, ma la vocazione propria del Popolo di
Dio, un dovere che ad esso incombe per mandato dello stesso Signore Gesù Cristo. Anzi, l’annuncio e la
testimonianza del Vangelo sono il primo servizio che i cristiani possono rendere a ogni persona e all’intero
genere umano, chiamati come sono a comunicare a tutti l’amore di Dio, che si è manifestato in pienezza
nell’unico Redentore del mondo, Gesù Cristo.».

VI. MARIA MAESTRA DI VITA SPIRITUALE

42. «Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».
L’evangelista apre con sobrietà uno spiraglio sul mondo interiore di Maria: ne possiamo intravedere un triplice atteggiamento: raccoglimento, riflessione e vita.
* La Madre di Gesù non disperde nulla di quanto avviene attorno al Figlio: come un giorno il Signore
ordinerà agli Apostoli di raccogliere i resti dei pani moltiplicati, così ella, anticipatrice, raccoglie ogni
frammento di ciò che riguarda Cristo. Nulla deve andare perduto: parole, gesti, emozioni. Tutto deve
essere raccolto nel profondo scrigno dell’anima.
* Ma lo spirito di Maria non è un semplice e geloso contenitore di ricordi, un puro esercizio di memoria: è
anche il luogo della riflessione. Quanto accade attorno a Gesù, piccolo o grande che sia è un ammaestramento, ha un senso che va oltre perché riguarda l’umanità intera, tocca innanzitutto lei e poi la storia di tutti e di ciascuno: una storia sempre d’amore e di salvezza. La riflessione di Maria si rivela desiderio e ricerca della volontà di Dio. Per questo è preghiera.
* E infine, il raccoglimento e la meditazione sfociano nel loro naturale estuario: la vita. Ecco perché
Luca parla del cuore. Per la Bibbia il “cuore” è il centro profondo, originante il mistero della persona;
è il luogo delle scelte, dove la riflessione si intreccia con la decisione di agire. Potremmo dire che il cuore
è la sintesi di intelligenza, volontà, amore, azione: appunto la vita dell’uomo.

43. Maria diventa anche così nostro modello per il cammino spirituale, indicandoci i tre atteggiamenti
di fondo che l’evangelista riporta e che abbiamo appena indicati.
Siamo tutti esposti alla tentazione di correre sulle cose disperdendo quanto il Signore ci dona di beni, situazioni, incontri, affetti, richiami interiori, occasioni di fede e di preghiera. È stolto disperdere la grazia di Dio. È saggio raccogliere e deporre nel nostro animo la vita nella sua interezza, il Vangelo nella sua perenne novità e in ogni sua briciola. Raccogliere per riflettervi, per entrare nel profondo dei messaggi reconditi che la Provvidenza ci offre. Un fatto – qualunque sia – è sempre di più di ciò che appare: racchiude un insegnamento da scoprire. È necessario farci ricercatori attenti come Maria, perché quanto meditato ci introduca alla realtà vera delle cose, diventi criterio di giudizio, di scelta, di azione: quindi vita.

44. Ma l’esempio della Santa Vergine va oltre.
Non possiamo certamente entrare nel mistero ineffabile della sua vita spirituale; neppure immaginare
l’intensa profondità del suo rapporto con Dio, la sua attenzione di madre ma anche di prima discepola di
Gesù. Chi più di lei ha potuto vivere l’incontro interiore con il Signore?
Eppure – ecco un nuovo ammaestramento – il suo rapporto unico con Dio, la coltivazione intensa della
vita dell’anima, non impediscono alla Vergine di essere presente e operosa nella vita quotidiana, dentro
alla storia degli uomini. Anzi, è proprio la sua impareggiabile spiritualità che le permette di incarnarsi
nelle vicende grandi e piccole dell’umana esistenza.
È ancora il Vangelo a testimoniarlo. Basta pensare alla visita di Maria all’anziana cugina Elisabetta, incinta di Giovanni Battista: la Santa Vergine non attende di essere chiamata in soccorso, intuisce il bisogno e previene la richiesta. Basta riandare a Cana: Maria partecipa alla festa di nozze di due giovani ignari del piccolo dramma che incombe, la mancanza di vino. Lei si accorge di quanto avviene: è attenta, vigile e, con estrema discrezione e tempestività, interviene presso Gesù: «Non hanno più vino».
Maria dunque non si assenta dalla storia; al contrario vi entra e l’abbraccia con maggiore passione proprio perché la vede con lo sguardo fine dello spirito e la ama con cuore ardente. È sempre così
quando la creatura procede nella vita spirituale, la coltiva seriamente, si fa docile all’azione dello Spirito
Santo. Il timore di dimenticare il mondo perché ci si dedica a Dio è un timore infondato, costantemente
smentito da secoli di cristianesimo. Molti di coloro che hanno cambiato il corso della storia sono mistici,
anime che hanno vissuto la spiritualità come dimensione portante della vita, che hanno solcato il tempo
con il senso dell’eternità: basta pensare a san Francesco d’Assisi, a santa Teresa d’Avila, a sant’Ignazio di
Lojola, a Padre Pio, a Madre Teresa di Calcutta e a tanti altri, anche viventi.

45. Nella famosa Lettera a Diogneto leggiamo un’espressione particolarmente incisiva ed efficace:
«…ciò che l’anima è per il corpo, i cristiani lo sono per il mondo»! Lungi da posizioni di spiritualismo
che fugge il presente, l’uomo veramente “spirituale” si immerge nel tempo, lo assume nel positivo, ne
scorge le potenzialità, si fa costruttore di una umanità migliore anche con il sacrificio di se stesso, smaschera il male nelle sue espressioni vecchie e nuove: ma sempre con profonda simpatia per questo mondo straordinario e drammatico insieme. La sua riflette l’infinita simpatia di Dio che, guardando l’opera delle sue mani, riconosce la radicale bontà del creato.
L’anima che percorre le vie dello spirito, dunque, si apre alla storia con intelligenza e cuore illuminati dal
Vangelo, ne diventa fermento.
La fede rivela l’orizzonte ultimo della storia, il suo destino e quindi il senso più vero della nostra vita.
Non offre ricette magiche ai problemi, ma risponde in Gesù al problema fondamentale: chi è l’uomo nella
sua radicalità e completezza, nel suo fine ultimo.
Non sarà mai sufficiente – come la storia testimonia – che la società assicuri il benessere e lo svago:
l’uomo è desiderio di vivere. Avrà sempre bisogno di conoscere il significato della vita, il perché della
morte. Suonano significative le parole di L. Pirandello: «Noi non possiamo comprendere la vita, se in
qualche modo non ci spieghiamo la morte».

46. Cari Amici, affido queste considerazioni alla vostra benevola attenzione. Spero che diventi lettura
utile per ciascuno e chiedo che, nell’anno pastorale 2009-2010, sia oggetto di incontri parrocchiali
o vicariali per giovani e adulti. Il Signore ci chiede di camminare nel suo Spirito con maggiore fiducia
e coraggio. Il tempo della vita è breve e la Luce che ci attende è eterna: infatti «voi siete figli della luce e
figli del giorno». Non possiamo sprecare il tempo, dobbiamo dunque camminare nella luce.
Ma, insieme a Sant’Agostino, ci chiediamo: «che significa camminare?» E da lui ascoltiamo la risposta:
«Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l’Apostolo, alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina».
Cammino con voi come il Pastore deve fare, sperando di essere di incoraggiamento per tutti. Con
affetto vi porto nella mia preghiera, portatemi nella vostra. Vi benedico!

Genova, 19 giugno 2009
Solennità del Sacro Cuore di Gesù

Angelo Card. Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova

 

  Lettera pastorale: «Camminare nelle vie dello Spirito. Alle sorgenti della Vita» -

 

 

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