SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
LE SFIDE ODIERNE DELL'EDUCAZIONE E DELLA SCUOLA

LIBERTA' E ORIENTAMENTI DI VITA

Mi introduco con una indagine sulla emergenza educativa a Rimini, pubblicata da un giornale locale. "(I bambini di oggi) non stanno attenti - dicono a Sant'Onofrio, cent'anni di esperienza nelle materne ed elementari - perché non riconoscono più il perché si deve fare questo. Non sono abituati all'ascolto perché sono i primi a non essere ascoltati". Per le Suore di Maria Bambina la musica non cambia. In un'altra scuola si lamenta il crollo dell'insegnamento: "Tutta la scuola ha dovuto abbassare i livelli: se un ragazzo non vuole studiare, non lo possiamo costringere. Sono ormai pochissime le eccellenze, e i ragazzi non sono incentivati ad ottenerle, si accontentano del minimo. Non pensano che nella vita dovranno lavorare il doppio per ottenere qualcosa che potrebbero ottenere con meno fatica, se oggi a scuola si impegnassero". Vorrei tentare di rispondere a due domande semplici nella formulazione, assai impegnative nel contenuto e altrettanto esigenti nella risposta. Educare si deve: per quali ragioni? E la seconda: educare si può: a quali condizioni? Ma prima ancora sembra opportuno registrare la differenza che si è verificata riguardo all'educare sia nella famiglia che nella scuola.

1. Il mondo cambia, cambia anche l'educare?

Nella tradizione ancora incompiuta dall'epoca moderna a quella postmoderna, per quanto riguarda la famiglia, si è registrato il passaggio dalla famiglia autoritaria a quella permissiva e "affettiva": nell'educazione domestica il massimo che si può e si deve dare ai figli sarebbe l'affetto, non i valori; i valori o non esistono o se li devono trovare per conto loro. Ma il passaggio è ancora più profondo: nella stagione moderna la figura di riferimento era l'età adulta; il programma era quello dell'emancipazione, dell'uscita dalla minore età.

La cultura post-moderna appare invece attraversata dal tacito assunto che adulto è brutto. Pensano e sentono così non solo gli adolescenti, ma proprio tutti. Gli ideali di vita proposti dall'industria culturale privilegiano stereotipi adolescenziali. I modelli di vita celebrati sono anzitutto versatili, caratterizzati dunque dalla permanente possibilità di ritrattare ogni scelta fatta. Sono poi anche estemporanei, e cioè senza memoria; si affidano sempre e solo alle occasioni imprevedibili della vita per l'invenzione del possibile. Loro tratto qualificante è poi uno spiccato narcisismo, e cioè un'attenzione ossessiva alla propria immagine.

Per quanto riguarda la scuola, la si vede ancora condizionata dal mito della "laicità", cioè della "neutralità" educativa: la scuola non può educare - si dice - perché deve insegnare i "saperi", il cui modello è il sapere scientifico, un sapere oggettivo, "senza coscienza", ma una scuola che si limita ad insegnare le scienze senza affrontare il significato delle scienze, può interessare la coscienza degli adolescenti? Sta di fatto che proprio questa laicità della cultura e questa neutralità educativa spiega il non-rapporto degli adolescenti con la scuola: basti considerare che almeno il 40% dei giovani ha vissuto una delle due forme di insuccesso scolastico (dispersione scolastica o ripetenza). Inoltre il livello di fiducia nei confronti degli insegnanti raggiunge il massimo nel corso delle scuole elementari e il suo livello minimo nel corso delle secondarie, e ben il 40% imputa agli insegnanti una scarsa competenza didattica e l'esercizio di una certa influenza politica e ideologica sugli allievi. Ancora: tutte le ricerche indicano che i giovani attribuiscono un'importanza molto relativa allo studio e al "sapere". Ma come ci si presenta - se proviamo a guardarlo più da vicino - il "pluri-verso" giovanile in questo mondo che cambia? La lettura dello scenario attuale non è semplice, ma è indispensabile. Facendo sintesi delle ricerche più recenti, V. Orlando ha puntualizzato così la situazione: Nella sensibilità giovanile attuale prevale l'affettivo, il relazionale, la socialità ristretta, l'immaginario: il primato viene dato all'emozione e alla relazione. La loro cultura rispecchia un modo di essere e di vivere. Il
ragionamento non è lineare, causale., avviene a partire da un'immagine, da una vibrazione, da un'impressione, da una sollecitazione dei sensi.


Immagine emblematica della "cultura" giovanile è la notte come spazio del mistero, dell'avventura, del possibile, contrapposta al giorno come spazio del mondo adulto. Emerge però anche una accesa sete di senso (più che una attiva ricerca della verità) e il bisogno di una religione di consolazione più che di responsabilità. Sta di fatto che la sensibilità spirituale e la disponibilità a lasciarsi educare (la docilitas) appare nettamente più alta delle generazioni precedenti. In questo contesto così complesso ed anche impegnativo sarebbe davvero ingiusto dimenticare l'impegno generoso profuso da tantissimi insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, a volte in situazioni davvero difficili; se da un lato la responsabilità del vostro lavoro non può cedere alla tentazione del disimpegno, dall'altro dobbiamo nutrire una solida speranza che affrontare con piena coscienza e lieta determinazione quella che papa Benedetto XVI ha chiamato "emergenza educativa" in una sua recente lettera alla Diocesi di Roma, sia senz'altro una risposta capace di generare il cambiamento verso una nuova qualità educativa e dunque verso una nuova generazione di uomini e donne.

2. Ritornare a educare, si deve: perché?

Educare si deve: è urgente. Il compito educativo viene oggi provocato da tre sfide principali che attentano al "cuore" stesso del servizio all'uomo che una sana educazione non può non prefiggersi: sono sfide di sempre che vengono poste in forme nuove e forse più radicali, dalla società contemporanea, perché divenute "cultura" e "costume". La prima è l'edonismo, che svincola la sessualità da ogni norma morale oggettiva, riducendola spesso a gioco e consumo e indulgendo con la complicità dei mezzi di comunicazione sociale a una sorta di idolatria dell'istinto. La gente dice spesso, parlando dei giovani: "Il sesso? Per loro non è più qualcosa di importante. In ogni caso non è più un problema. E' una cosa naturale, come il mangiare e il bere". Ma è vero? Certo i ragazzi conoscono tutti i termini dell'enciclopedia medica, ma questo basta? Sanno pure tutta una sfilza di espressioni piccanti, ma oggi appaiono meno ossessionati dal sesso rispetto a tanti adulti. Oggi il problema non è "come godere il più possibile della sessualità?", ma "come mantenerla in vita?". E' doveroso riconoscere che in questo campo la funzione critico-propositiva della cultura cattolica è stata particolarmente debole o latitante negli ultimi decenni: per il complesso puritano delle generazioni precedenti? per la sindrome "archeologica" di chi si sente irrimediabilmente superato e visto come appartenente ad un altro mondo? per sudditanza di fronte alla nuova mentalità permissiva? per sprovvedutezza di fronte ai potenti mezzi di comunicazione sociale? Si rende urgente una battaglia culturale per sfatare i pregiudizi deterministici che sembrano essersi come stratificati nel nostro inconscio collettivo. L'opinione pubblica, subdolamente manovrata dalla cultura dominante, reagisce con isterismo ogni qual volta si tenti il lancio di programmi educativi che cercano di far fronte all'ondata travolgente di sofferenze e di costi sociali che derivano dalla disgregazione della famiglia, dai sentimenti calpestati, dai figli contesi o lasciati soli, dall'abbrutimento della pornografia, dalla vergognosa barbarie della pedofilia, insomma da una società "senza cuore" (cfr. Rm 1,31) per l'esaltazione del libero godimento, insensibile alle sofferenze inflitte agli altri. A seguito degli orribili casi di violenza contro l'infanzia che qualche anno fa hanno sconvolto il Belgio e il mondo, il card. Danneels è intervenuto con sdegno; dopo aver rilevato che la chiesa viene criticata quando invita al dominio di sé e a recuperare il senso morale, ha affermato:
Esistono comunicazioni sotterranee fra le tre grandi pulsioni dell'essere umano: l'amore, il sesso e il potere. Queste pulsioni sono i tre grandi rami di uno stesso tronco, nel quale circola una linfa che dona la vita, quella dell'amore, e un'altra linfa, quella dell'egoismo, che genera il cancro. Queste tre pulsioni - sesso, avere, potere - possono dunque essere creatrici o distruttrici. Non meraviglia vedere che la mafia del sesso, la brama del denaro e l'istinto di potenza sono legati. Molte persone che hanno il gusto del potere finiscono col partecipare ad "affari". Una vera idolatria del corpo è alla base di questo caos: il corpo domina l'anima. E il denaro domina il corpo.

Una seconda sfida è rappresentata dal mito dell'avere. Il problema è quello di sempre, ma oggi viene esasperato dall'avanzare di un economicismo baldanzoso, il quale, in nome della globalizzazione dell'economia, compie drastiche riduzioni e aumenta le sacche di povertà. La generazione dei nipoti di nonni educati al risparmio, figli dei padri del boom economico, sembra "condannata" dall'industria dei consumi a non pretendere dagli adulti nient'altro che mantenimento-abbigliamento-divertimento. Su scala mondiale l'occidente "obeso e depresso" continua a dissipare i risparmi delle generazioni precedenti e a sperperare le risorse del domani, scaricando sulle generazioni future i costi della società del benessere. C'è anche da dire che oggi più che in altre epoche, il richiamo della chiesa trova attenzione anche in coloro che, consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la sobrietà, l'imposizione di un doveroso freno ai propri desideri. La società occidentale - è la terza sfida -si è costruita sul principio del rispetto della persona e dei diritti umani. Ma tale principio "impazzito" può portare all'individualismo eretto a idolatria, anche perché sganciato da ogni esigenza di responsabilità e solidarietà. La cultura prevalente begli ultimi decenni ha tentato praticamente di emarginare il senso della libertà personale, addossando abitualmente la responsabilità al "sistema", con il conseguente appannamento della "coscienza" e il sistematico rinvio alla "società", come se questa fosse una grande ipostasi sussistente per suo conto: ma allora gli unici sbocchi dovrebbero essere l'anarchia e il terrorismo.

E' soprattutto a livello pedagogico che i "dogmi" della cultura imperante, riassumibili nel trinomio delle grandi equazioni: "libertà = spontaneità", "gioia = piacere", "amore = affetto" ha prodotto i modelli "vincenti" della famiglia affettiva e della scuola neutra. Si assiste al trionfo delle magiche illusioni, di cui non è difficile - anche se purtroppo non avviene spesso - smascherare le subdole mistificazioni. E' l'ideologia dei luoghi comuni: ogni educazione sarebbe "condizionante": al massimo deve limitarsi a far uscire (e-ducere) il buono che c'è nei ragazzi; la scuola non può educare, deve solo insegnare, cioè informare-attrezzare-abilitare, ecc. La crisi di questo modello - che vuole presentarsi come "aperto" ed estroverso - è proprio denunciata dal dramma degli abbandoni scolastici. Sono circa 130.000 gli studenti che quest'anno mancano all'appello (i dati sono riportati oggi su di un quotidiano nazionale) con un dispendio di denaro pari a 3 miliardi di Euro. Oltre alla domanda sul perché di tale emorragia, sorge un'altra domanda: dove sono questi giovani soprattutto compresi tra i 14 ed i 17 anni? Se si calcola il transito dei giovani dalle Scuole Statali alle Scuole Paritarie oppure alla Formazione professionale mancano comunque circa 110.000 giovani. Chi e come si potrà aiutare questi ragazzi ad orientarsi in una società del lavoro sempre più complessa e specializzata?

Quanto alla famiglia affettiva, il suo esito è sotto gli occhi di tutti: può solo produrre una adolescenza interminabile. E' facile e può risultare perfino impietoso notare che in fondo i genitori "affettivi" possono allevare solo eterni adolescenti perché loro per primi non sono adulti. Ma occorre comprendere prima di giudicare. Di fatto i genitori si sentono soli: aveva ragione quel padre che, di fronte al figlio che lo contestava, diceva: "ma a me chi mi ha educato ad essere padre?". E però, per non andare all'infinito, occorre capire il cortocircuito della dinamica (non) educativa soggiacente al grande imbarazzo dei genitori di fronte ai figli adolescenti: I genitori temono che ogni correzione assuma agli occhi dei figli la fisionomia di tradimento dell'affetto. Il timore diventa più evidente e grave nell'età dell'adolescenza; comincia però molto prima. Già di fronte alla richiesta perentoria del figlio bambino, che chiede per sé quello che i suoi compagni ottengono dai rispettivi genitori, padre e madre rimangono spesso interdetti. Essi temono però che tali ragioni non possano essere rese evidenti agli occhi dei figli. Temono quindi che il loro eventuale rifiuto possa essere interpretato come segno di minore amore. Temono di non avere le risorse per raccomandare ai figli, in maniera efficace e persuasiva, uno stile di vita diverso da quello più diffuso, da molti anche deprecato, e tuttavia dalla gran parte di fatto praticato.

I genitori sanno bene che abdicare all'impegno educativo significa abbandonare i figli al babysitteraggio di qualche "grande padre" collettivo (il gruppo, il branco, il cosiddetto "buon senso" o l'ipocrita "fai-da-te") o di qualche grande madre, come la scuola o la TV o la playstation. Di fatto il genitore si sente solo, senza modelli e senza risorse, e a fronte del conflitto apparente tra ragione e affetto, egli si schiera invincibilmente dalla parte dell'affetto. Sia la famiglia che la scuola sembrano ancora subire il miraggio del programma educativo di stampo illuministico, un programma che si può riassumere nel grande assioma: l'ideale supremo a cui deve mirare l'educazione è la libertà. Ciò che fa problema non è l'asserto, ma l'idea soggiacente di libertà. Libertà sarebbe "autonomia" e libero sarebbe il soggetto che è svincolato da ogni condizionamento. La strada per arrivare a questa libertà è quella della conoscenza, e modello della conoscenza che rende liberi sarebbe la scienza: ma come mai questo settore non è stato aggredito dal virus post-moderno della sfiducia nella ragione, tipica del pensiero debole? La scienza che, per sua stessa confessione, non sarebbe più in grado di portare alla conoscenza della verità scientifica, sarebbe però in grado di insegnare il significato della vita? La scienza che si è "autosfiduciata" nel suo proprio campo, continua invece ad essere accreditata dalla cultura vulgata come modello di conoscenza nel campo pedagogico. E' la scienza che insegna a vivere o la sapienza? Ma la via per la sapienza non è forse la testimonianza? E' inutile: non se ne uscirà finché non si riconosce che la "neutralità educativa" che si pretende dalla scuola è insostenibile teoricamente e praticamente impossibile. La conoscenza infatti non è il fine della scuola, quanto piuttosto il mezzo e lo strumento per la promozione della persona e della sua libertà. Il senso della vita passa attraverso la ricerca dei "perché" più che dei "come": la scuola è anzitutto in funzione dell'educazione.

3. Educare si può: a quali condizioni?

Passo ora a declinare rapidamente alcune condizioni che ritengo imprescindibili, perché si possa impostare un vero servizio educativo nella scuola. Ma vorrei prima ancora ribadire a quale titolo sto parlando. Nella mia vita ho esercitato a lungo il servizio di insegnante: è stato un servizio intenso e appassionante, durato oltre venticinque anni. Quanto ora vengo a dirvi, sono sicuro che lo accetterete come una serie di riflessioni e di consigli di ex insegnante educatore.

1. La prima riguarda la concezione stessa dell'educazione nella scuola. Talvolta si designa il compito della scuola quale compito di socializzazione. Esso consisterebbe nell'offerta al minore di quei saperi e di quegli strumenti che gli permetteranno domani di muoversi e di agire nella vita sociale il più speditamente possibile. Tale processo di socializzazione è diventato sempre più diffuso con la scuola generalizzata, ma altresì sempre più indispensabile con l'avvento dell'attuale società sempre più complessa. Educare però non è il contrario di socializzare, ma è molto di più. Educare non è semplicemente istruire o addestrare, ma è formare; è offrire tutta una gamma di valori, religiosi compresi, tale da consentire al minore la maturazione della sua coscienza e la crescita della sua libertà. Ma la libertà non è solo la facoltà di sottrarsi ai condizionamenti, è ancora di più l'attitudine a stabilire legami. L'incremento della libertà non è semplicemente proporzionale all'assenza di vincoli. Non basta porre in cima ad ogni progetto educativo il compito di educarci alla libertà. Educare la libertà - ossia sapere cosa farne e come investirla - ecco la questione più interessante. Del resto, un maestri indimenticabile come don Milani affermava: "Chi regala la propria libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela". Se così non fosse, si potrebbe affidare tutto il compito dell'insegnamento all'uso dei computer autoesplicativi, sempre più diffuso nelle scuole. Tali computer sono programmati in modo da guidare attraverso un percorso, facendo capire gli errori compiuti lungo l'apprendimento. Ma si può affidare ad una macchina l'impegno di fornire anche le nozioni necessarie per la guida della vita, come in un viaggio con il pilota satellitare? Può forse un computer sorridere o soffrire? e si può formare un uomo alla vita senza la capacità di soffrire e di sorridere?

2. Inoltre - è la seconda condizione - si richiede una grande stima dell'educatore nel suo compito formativo. La vostra è certamente una professione difficile: nelle vostre mani sta quando abbiamo di più delicato e prezioso, come cittadini di questo paese: la crescita dei nostri ragazzi, in termini di saperi, di consapevolezze e di qualità di convivenza. Nel vecchio film di Zimmermann, Un uomo per tutte le stagioni, al giovane che voleva far carriera e rifiutava l'insegnamento perché scarsamente remunerativo e poco stimato, il protagonista Thomas More (s. Tommaso Moro) ricordava che l'insegnante deve rispondere: "a Dio, a te stesso, ai tuoi allievi. Non male, come pubblico!". Fiducia, dunque, e coraggio! Ma anche grande pazienza. Certo, pazienza nel gestire e integrare anche i fallimenti educativi, che in verità non sono veramente tali: sono quelle amarezze e quelle delusioni che sono seminate lungo il percorso arduo e impervio del servizio educativo. Ma non fallisce veramente l'educatore che sa riconoscere con onestà intellettuale i propri sbagli; li sa rielaborare e valorizzare con pazienza instancabile per crescere e proseguire quell'indispensabile lavoro di autoeducazione senza il quale non è possibile educazione alcuna. Del resto, lo sappiamo: non esistono in questo campo ricette infallibili, che nemmeno Gesù possedeva: altrimenti non sarebbe stato tradito da Giuda, rinnegato da Pietro, abbandonato dagli altri discepoli.

3. Permettetemi di raccomandarvi ancora una virtù difficile, ma preziosa: la tenerezza. Oggi i mezzi di comunicazione sociale spesso associano i bambini soprattutto all'allarme per i mille pericoli cui sono sottoposti, rendendoli ancora di più lo specchio delle nostre paure. Colpisce quello che rilevano alcuni sociologi: nell'ultimo anno nei titoli di articoli dedicati all'infanzia la parola più ricorrente era "rischio". Bambini-rischio: per la salute della madre, per la serenità dei genitori, per l'equilibrio della famiglia, per il futuro del pianeta. Ma che cosa sta succedendo? Li abbiamo ingozzati di cose, li trattiamo come cagnolini in addestramento, gli abbiamo spiegato come sono venuti al mondo, ma ci siamo dimenticati di dirgli che senso ha il loro stare al mondo. Una ragazzina che si suicidò qualche anno fa in un bagno della stazione Ostiense a Roma, si lasciò in tasca ai jeans un biglietto drammatico, indirizzato ai genitori: "Mi avete dato il necessario e anche il superfluo. Mi è mancato l'indispensabile". Ma forse è stata troppo generosa. Per carità, di tenerume gliene diamo tanto a questi figlioli, ma dove è andata a finire la tenerezza? In un interessante articolo sul bullismo a scuola, Marco Lodoli - insegnante e scrittore - annotava: "Sono vent'anni almeno che l'immaginario della nostra società si struttura attorno alla violenza, al denaro, al cinismo, alla brutalità; sono vent'anni almeno che gli insegnanti si trovano ad affrontare ragazzi ipernutriti da un cibo avariato che avvelena la mente, eccita a dismisura i desideri, accelera i tempi fino alla frenesia, cancella ogni pazienza ed esalta sempre e comunque una trasgressione senza scopi". E poi non possiamo dimenticare il mare di lacrime e sangue prodotto dalla disgregazione della famiglia, dai sentimenti calpestati, dai figli contesi, da padri e madri che non hanno tempo né voglia di occuparsi di loro, "lasciati soli - è sempre Lodoli - davanti alla musica malandrina di sirene che puntano solo a spolparli".

4. Vorrei infine augurarvi di costruire - in sapiente e cordiale sinergia con le famiglie - una scuola dalle molte finestre, in particolare almeno queste quattro. Una prima finestra che dia sul retro della scuola, voglio dire sul nostro passato. Non possiamo dare ai minori l'illusione che il mondo sia cominciato con il loro primo vagito. Non possiamo costruire insieme la storia di oggi se non si riannoda il dialogo tra le generazioni e non si ritorna sempre a studiare il grande libro della storia, che è una grande "magistra vitae". Lo diceva Cicerone duemila anni fa, ma non ha finito di essere vero. Una seconda finestra deve dare sul davanti della scuola, cioè sul futuro, non solo quello che è prevedibile o programmabile, ma quello che si può e si deve sperare per costruire insieme la civiltà dell'amore. Questo oggi ci occorre: non un miraggio sempre più irraggiungibile e disperante, ma un sogno più grande di noi e del nostro presente, un sogno che sia degno del nostro essere umani, a misura non dei più fortunati e dotati, ma dei più poveri tra di noi. Una terza finestra deve essere costantemente aperta sulla strada e sulla piazza, come a dire: sul presente in corso. Un presente però non letto a occhio nudo e neanche con un binocolo rovesciato, ma ai raggi x, capace di intercettare le correnti sotterranee, i poteri occulti, ma anche le grandi energie di bene che meritano di essere sostenute e valorizzate. Una quarta finestra della scuola che vorrei e, penso, vorremmo, è aperta sul cielo. Il mondo non è fatto solo dal giro della ruota fatale: lavoro e soldi, soldi e lavoro, ma anche poesia, musica, amore, dolore, piacere. E' anche mistero. Il mondo è quella cosa che trova il suo pieno significato solo fuori del mondo. E una società che non dia spazio al mistero, rischia di morire per asfissia. Per costruire una nuova umanità, voi lo sapete, la comunità cristiana non è una minaccia, ma una risorsa. E, permettetemi, la scuola cattolica non è una rivale, ma un'alleata. Quando il 23 novembre scorso incontrai i giovani della Diocesi lanciai l'idea di un "Patto educativo", nel quale tutti, famiglie, Insegnanti, luoghi della formazione e dell'educazione, società sportive, Parrocchie e Aggregazioni cattoliche, potevano riconoscersi in vista di un grande impegno per il futuro dei nostri bambini e dei nostri giovani. Sono oggi a rinnovare questa proposta, nel pieno rispetto dell'autonomia e della libertà di ogni Istituzione, ma anche nella piena consapevolezza che ciò che a tutti noi sta a cuore è il bene delle future generazioni, del nostro Paese, di una Società dove tutti hanno pari opportunità di lavoro, di vita ed anche di speranza. Papa Benedetto nella sua Lettera sull'emergenza educativa ci incoraggia in questa direzione dicendo: «La speranza che si rivolge a Dio non è mai speranza solo per me, è sempre anche speranza per gli altri: non ci isola, ma ci rende solidali nel bene, ci stimola ad educarci reciprocamente alla verità e all'amore».

Mons. Francesco Lambiasi
vescovo di Rimini

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