SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Il periodo postconciliare :
« autodemolizione della Chiesa ? »

Testi tratti dall'articolo :
«Il rumore confuso dei clamori ininterrotti».
Il Concilio, il post-Concilio e il pensiero di Plinio Corrêa de Oliveira
di Massimo Introvigne- www.cesnur.org

Che il periodo 1966-1978 sia stato un periodo di crisi per la Chiesa cattolica è confermato da valutazioni autorevoli che non si pongono da un punto di vista sociologico.

Nel 1981 Giovanni Paolo II traccia un bilancio severamente critico degli anni precedenti:
«Bisogna ammettere realisticamente e con profonda e sofferta sensibilità che i cristiani oggi in gran parte si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi, si sono sparse a piene mani idee contrastanti con la Verità rivelata e da sempre insegnata; si sono propalate vere e proprie eresie, in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni, si è manomessa anche la Liturgia» (Giovanni Paolo II 1981).

Nella storica intervista Rapporto sulla fede rilasciata nel 1985 al giornalista italiano Vittorio Messori il cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e oggi Papa Benedetto XVI, dichiara:
«È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […] Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza. […] Vie sbagliate […] hanno portato a conseguenze indiscutibilmente negative» (Messori 1985, 27-28).

Papa Benedetto XVI, nel 2005, ribadisce:
«Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio [330-379], fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea [del 325]: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro:
“Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …
(De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524)» (Benedetto XVI 2005).

Del resto, già Papa Paolo VI si era espresso nel 1972 in termini drammatici:
«Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio [...]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza» (Paolo VI 1972).

Un espressione forte e giustamente famosa, quella relativa al «fumo di Satana», spesso accostata a quella non meno dura di «autodemolizione» della Chiesa – «come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio» – utilizzata dallo stesso Paolo VI nel fatidico 1968, dopo l’esplosione del dissenso sulla Humanae vitae (Paolo VI 1968).

Vi è dunque un consenso che va dai sociologi alle massime autorità della Chiesa. Gli anni postconciliari sono stati «decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica».
Descrivere, tuttavia, non significa ancora spiegare. Per riprendere il titolo del volume di Ralph McInerny:

Che cosa è andato storto con il Vaticano II?.

a) Risposte in base alla teoria della secolarizzazione

Se vi è ampio consenso tra i sociologi (e non solo) sul fatto che la Chiesa cattolica nel periodo postconciliare abbia attraversato una grave crisi, non vi è invece nessun consenso sulle sue cause.

Il cosiddetto «nuovo paradigma» nella sociologia delle religioni, come si è accennato, studia la religione utilizzando la metafora del mercato e distingue fra domanda di beni religiosi e offerta da parte delle Chiese e comunità. Secondo questa teoria la domanda tende a rimanere costante nel tempo, e le variazioni nel successo o nell’insuccesso delle «aziende» che competono sul «mercato religioso» vanno dunque spiegate ponendosi supply-side, «dal lato dell’offerta». La teoria classica della secolarizzazione – il «vecchio paradigma» che il «nuovo» intende contestare – si pone invece dal lato della domanda. Se le religioni hanno meno successo, secondo la teoria della secolarizzazione, è perché il mondo moderno è sempre più secolarizzato, e il numero di persone interessate alla religione diminuisce fatalmente, a prescindere da quanto le Chiese offrono. Semmai, le Chiese potrebbero inseguire la modernità, cercando di adattare le loro proposte alle domande dell’uomo moderno secolarizzato. Era questa la prospettiva di un classico della teologia degli anni 1960, La città secolare del teologo battista Harvey Cox (Cox 1965), la cui pubblicazione nel 1965 rappresenta, secondo il teologo e filosofo statunitense George Weigel, uno dei sei «momenti» che definiscono gli anni 1960 (Weigel 2008, 37), sul piano culturale un avvenimento di non minore importanza dell’assassinio del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (1917-1963). Lo stesso Harvey Cox avrebbe riconosciuto trent’anni dopo (Cox 1995) che il suo classico del 1965 si basava su premesse sociologiche e fattuali sbagliate; tuttavia – mentre La città secolare rimane molto influente sulla teologia anche in Italia – il libro del 1995 è ampiamente ignorato dai teologi e in italiano non è stato neppure tradotto.

Per chi si pone da questo punto di vista qualcosa «è andato storto» nella società moderna, non nella Chiesa, che semmai è stata troppo timida nell’adattarsi alla nuova domanda. Nel discorso con cui assume la presidenza della Association for the Sociology of Religion nel 1990 la sociologa statunitense (ed ex suora cattolica) Helen Rose Ebaugh nota che dopo il Vaticano II c’è stata «una fuga straordinaria da una fede di Chiesa basata su chiare dottrine e regole, sostenute da una forte istituzione gerarchica, verso una fede altamente soggettiva», un «cattolicesimo selettivo» dove ogni fedele può scegliersi le dottrine più gradite. Ma questa fuga dalle regole definite da istituzioni a scelte soggettiviste e libere, specie in campo morale, si è già verificata all’esterno, nella società, e la Chiesa non può che seguire. Anzi, secondo la Ebaugh lo ha fatto semmai troppo timidamente, come dimostrerebbe l’errore compiuto con l’enciclica Humanae vitae, che però avrebbe segnato «il collasso della struttura gerarchica di controllo nella Chiesa»: un fatto – il «collasso», non l’enciclica – che la sociologa considera «altamente positivo» (Ebaugh 1991, 3-7).

Tralasciando l’ipotesi che la Ebaugh stia esprimendo un giudizio di valore teologico, se non autobiografico (che di per sé avrebbe poco a fare con la sociologia), tradotta nel linguaggio del «nuovo paradigma» la tesi qui è che nel periodo del postconcilio è cambiata la domanda, e la Chiesa cattolica non ha potuto fare altro che seguirla. Nel citato The Churching of America, Finke e Stark ribattono che questo genere di analisi è certamente sbagliato perché, se davvero fosse venuta meno la domanda, tutte le Chiese e comunità religiose avrebbero ugualmente perso colpi. Ma non è andata così. Certamente gli anglicani (chiamati negli Stati Uniti episcopaliani) e i luterani, come altri, hanno sperimentato gli stessi problemi della Chiesa cattolica. Ma nello stesso periodo in cui cattolici, anglicani e luterani perdono membri attivi gruppi come i pentecostali o i battisti conservatori li moltiplicano. Una volta depositatosi il polverone degli anni 1960 e 1970. quello che emerge è che né negli Stati Uniti né altrove (con la possibile eccezione di qualche Paese europeo) il numero di persone che frequentano i luoghi della religione istituzionale è diminuito. Dunque, non è diminuita la domanda. Si è semplicemente indirizzata verso altre offerte. Ci sono meno cattolici praticanti e più pentecostali o battisti conservatori, così negli Stati Uniti come in Brasile o in Messico e altrove (Finke e Stark 1992, 262-263).

Neppure è vero che la Chiesa cattolica abbia perso colpi per essere stata troppo timida nel suo abbracciare la modernità. Nel 1972 Dean M. Kelley (1927-1997), un sociologo e un dirigente del Consiglio Nazionale delle Chiese negli Stati Uniti, pubblica un’opera destinata ad avere una straordinaria influenza intitolata Why Conservative Churches Are Growing, «Perché le Chiese conservatrici stanno crescendo» (Kelley 1972). In quest’opera Kelley nota i tassi di crescita di denominazioni che chiama conservative (letteralmente «conservatrici», ma la parola non ha lo stesso senso rispetto all’italiano, dal momento che conservative nel gergo politico e religioso statunitense è chi svolge una vigorosa attività di diffusione delle proprie idee, con un atteggiamento quindi – da un certo punto di vista – tutt’altro che «conservatore») con riferimento in particolare alle esigenze morali e all’affermazione di un’identità forte: sia protestanti, come i battisti del Sud e varie denominazioni pentecostali, sia non protestanti come i mormoni e i Testimoni di Geova. Constata che queste organizzazioni religiose crescono rapidamente, mentre quelle «progressiste» declinano con la stessa o con maggiore rapidità. Sulla «tesi Kelley» si è sviluppato uno dei dibattiti più interessanti della sociologia della religione contemporanea (su cui cfr. Introvigne 2004), che ha sostanzialmente confermato il dato empirico della maggiore crescita delle Chiese conservative, nello stesso tempo offrendone una gamma di spiegazioni piuttosto diverse fra loro. In ogni caso, è precisamente quando inseguono la modernità, specie in campo morale, che le Chiese e comunità religiose perdono membri.

b) Risposte in base al «nuovo paradigma»

Per spiegare questo fenomeno, apparentemente contro-intuitivo, e per aprire la strada a spiegazioni della crisi cattolica postconciliare che si pongano «dal lato dell’offerta», occorre introdurre – sia pure brevemente – un altro elemento fondamentale del «nuovo paradigma»: la teoria delle nicchie. I consumatori di qualunque bene materiale o simbolico si ripartiscono in nicchie quanto a gusti e preferenze personali. Nel «mercato religioso» le nozioni che vengono in considerazione per definire le diverse nicchie sono quelle di «tensione» e di costi. Per tensione s’intende la contraddizione o dissonanza tra le pratiche di un gruppo religioso e quelle della maggioranza nella società in cui il gruppo si trova a vivere. Se, per esempio, in una società è ampiamente diffuso il consumo di alcolici, un’organizzazione religiosa che vieta l’uso delle bevande alcoliche si trova in una situazione di tensione con la maggioranza sociale. Il grado di tensione di una comunità religiosa è misurato dai teorici del «nuovo paradigma» cercando di valutare la strictness, cioè quanto le norme di un gruppo religioso siano «strette» rispetto a quelle prevalenti nella società circostante. Maggiore la strictness, maggiore la tensione. Ma elementi come la tensione e la strictness possono essere anche misurati in termini di costi. Rinunciare a bere alcolici o a fumare, o adottare un’etica sessuale rigorosa in una società permissiva, sono comportamenti che implicano un costo che, ovviamente, nella maggior parte dei casi non è principalmente di carattere economico, ma simbolico e sociale.  Consiste, particolarmente, nel sacrificio richiesto per vivere una vita diversa da quella proposta dalla cultura dominante e nello stigma, cioè nella disapprovazione da parte dei parenti o degli amici (Iannaccone 1992, 1994).

Benché le nicchie in cui si distribuisce la domanda religiosa siano variamente distinte e denominate, un modello semplificato (cfr. Introvigne 2004) può distinguerne cinque, dalla maggiore alla minore tensione: ultra-strict, strict, «centrale» (chiamata talora conservative, un termine che non è necessariamente ben tradotto dall’italiano «conservatrice», se si pensa per esempio che della domanda conservative sarebbe aspetto caratterizzante uno zelo missionario che di solito non ascriviamo immediatamente ai «conservatori»), progressista e ultra-progressista. Una delle conclusioni – o, se si vuole, delle scoperte – principali del «nuovo paradigma» è che per dimensioni le nicchie non sono tutte uguali. Quella percentuale della popolazione (più o meno maggioritaria o minoritaria a seconda dei paesi) che è disponibile a mantenere un contatto regolare con un’istituzione religiosa non si distribuisce nelle cinque nicchie citate in parti uguali.

Ampi studi empirici dimostrano che la nicchia ultra-progressista (i cui valori coincidono sostanzialmente con quelli della società moderna e post-moderna, entusiasticamente e dichiaratamente abbracciati) comprende una percentuale estremamente minoritaria dei consumatori religiosi.
Pochi di più compongono, in circostanze normali, la nicchia ultra-strict (che rifiuta i valori dominanti nella società circostante in modo totale, separandosi il più possibile dal contesto sociale, con i più alti livelli possibili di tensione e di stigma).
La nicchia progressista (che adotta i valori della società moderna e postmoderna perché ritiene inevitabile farlo, dunque con minore entusiasmo rispetto alla nicchia ultra-progressista) rimane tanto stabile quanto relativamente limitata nelle dimensioni. Le denominazioni e Chiese sia più numerose, sia che crescono più rapidamente si situano nelle nicchie strict (che dichiara di rifiutare i valori dominanti ma non si separa dalla società con cui cerca anzi, sia pure con ritrosia e difficoltà, di interagire dialetticamente), e «centrale» (dove si trova chi cerca una religione con livelli di tensione e di stigma medi rispetto ala società moderna e postmoderna, nei cui confronti assume un atteggiamento di confronto e di giudizio ma anche missionario).
Quest’ultima nicchia comprende con ogni probabilità la maggioranza assoluta dei consumatori religiosi
(Finke e Stark 1992; Stark e Finke 2000a).

La conclusione intuitiva secondo cui la nicchia più ampia dovrebbe essere quella che raccoglie i consumatori che hanno valori più simili a quelli dominanti nella società è fallace per due principali motivi. La prima è che il «mercato religioso» non comprende il cento per cento della popolazione mondiale (come avviene invece, per esempio, per il mercato dell’acqua, di cui tutti gli esseri umani hanno bisogno). Un buon numero di persone nelle società moderne si situa al di fuori del «mercato religioso» in quanto non è interessata ad aderire a religioni istituzionali. Ed è precisamente fra questi non-consumatori di beni religiosi che si trovano più di frequente coloro che sono perfettamente d’accordo con i valori e la cultura dominante. In secondo luogo, come ha mostrato in numerosi studi il sociologo statunitense Laurence R. Iannaccone, il «consumatore religioso» – come ogni consumatore – non si preoccupa solo di minimizzare i costi ma valuta il rapporto fra costi e benefici. Quello che costa poco spesso offre anche poco. I costi altissimi della nicchia ultra-strict sono tollerabili per un numero relativamente piccolo di persone, ma dal canto loro le organizzazioni della nicchia ultra-progressista e, in misura minore, di quella progressista, proprio perché chiedono costi modesti, offrono anche esperienze e compagnie piuttosto scialbe e poco soddisfacenti. Le organizzazioni con bassi costi d’ingresso si riempiono facilmente di free rider, «viaggiatori che non pagano il biglietto», che intendono ricevere quanto si può e dare il meno possibile. E un’organizzazione piena di free rider di rado offre a chi la frequenta un’esperienza entusiasmante (Iannaccone 1992, 1994).

Un altro aspetto messo in luce dal «nuovo paradigma» è che le organizzazioni religiose non stanno ferme. Si muovono, non soltanto andando a cercare la domanda – il che le fa crescere – ma anche cercando di limitare lo stigma, di diventare «rispettabili» e di diminuire la tensione: e questo secondo movimento è più ambiguo quando lo si valuta rispetto ai risultati. Se passano da una tensione estrema o alta a una tensione media le comunità religiose possono in effetti crescere, in termini sia di numero di fedeli sia di forza organizzativa. Ma se continuano a muoversi nella stessa direzione rischiano di spostarsi verso le nicchie a bassa o bassissima tensione (attirate dal basso e bassissimo stigma), dove si ricevono applausi da parte della società circostante non religiosa ma dove c’è un numero più limitato di consumatori religiosi, il che determina non una crescita ma una crisi.

Il tema principale del citato classico del «nuovo paradigma» The Churching of America (Finke e Stark 1992) è appunto questo. Le nuove organizzazioni religiose nascono alla periferia del mercato, e iniziano a rivolgersi alla nicchia ultra-strict. Con l’emergere di seconde e terze generazioni il naturale desiderio di ridurre la tensione e lo stigma porta a spostarsi dalla nicchia ultra-strict a quella strict. Fin qui tutto bene: l’organizzazione cresce e si consolida, perché trova più consumatori religiosi nella nicchia strict rispetto a quella ultra-strict. Il passaggio alla nicchia «centrale» è un’operazione molto più delicata, che rischia di provocare reazioni da parte di fedeli reperiti nelle nicchie più strict e richiede spesso non anni ma secoli. Molte comunità religiose non compiono mai questo passaggio, e rimangono nella nicchia strict (o scompaiono). Per chi riesce a compierlo in modo graduale e ordinato, anche il passaggio alla nicchia «centrale» è vantaggioso, perché qui si trovano consumatori religiosi dotati sia di spirito missionario nei confronti della società circostante sia di risorse e numeri per gestire questa missione. Vi è tuttavia un rischio. Presa, per così dire, la rincorsa il movimento può continuare in modo lineare, continuando a diminuire la tensione e spostandosi così ancora, dalla nicchia «centrale» verso quelle progressista e ultra-progressista. Poiché, come abbiamo visto, in queste nicchie ci sono meno consumatori religiosi sopraggiunge la crisi.

The Churching of America legge anche la crisi postconciliare della Chiesa cattolica secondo questo modello. La Chiesa cattolica – la maggiore organizzazione religiosa mondiale (l’islam ha un numero di fedeli paragonabile, ma non un’organizzazione unitaria che risponda a un’unica gerarchia) –, pur avendo una sua unità ben visibile nel Papa di Roma, ha al suo interno componenti diversissime, non solo nei diversi Paesi del mondo ma anche all’interno degli stessi Paesi. Al momento del Concilio la Chiesa si trovava in numerosi Paesi e situazioni nella nicchia strict, e in movimento verso la nicchia «centrale». Il grado di tensione è medio-alto, con una richiesta piuttosto alta di sacrifici che tuttavia riesce a determinare per molte persone uno «scambio favorevole» quanto al rapporto fra costi e benefici, dal momento che le comunità della Chiesa cattolica sono in grado di trasmettere «una vivida concezione di forze soprannaturali attive e potenti, capaci di motivare a importanti sacrifici per la fede» (Finke e Stark 1992, 271). Lo sforzo conciliare, secondo Finke e Stark, mira a far spostare in modo uniforme verso la nicchia «centrale» le componenti della Chiesa cattolica che si trovano nella nicchia strict. L’operazione dovrebbe produrre il vantaggio di una maggiore capacità di missione nei confronti della società moderna, oltre che la maggiore legittimazione tipica del passaggio da una tensione alta a una media.

Tuttavia, secondo i due sociologi americani, governare un processo di questo genere è molto difficile. Come era avvenuto «per i congregazionalisti, presbiteriani, episcopaliani e metodisti» (Finke e Stark 1992, 271), una volta iniziato il movimento verso una minore tensione, questo non si è fermato nella nicchia «centrale» ma è proseguito in direzione delle nicchie progressista e ultra-progressista, il che comporta per i motivi indicati un immediato rischio di diminuzione del numero di membri attivi e di crisi organizzativa. La crisi, secondo Finke e Stark, non avrebbe potuto essere arrestata se non «ritornando a una tensione più alta con l’ambiente circostante» (Finke e Stark 1992, 271, il che all’epoca (1992) sembrava ai due sociologi piuttosto improbabile. In scritti successivi, tuttavia, gli stessi autori hanno notato come, con il pontificato di Giovanni Paolo II, si sia sviluppata all’interno della Chiesa cattolica una vigorosa concorrenza intrabrand e come vi siano in effetti movimenti, gruppi e perfino diocesi capaci di ritornare da un livello di tensione basso a uno medio, e di recuperare una maggiore coerenza dottrinale, venendo immediatamente premiati con un aumento del numero dei fedeli, della pratica e delle vocazioni sacerdotali e religiose (Stark e Finke 2000b).

Quando qualcosa ha cominciato ad «andare storto»?

Se si considera valida nelle grandi linee – ed è questa la mia opinione personale – la spiegazione di Stark e Finke della crisi postconciliare, rimane tuttavia una domanda: chi, quando e perché ha preso nella Chiesa cattolica le decisioni che hanno determinato la crisi? In particolare, queste decisioni sono state prese durante o dopo il Concilio? La questione non è irrilevante, ma talora riceve scarsa attenzione negli studi sociologici. Gli stessi Stark e Finke (1992, 258) ritengono decisivi, particolarmente negli Stati Uniti, come elementi di diminuzione della tensione, ma anche come fattori di un rischio di «assimilazione» e perdita dei caratteri distintivi del cattolicesimo rispetto alle altre Chiese e comunità cristiane, il passaggio dal latino alla lingua volgare nella liturgia (nessuna comunità protestante prega pubblicamente in latino) e – forse soprattutto – il venire meno dell’obbligo dell’astinenza dalle carni al venerdì. La rilevanza attribuita a quest’ultimo aspetto può stupire il lettore italiano, ma nei Paesi dove la Chiesa cattolica non è maggioritaria si trattava di un segno distintivo che permetteva immediatamente di distinguere i cattolici dai protestanti. Molti in America ricordano i venerdì sera «preconciliari» nei McDonald’s, dove il personale si preparava alla mezzanotte sapendo che in quel momento sarebbero scattate le ordinazioni degli hamburger da parte dei cattolici. Un dettaglio, certo, ma che dava un’immediata percezione visiva di come in quel paese o in quel quartiere ci fossero dei cattolici praticanti.

Secondo Neuhaus «questa cosa apparentemente piccola contò più di ogni altro cambiamento per distruggere l’identità cattolica» (Neuhaus 2007, 118). Lo storico del cristianesimo irlandese, professore a Cambridge, Eamon Duffy ipotizza addirittura un «suicidio rituale» della Chiesa cattolica (Duffy 2005, 9), e non sta parlando della liturgia ma della carne al venerdì. È probabile che questa riforma non abbia avuto lo stesso impatto nei Paesi a maggioranza cattolica, dove il problema di distinguersi dai protestanti era meno importante. In ogni caso – come per la riforma liturgica – non si tratta di una decisione del Concilio Vaticano II ma di una riforma postconciliare, cui apre la strada la Costituzione apostolica Paenitemini, del 17 febbraio 1966, di Paolo VI, il quale «chiuso il Concilio Ecumenico Vaticano II» offre alle conferenze episcopali la possibilità di sostituire l’obbligo dell’astinenza dalle carni del venerdì con altri segni penitenziali (Paolo VI 1966).

McInerny (1998) e Neuhaus (2007) evocano entrambi il motto post hoc non ergo propter hoc, chiedendosi se la crisi sia avvenuta solo post Concilium (dopo il Concilio) o invece propter Concilium (a causa del Concilio). Entrambi rispondono che la questione è complessa, dovendosi distinguere fra almeno quattro elementi diversi: l’atteggiamento dei padri conciliari (che a sua volta ha influenzato la percezione mediatica del Concilio); i documenti del Vaticano II; le riforme postconciliari; e il clima creato nelle diocesi, negli ordini religiosi e tra i teologi da chi si richiamava a un presunto «spirito del Concilio».

a) La tesi di Melissa Wilde

Quanto all’atteggiamento dei padri conciliari, è questo il campo dell’ambiziosa impresa sociologica di Melissa Wilde, che – sia pure ricavandone osservazioni non sempre condivisibili – ha certo raccolto un numero impressionante di dati sui padri per studiarli come una popolazione e cercare di estrarne dati statisticamente significativi da analizzare in base al «nuovo paradigma». La Wilde (2007) divide i vescovi in quattro gruppi a seconda del tipo di mercato religioso da cui provengono: monopolistico, non-monopolistico, latino-americano e missionario. Il primo gruppo comprende i padri di Paesi dove la Chiesa cattolica si trova in una posizione di semi-monopolio, con minoranze religiose (all’epoca) statisticamente quasi irrilevanti: italiani (il maggiore contingente di padri conciliari: 367), spagnoli, irlandesi e portoghesi. Il secondo i rappresentanti di Paesi dove la Chiesa cattolica deve coesistere o con maggioranze protestanti (Stati Uniti: il secondo contingente per importanza numerica con 216 padri, Germania, Gran Bretagna, Olanda) o con maggioranze laiciste non religiose (Francia). Il terzo i padri latino-americani (anzitutto i brasiliani, il terzo gruppo per numero di membri: 167) i quali si trovano in una situazione di «falso monopolio»: l’ampia prevalenza di cattolici battezzati non corrisponde a una maggioranza di praticanti, e i padri percepiscono confusamente sia la crescita (che sottovalutano) dei protestanti pentecostali sia quella (che sopravvalutano) del marxismo. Il quarto gruppo, infine, è costituito dai vescovi missionari dell’Africa e dell’Asia, i quali si considerano in concorrenza più con le religioni non cristiane che con i protestanti.

La Wilde considera decisivi per misurare l’atteggiamento dei padri conciliari due voti: quello dello schema preparatorio del decreto sulle fonti della rivelazione (che è considerato da alcuni anti-protestante per la sua insistenza sulla tradizione, ed è rifiutato), e quello su un documento conciliare separato sulla Madonna (anch’esso ultimamente respinto perché considerato un potenziale segnale anti-ecumenico inviato ai protestanti). I numeri di queste votazioni sono usati dalla sociologa per dimostrare che, anche se all’interno di ogni gruppo geografico ci sono maggioranze e minoranze, la singola variabile più importante per predire il voto è precisamente quella geografica. Per esempio, l’88% dei vescovi del primo gruppo (provenienti da Paesi dove la Chiesa cattolica ha una posizione «semi-monopolistica») vota a favore di un documento specifico sulla Madonna, mentre il 78% dei vescovi del secondo gruppo (cioè di Paesi dove la Chiesa ha una posizione «non monopolistica») vota contro. La Wilde si pone all’interno del «nuovo paradigma» ma prende in considerazione oltre al monopolio e alla concorrenza anche la teoria del sociologo californiano Neil Fligstein, che applica il concetto di «campo stabile» ai mercati di beni simbolici. Secondo gli economisti, quando il mercato si muove in un campo stabile e nessun concorrente ritiene probabile che ci saranno importanti variazioni della sua quota, le aziende che non sono in posizione dominante non danno priorità al marketing ma alla legittimazione: più che di acquistare nuovi clienti, cercano di entrare nei «salotti buoni» e di farsi percepire come rispettabili dalle aziende dominanti.

Fligstein (1996) applica questi principi – che distinguono fra campi «stabili», «emergenti» (che per definizione non sono stabili) e «in crisi» – alla politica, e Melissa Wilde alla religione. Le Chiese monopolistiche europee e le Chiese non monopolistiche dell’Europa del Nord e del Nord America operano all’epoca del Concilio in campi stabili; quelle latino-americane in un campo in crisi, segnato da notevole turbolenza e rapide variazioni; e quelle missionarie in campi emergenti. Un’applicazione alla popolazione costituita dai padri conciliari della teoria del monopolio da sola spiegherebbe perché il primo gruppo di padri, espressione di Chiese semi-monopolistiche, non abbia particolarmente insistito (nella sua maggioranza) in atteggiamenti tali da far percepire all’esterno cambiamenti particolarmente rilevanti, mentre gli altri tre gruppi si siano comportati in modo contrario. Il monopolista è di per sé poco incline al cambiamento. Ma, insiste la sociologa americana, solo l’applicazione della teoria dei campi stabili permette di rendere ragione del differente comportamento di due gruppi non monopolisti (i padri conciliari del Nord dell’Europa e dell’America, e quelli delle Chiese missionarie) e di un gruppo pseudo-monopolista (quello latino-americano). In situazione simile quanto al monopolio, questi tre gruppi differiscono quanto al tipo di campo in cui operano: un campo in crisi in America Latina, un campo emergente per le terre di missione, un campo stabile per l’Europa e l’America del Nord.

Un atteggiamento che intende manifestare all’esterno che è in corso un cambiamento, comune a tutti i non monopolisti, assume così caratteri diversi. Per i padri del Nord Europa e dell’America Settentrionale l’atteggiamento mira ad acquistare benefici in termini di legittimità. La priorità dunque non è la ricerca di nuovi fedeli ma il farsi accettare come «uguali» dall’establishment protestante (o laicista) maggioritario, assumendo un atteggiamento fortemente ecumenico. Per i padri delle comunità missionarie, che operano in un campo emergente, l’orientamento dominante consiste nel presentarsi come gruppo dinamico capace di attirare nuovi fedeli ma nello stesso tempo ecumenico, perché il competitor di riferimento non è identificato nelle comunità protestanti (con cui possono esserci, al contrario, interessi comuni nel campo della rivendicazione della libertà religiosa) ma nelle religioni non cristiane. Per i padri latino-americani, che operano in un campo in crisi, la priorità è presentarsi come in grado di attirare nuovi fedeli senza prestare troppa attenzione all’ecumenismo perché il competitor religioso immediato è costituito dai protestanti pentecostali, acquisire la cui stima non comporterebbe benefici significativi dal punto di vista della legittimità in quanto i pentecostali non sono considerati particolarmente «rispettabili» dai «salotti buoni» giornalistici, culturali e accademici in grado di conferire patenti di legittimità. I padri latino-americani considerano, secondo Melissa Wilde, molto più rispettabile (in questo riflettendo il giudizio dei «salotti buoni») il competitor marxista, tanto che nei suoi confronti sviluppano un «isomorfismo mimetico» (Wilde 2007b, 23). Ritenendo che i marxisti abbiano sia un particolare successo presso il «popolo», sia una speciale rispettabilità in circoli culturali capaci di conferire legittimità, i padri latino-americani cercano, come insegna la teoria economica, di «mimare le strategie [ritenute] di successo utilizzate da aziende concorrenti» (ibidem: più tardi, in una certa, minore misura, i padri dell’America Latina cercheranno anche di mimare quella che ritenevano – erroneamente – essere la chiave del successo pentecostale, cioè la creazione di piccole comunità guidate da laici). Ma la teoria economica insegna pure che l’isomorfismo mimetico di rado ha successo.

b) Obiezioni alla tesi della Wilde

L’analisi di Melissa Wilde ha ricevuto obiezioni tecniche, che in parte condivido, da parte di sociologi (cfr. per esempio Berzano 2007), e obiezioni più radicali da non sociologi come lo storico Alberto Melloni, secondo il quale la studiosa americana dà troppa importanza all’ecumenismo, che per molti padri non è la preoccupazione principale, e si concentra solo sulla geografia mentre gruppi uniti da fattori diversi da quello geografico hanno al Concilio non minore importanza (per esempio gli ex alunni dell’Almo Collegio Capranica di Roma sono un gruppo «con una coerenza maggiore di parecchi episcopati nazionali»: Melloni 2007). Obiezioni tutte interessanti, ma che nascono da una fondamentale incomprensione della prospettiva sociologica del «nuovo paradigma», all’interno della quale si dà per scontata una sorta di «magia del mercato» (religioso) per cui gli atteggiamenti degli attori sociali non sono necessariamente consapevoli e meditati.

Melloni ha ragione quando mette in guardia contro il rischio di sopravvalutare la portata delle conclusioni della sociologa americana. Qualche volta, leggendo il suo testo, sembra che la Wilde scivoli, più o meno inconsapevolmente, da una presentazione dell’atteggiamento e dei modi di comunicare con i media dei padri conciliari a un giudizio che vorrebbe coinvolgere anche i documenti del Concilio, su cui invece la sua analisi a rigore non può dire nulla, dal momento che non prende in esame i testi ma i comportamenti durante l’assise romana di un determinato gruppo di persone (appunto i padri conciliari). Ma questi comportamenti sono tutt’altro che poco importanti. Per la prima volta nella storia dei Concili il Vaticano II è stato un grande evento mediatico, e come i padri che parlavano con i media lo hanno presentato durante e dopo l’evento conciliare ha in gran parte determinato come i fedeli di tutto il mondo (per non parlare dei non cattolici) lo hanno percepito. Si situano qui anche dei comportamenti di tipo omissivo che, uniti alla loro presentazione mediatica, hanno avuto un ruolo non secondario nella percezione ad extra del Concilio: così la decisione di non votare un documento specifico sulla Vergine Maria (oggetto secondo la Wilde della «più dura battaglia del Concilio»: Wilde 2007a, 102) e quella di non pronunciare una condanna solenne del comunismo, che da più parti era richiesta ai padri del Vaticano II. In entrambi i casi, accanto a ragioni diverse, gioca certo un ruolo l’ecumenismo: il documento sulla Madonna avrebbe irritato i protestanti, quello sul comunismo i governanti dei Paesi dell’Est europeo che esercitavano un controllo quasi totale sulle locali Chiese ortodosse.

Si potrebbe naturalmente dire che sia della Madonna sia (molto meno) del comunismo si parla esplicitamente o implicitamente altrove nei testi del Concilio. Anzi, l’ottavo capitolo della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium costituisce il più importante ed esteso trattato sulla Madonna prodotto dal magistero cattolico fino a quella data, e la scelta di trattare della Vergine Maria nell’ambito – come recita il titolo di quel capitolo – del «mistero della Chiesa» si radica in una lunga e autorevole tradizione teologica. Ma qui non si stanno discutendo i documenti; sono l’atteggiamento dei padri (o di molti di loro) e i loro rapporti con i media che vengono in considerazione. Nonostante l’ottavo capitolo della Lumen Gentium, la scelta di rinunciare a un documento mariano a sé stante (che pure è sostenuta da fondate ragioni di carattere teologico, che vanno molto al di là del semplice bon ton ecumenico) è comunque presentata prima alla stampa e poi dalla stampa dominante come l’ennesima «vittoria» dei «progressisti» sui «conservatori». L’analisi sociologica di Melissa Wilde permette così di raffinare la consueta domanda se siano stati i documenti del Concilio o la loro interpretazione postconciliare a provocare la crisi. A parte il ruolo di riforme post-conciliari (che non si risolvono nella sola riforma liturgica: si è accennato al’importanza che diversi sociologi danno alle innovazioni in materia di astensione dalle carni al venerdì), emerge qui un terzo elemento: il modo in cui – attraverso un plesso di comportamenti che include dichiarazioni alla stampa, modi di comportarsi e anche omissioni – il Concilio è stato presentato ai media e quindi percepito dai fedeli (che, vale sempre la pena di ricordare, né sono teologi né corrono immediatamente a leggere i documenti) già durante il suo svolgimento. Oltre ai due elementi rappresentati dai documenti e dalla loro ermeneutica ce n’è un terzo: il Concilio come evento, come fatto sociale globale che in uno «studio del caso» sociologico non è separabile dalla sua percezione filtrata dai media (ancorché non si riduca a questa), e che è propriamente l’oggetto dello studio di Melissa Wilde.

c) Documenti, ermeneutica dopo il Concilio e comunicazione durante il Concilio

Alla domanda se la crisi derivi dai documenti del Vaticano II o dalla loro interpretazione da parte di chi ha opposto all’accostamento letterale ai testi l’appello a un presunto spirito – o meglio, «anti-spirito» – del Concilio la risposta che il cardinale Joseph Ratzinger ha dato nel libro-intervista Rapporto sulla fede del 1985, e che è diventata magistero sia di Giovanni Paolo II sia di Benedetto XVI, è del tutto priva di equivoci. Non sono i testi ad avere creato i problemi, è una loro interpretazione arbitraria secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» che ha letto il Vaticano II non alla luce del, ma contro il magistero precedente (Benedetto XVI 2005). Il lavoro di Melissa Wilde, a ben vedere, non risponde in modo alternativo a questa domanda, ma aiuta a formularne un’altra diversa, inserendo tra i fattori che hanno determinato la ricezione del Vaticano II non solo l’ermeneutica successiva al Concilio ma anche l’atteggiamento durante l’assise ecumenica di molti padri conciliari che hanno preparato il terreno a una successiva ricezione del Concilio secondo l’«ermeneutica della discontinuità e della rottura» (il termine, qui, evidentemente è di Benedetto XVI e non della Wilde). Un filosofo come McInerny (1998) mostra scarsa pazienza rispetto ai sociologi e anche rispetto agli storici che hanno analizzato in modo minuto (ma talora, a suo avviso, schematico) lo scontro fra padri conciliari «progressisti» e «conservatori», compreso padre Ralph Wiltgen, SVD (1921-2007) che considera peraltro un autore particolarmente affidabile (Wiltgen 1967). I testi del magistero, ci assicura McInerny, sono anzitutto questo, testi: la loro analisi dimostra che l’ermeneutica della rottura è infondata e fa loro violenza, e lo studio di come sono stati elaborati rischia di distrarre l’attenzione dall’essenziale. Si tratta di una posizione condivisibile, ma che non dispensa dallo studio dei modi di comunicazione tra padri, media e mondo non cattolico durante il primo Concilio della storia che è stato anche un grande avvenimento mediatico.

Beninteso, questi atteggiamenti comunicativi che si sono manifestati durante il Concilio hanno influenzato sia le successive tendenze ermeneutiche sia la spinta verso riforme postconciliari (che peraltro non è stata affatto recepita passivamente dalla Santa Sede, dal momento che la riforma che stava più a cuore a molti padri che mettevano in primo piano esigenze di legittimazione, quella in materia di controllo delle nascite, fu bloccata nel 1968 con l’Humanae vitae). A costo di apparire ripetitivi, vogliamo insistere che si tratta qui non dei testi, ma del modo in cui – già prima di passare alla fase ermeneutica postconciliare – il Concilio è stato presentato ai media e ai fedeli durante il suo stesso svolgimento, anche attraverso alcune «spettacolari» omissioni (e le omissioni, evidentemente, non sono documenti).

Possiamo così trarre un bilancio dalla discussione sociologica all’interno del «nuovo paradigma» sulla crisi nella Chiesa cattolica successiva al Concilio Vaticano II. Questa crisi – per quanto possa dirne la sociologia, che si occupa solo del «lato umano della religione» – è evidente qualunque sia l’accostamento ai dati, quantitativo o qualitativo. Solo un’ostinazione ideologica estrema può negare che, per dirla con il cardinale Ratzinger del 1985, gli anni 1966-1985 «sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica» (Messori 1985, 27).

La crisi non deriva da una presunta timidezza della Chiesa cattolica nell’abbracciare i valori dominanti della società moderna e postmoderna (come vorrebbero alcuni teorici del «vecchio paradigma», che postulano una variazione della domanda), ma al contrario – come dimostrano Finke e Stark – da uno slittamento dell’offerta cattolica verso una nicchia del mercato, quella progressista, dove ci sono meno consumatori di beni religiosi (mentre possono esserci molti consumatori di altri beni simbolici, non religiosi).

Questo slittamento dell’offerta, che ha determinato la crisi, non deriva dai documenti del Concilio Vaticano II ma piuttosto :
(a) dal modo con cui il Concilio è stato presentato ai media e ai fedeli già durante il suo svolgimento, anche attraverso significative omissioni, da un certo gruppo di padri conciliari, i quali erano spinti – consapevolmente o inconsapevolmente – dalle dinamiche dei rispettivi mercati religiosi a cercare la legittimazione dei «poteri forti» protestanti, laicisti o marxisti, di cui talora – ancora, non necessariamente in modo consapevole – cercavano pure d’imitare le strategie per fenomeni d’isomorfismo mimetico;
(b) dall’impatto di alcune riforme postconciliari (non solo quella liturgica), che sono state presentate e percepite – in logica continuità con le strategie comunicative di cui al punto precedente – in alcuni Paesi e presso alcuni gruppi di fedeli precisamente come un mutamento dell’offerta inteso a diluire la specificità del cattolicesimo rispetto sia ad altre offerte religiose sia alla cultura dominante; (c) dalla interpretazione del Concilio («ermeneutica della discontinuità e della rottura») prevalente in significativi ambienti teologici e culturali cattolici almeno fino alla fine del pontificato di Papa Paolo VI, e anche oltre.

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