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Ravasi: Bibbia, il rischio dell’intellettualismo

www.avvenire.it-5-01-2009

Un mese fa si chiudeva in Vaticano il Sinodo dei Vescovi dedicato alla Parola di Dio nella vita della Chiesa e nella missione.

Vorremmo un po’ liberamente riprendere questo tema, nella consapevolezza che è necessario tenere sempre alta e sfavillante la fiaccola di una Parola che leva sopra le molte e troppe parole. Come è noto, questa della lampada è una famosa immagine biblica destinata proprio a illustrare la missione di "guida" della Parola divina nel cammino dell’esistenza. Proponiamo, però, una riflessione di taglio più trasversale, dato che la Bibbia al suo interno si svela non solo come "parola", che precede ed eccede lo stesso testo sacro, ma anche con altri profili che ora cerchiamo solo d’evocare.

Montag, l’"incendiario" dei militi statali del fuoco protagonista di Fahrenheit 451 di Bradbury, comincia ad entrare in crisi nella sua missione "bibliocida", quando si mette a sfogliare una Bibbia scampata a uno dei tanti roghi e il vecchio e catacombale professor Faber gli fa capire perché essa sia così pericolosa, come tutti i grandi libri: «Perché rivela i pori della faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive». Il testo sacro, quindi, come smascheramento della superficialità, della plastica facciale applicata all’anima, dell’autodifesa ipocrita.

Eppure - come Platone, che comparava la parola scritta alle "conchiglie di Adone" (ove si coltivavano semi che potevano solo germogliare in esili e tisici fuscelli), preferendole la parola detta - anche la Bibbia, nonostante questa denominazione così "grafica" (graphé/graphaí sono appunto le "Scritture"), nasce e fiorisce come parola proclamata oralmente, è miqra’, come la definisce il giudaismo, cioè "la Lettura" per eccellenza, e la radice verbale che è alla base di questo vocabolo è la stessa del Corano, la "bella e generosa" .Lettura o Proclamazione.

Ma la Bibbia è anche e soprattutto simbolo, immagine, metafora, segno, teofania, essendo il linguaggio spirituale di sua natura "allegorico", come il celebre oracolo di Delfi che "ammiccava", lasciando cadere a terra tutte le denotazioni esplicative riduttive e tenendo sempre aperto il fiore della visione, della domanda, della ricerca, dell’ermeneutica. Non per nulla uno degli ultimi artisti che hanno intinto quasi sistematicamente il pennello in quell’alfabeto colorato della fede che è la Bibbia (per usare una sua fastosa locuzione), cioè Marc Chagall, confessava di non aver mai letto le Scritture Sacre, ma di averle "sognate" in una sorta di contemplazione epifanica.

Ed è curioso che proprio nei mesi scorsi uno dei maggiori scrittori svedesi, Torgny Lindgren - che alla Bibbia ha ripetutamente attinto (si pensi alla sua carnalissima Betsabea) - entrava in scena col suo romanzo intitolato in svedese Dorés Bibel, cioè la "Bibbia di Doré", faticosamente reintitolato nella versione italiana con un pedante e pesante Per non saper né leggere né scrivere (ed. Iperborea). Ebbene, il protagonista colpito da una sindrome di alessìa, incapace quindi di leggere e scrivere, ricreava ex novo la celebre Bibbia illustrata da Gustavo Doré, l’incisore nato a Strasburgo nel 1832 e morto a Parigi nel 1883, dopo averla imparata "a memoria" attraverso quelle xilografie che hanno incantato anche tanti di noi (assieme alla sua Divina Commedia o alle Favole di La Fontaine o al Don Chisciotte). Lindgren esorcizza radicalmente la riduzione della cultura (e della stessa parola sacra) a testo, facendo proclamare al suo protagonista questa professione biblioclasta: «La maggior parte delle sciagure del nostro tempo sono state causate dalla lettura e dalla scrittura. Le formule chimiche. Il codice genetico. I programmi di partito. Le dichiarazioni di guerra. Le autorità. La bomba atomica». Dalla scrittura e dalla lettura all’immagine, dunque.

Un percorso che non finisce qui perché, a partire dall’antichità ebraica e cristiana, si fa strada il martello dell’iconoclasmo che elide ogni cristallizzazione parabolica della pagina sacra, giungendo fino al protestantesimo delle basiliche spoglie, ospitanti solo la nuda croce e le armonie musicali, che di loro natura non sono mai descrittive. Ed è stato ancora uno scandinavo, il danese Henrik Stangerup, col suo Broder Jacob (Fratello Jacob, Iperborea 1993), a celebrare questo lavacro da ogni vitello d’oro cattolico, evocando le orde di fanatici luterani che nella Danimarca del XVI secolo coprirono di calce tele, pale, affreschi, aprendo le cateratte di un diluvio bianco aniconico e spiritualistico. Una tentazione che non lascerà immune la stessa teologia cattolica e protestante, votata a un rarefatto razionalismo mistico che, attraverso una trattatistica pronta a spazzar via le nebule dei simboli biblici col vento cristallino della sistematica, riduceva la Bibbia al solo nucleo duro di tesi, teoremi e assiomi, inducendo il sogno (o l’illusione) di erigere una teologia o una morale more geometrico demonstrata.

Effettivamente la Scrittura-Lettura-Simbolo è anche Verità, Messaggio, Didaché. Il Logos giovanneo, ossia la Parola divina, si erge con tutta la sua densità di "significato": è la celebre resa del Faust ove si traduce il Logos con un d er Sinn, cioè "Senso, significato" che si pone accanto al Wort-Scrittura, alla Kraft della Lettura efficace e incisiva e alla Tat dell’Atto simbolico. Pur con tutte le precisazioni "gnoseologiche" del caso, «la vita eterna è conoscere te, o Padre, e colui che hai inviato, Cristo Gesù» (Giovanni, 17, 3). La Rivelazione è, pertanto, anche alétheia, "verità".

Ma c’è un altro anello nella catena che lega in unità la Bibbia ed è forse quello decisivo e ultimativo. I testi sacri sono certamente "informativi" sulla verità che vogliono rivelare, generando quella che i teologi chiamano la fides quae, ossia la fede nei suoi contenuti dogmatici; essi, però, mirano a diventare "performativi", attizzando nel cuore la fides qua, cioè l’adesione vitale ed esistenziale. Si potrebbe allestire una vera e propria panoplia testuale di simboli biblici tesi a marcare questa qualità "normativa" della parola sacra: dalla lampada che illumina i passi della vita al lievito che sommuove la massa, dall’acqua che feconda le aridità spirituali al sale che dà sapore e cauterizza, dalla spada che giunge al midollo svelando ogni angolo remoto della coscienza al miele che addolcisce e rasserena e così via.

Nietzsche aveva centrato questo aspetto quando sarcasticamente ammoniva i cristiani: «Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, voi non avreste bisogno di insistere così ostinatamente perché si creda all’autorità di questo libro: le vostre azioni dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia perché voi stessi dovreste continuamente costituire la Bibbia nuova». È la stessa "beatitudine" pronunziata da Cristo a esigerlo: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Luca 11, 28). È l’akouein e il poiein, l’"ascoltare" e il "fare", come egli dirà altrove (Luca 8, 21), il vero approdo della Scrittura e della Lettura, anche perché essa si presenta - usando le metafore un po’ pesanti e pedanti del poeta inglese secentesco George Herbert - come «il deposito e il magazzino della vita e della consolazione».

La Bibbia è, quindi, Evento, è storia, è vita e non solo Scrittura, Lettura e Visione. È ciò che sottolineava il famoso teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, martirizzato dal nazismo nel 1945, quando ammoniva così i pastori ecclesiali durante un corso tenuto nel 1936-37: «Il pastore incontra la Bibbia in tre diversi momenti: sul suo scrittoio, sul pulpito e sull’inginocchiatoio e la usa correttamente solo se la pratica totalmente. Nessuno può commentarla dal pulpito senza praticarla sul suo tavolo di lavoro e nella preghiera».

Libro proclamato, contemplato e vissuto.

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