SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
L'enciclica sulla speranza commentata da due pensatori non credenti:
Aldo Schiavone ed Ernesto Galli della Loggia.  

di Sandro Magister -http://chiesa.espresso.repubblica.it/

ROMA, 7 luglio 2008 – Per la seconda volta in tre mesi "L'Osservatore Romano", il quotidiano della Santa Sede, ha pubblicato in prima pagina dei commenti all'enciclica di Benedetto XVI "Spe salvi" scritti da pensatori non credenti.
Il primo commento, pubblicato il 28 marzo, è del professor Aldo Schiavone (nella foto), presentato in calce all'articolo come “Direttore dell’Istituto Italiano di Scienze Umane”.
Schiavone è uno dei più autorevoli studiosi di diritto romano e di storia e filosofia del diritto. Insegna all’Università di Firenze. Nel suo campo, in Italia, è un luminare come lo è in Germania il professor Ernst-Wolfgang Böckenförde, molto stimato da papa Joseph Ratzinger.
Non è cattolico, anzi, non è credente in alcuna fede rivelata. Ma ha sempre prestato molta attenzione al fatto religioso.
Il secondo commento, pubblicato il 28 giugno, è del professor Ernesto Galli della Loggia.
Galli della Loggia è stato professore ordinario di storia dei partiti e movimenti politici all'Università di Perugia. Ha successivamente insegnato a Firenze all'Istituto Italiano di Scienze Umane diretto dal professor Schiavone. E dal 2005 insegna filosofia della storia presso la facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è stato preside per due anni. Per l'editrice il Mulino dirige la collana "L'identità italiana", inaugurata da un suo volume con lo stesso titolo. Anche Galli della Loggia non è cattolico, anzi, si dice "privo della fede". Eppure afferma di riconoscere "quel 'di più' che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare".

Sia Schiavone che Galli della Loggia sono molto noti al pubblico colto italiano. Sono editorialisti dei due quotidiani laici più diffusi, il primo di "la Repubblica" e il secondo del "Corriere della Sera".
Sia l'uno che l'altro sono da tempo interlocutori stimati, in Vaticano.
Il 25 ottobre 2004 Galli della Loggia sostenne un dibattito pubblico su l'Occidente e le religioni con l'allora cardinale Ratzinger, dibattito promosso dalla Fondazione Gaetano Rebecchini e tenuto a Roma nello splendido Palazzo Colonna.
Il 30 novembre 2007 sia lui che Schiavone hanno presentato e commentato in Vaticano, alla presenza del cardinale segretario di stato Tarcisio Bertone, gli atti di un seminario del Pontificio Comitato di Scienze Storiche su “Storia del cristianesimo: bilanci e questioni aperte”.
I loro commenti alla "Spe salvi" svolgono argomentazioni diverse. Ma convergono su un punto. Entrambi danno molto rilievo a quel passaggio dell'enciclica in cui Benedetto XVI auspica “un’autocritica dell’età moderna” e insieme “un’autocritica del cristianesimo moderno”.
Sia l'uno che l'altro, però, ritengono che questa auspicata autocritica del cristianesimo sia lontana dall'essere compiuta.
Per Galli della Loggia ad essa "non viene dato alcun seguito", né nell'enciclica nè in altri documenti papali.
Per Schiavone la Chiesa si chiude troppo sulla difensiva. Continua a pensare a “un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli naturali”.
Si può ipotizzare che Benedetto XVI abbia letto con interesse queste critiche così fuori dal comune sul "giornale del papa". E non è escluso che prima o poi non vi risponda.

Ecco qui di seguito i due commenti alla "Spe salvi" apparsi su "L'Osservatore Romano", il primo il 28 marzo 2008, il secondo il 28 giugno 2008:

1. Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica
di Aldo Schiavone

La "Spe salvi" è un testo complesso e coinvolgente, scritto con grande maestria intrecciando una molteplicità di temi, da motivi più propriamente pastorali a riflessioni di ordine dottrinario e dogmatico. E insieme, è anche quel che si direbbe un saggio storico d'interpretazione, dedicato a misurarsi con nodi cruciali disposti su un arco temporale lunghissimo, dall'antichità romana al mondo contemporaneo.

Il filo conduttore, annunciato come di consueto già nelle parole dell'incipit – una bellissima citazione paolina – è un serrato discorso sulla speranza, giustamente considerata come la connessione per eccellenza fra due piani fondamentali: l'orizzonte della storia e quello dell'escatologia.

È una scelta forte, che tocca senza dubbio un nervo scoperto dei nostri giorni: quel che altrove (nel libro "Storia e destino") ho creduto di definire come la perdita del futuro, l'incapacità di attirare "dentro il presente il futuro", in modo che "le cose future si riversino in quelle presenti, e le presenti in quelle future", come adesso scrive suggestivamente il pontefice.

Per lui, e non potrebbe essere altrimenti, l'aspetto escatologico della speranza – della speranza cristiana – si lega alla certezza "che il cielo non è vuoto", che "al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore". È il punto di giunzione – insieme limpidissimo e tormentato – fra speranza e fede: e opportunamente Benedetto ricorda in proposito l'elaborazione teologica medievale che arriva a definire appunto la fede come "sostanza delle cose sperate".

Ma l'uomo è anche storia, e la domanda capitale: "che cosa possiamo sperare?" – un dubbio che gli eventi del nostro tempo rendono insieme decisivo e carico d'angoscia – richiede perciò anche una risposta sul terreno della storicità, e non solo su quello dell'escatologia.

Ed è a questo punto che l'interrogarsi di Benedetto sulla speranza – sulla sua forma storica, potremmo dire – si trasforma, inevitabilmente e con grande forza, in un discorso sulla modernità: sulla sua ragione, sulle sue conquiste e sui suoi fallimenti.

La prospettiva è fortemente sintetica, ma mai superficiale, e l'uso che viene proposto in queste pagine di Kant, di Adorno, persino di Marx, è veloce e a volte discutibile, ma sempre pertinente. Seguirne tutti i passaggi sarebbe però ora troppo lungo e complesso, e mi guarderò dal farlo. Cercherò invece di tenermi stretto a quel che mi sembra il dispositivo essenziale e più potente del ragionamento del pontefice. Che si trova a mio avviso nell'affermazione che è oggi indispensabile "un'autocritica dell'età moderna" nella quale possa confluire anche "un'autocritica del cristianesimo moderno".

Si tratta di una posizione di assoluto rilievo, che condivido pienamente. Sono del tutto convinto anch'io che i tempi – se sappiamo davvero interpretarli – siano maturi per una nuova alleanza fra cristianesimo e modernità laica, sulla base di una parallela revisione critica della loro storia, e che essa possa contribuire a quell'autentica rigenerazione dell'umano senza di cui il nostro futuro si riempie di ombre.

Ma come lavorare a questo straordinario obiettivo comune? Benedetto accenna sobriamente ma con efficacia ai principali fallimenti ideologici e politici della modernità, che retrospettivamente ci appaiono in tutta la loro portata: l'idea troppo lineare, ingenua e materialistica di "progresso"; l'idea datata e inadeguata del comunismo come esito ultimo della rivoluzione francese, e come puro capovolgimento della base economica delle nostre società. Su tutto ciò non ci può essere ancora che concordanza. Ma la modernità non è solo questo: e Benedetto lo sa benissimo. Egli ne individua infatti correttamente il cuore nella capacità di instaurare un nuovo e rivoluzionario rapporto fra scienza e prassi – cioè fra conoscenza e tecnica trasformatrice.

Ora, il punto è che questo intreccio fra scienza e tecnica – la potenza trasformatrice della tecnica – non sta solo andando "verso una padronanza sempre più grande della natura"; ma sta facendo molto, molto di più.

Ci sta spingendo – dopo milioni di anni di storia della specie – verso lo sconvolgente punto di fuga oltre il quale la separazione, che finora ci ha dominati, fra storia della vita (nel senso delle nostre basi biologiche) e storia dell'intelligenza (umana) non avrà più ragione di essere. Un punto in cui le basi naturali della nostra esistenza smetteranno di essere un presupposto immodificabile dell'agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra ragione, della nostra etica e della nostra cultura. Questo ricongiungimento – il passaggio, almeno potenziale, nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente – non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane.

E allora io mi domando e mi permetto di chiedere sommessamente: ma la forma storica della nostra speranza non dipende anche da come si schiera la Chiesa di fronte all'annuncio di questa novità radicale? È essa davvero pronta ad accoglierla? O forse l'"autocritica" di cui parla il pontefice deve innanzitutto riguardare proprio questo aspetto?

È vero, Benedetto ha ragione: la scienza – nessuna scienza – potrà mai "redimere" l'uomo: c'è bisogno di etica e di valori. Ma può modificare – e lo sta già facendo – in modo drastico la trama esistenziale dell'umano, il suo vissuto più profondo, le prospettive primarie di vita e di morte.

Insomma, il rapporto storico tra modernità e speranza non può evitare di sciogliere questo nodo. Il superamento definitivo e completo dei confini biologici assegnatici finora dal nostro cammino evolutivo può essere integrato all'interno di una forma storica di speranza compatibile con la fede e con l'escatologia? Nella "somiglianza" dell'uomo con Dio – anch'essa richiamata dal pontefice – nell'infinito cui questo abissale paragone allude, può essere incluso il progetto di un umano finalmente libero dai propri vincoli naturali, e completamente padrone del suo destino "storico"?

In altri termini, quel che viene qui in questione è l'irrompere e l'installarsi dell'infinito entro la storicità del finito. Anche questo, come Benedetto sa bene, è un tema cruciale della modernità, ben riflesso in alcuni grandi luoghi della filosofia classica tedesca. E credo proprio che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando, che chiama la Chiesa ad assumersi responsabilità enormi, sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinante innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere ai suoi filosofi. Che cioè l'infinito come assenza di confini materiali alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi ("omnis determinatio est negatio") sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini, e sempre di più dovremo imparare ad averlo accanto, e, se posso dir così, a padroneggiarlo. Con l'aiuto di Dio, starei per dire: ma non oso e mi fermo.

Certo, io non ho alcuna autorità per sostenerlo, ma non riesco a sottrarmi all'idea che un Dio d'amore – come quello che Benedetto ci invita a pensare – non abbia bisogno di un uomo in scacco, di un uomo prigioniero della sua materialità biologica, di un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli "naturali", ma abbia scelto per amore di avere accanto un uomo totalmente libero, e totalmente libero, a sua volta, di sceglierLo.

Non mi nascondo che mettersi in questo vento – arrivare cioè a immaginare un nuovo rapporto fra storia ed escatologia, dove l'infinito non stia solo dal lato della seconda, perché di questo in fondo si tratta – imporrebbe grandi cambiamenti nel magistero e nella dislocazione mondana della Chiesa. Ma davvero, se non ora, quando? Le energie vi sono. E c'è la speranza. Forse, occorre solo un po' più di profezia, senza rinunciare alla dottrina.

2. Quel di più che la storia umana non riesce a colmare
di Ernesto Galli della Loggia

Il passato e il presente; l'Occidente e la sua tradizione culturale da un lato, la modernità dall'altro: è tra questi due poli che sembra muoversi la riflessione che Benedetto XVI ha fin qui consegnato ai suoi interventi di maggior impegno, in particolare a entrambe le sue encicliche. Una riflessione il cui contenuto vero non è poi altro che il destino del cristianesimo.

Solo se l'Occidente, infatti, l'antico teatro geografico e storico che primo accolse il messaggio proveniente da Gerusalemme per farne anima e forma della sua cultura, intenderà tutta la profondità del rapporto con le proprie origini cristiane, solo a questa condizione – sembra pensare il papa – la religione della Croce potrà reggere la sfida lanciatale dai tempi nuovi, continuando a tenere il suo animo fermo all'antica promessa del non praevalebunt.

Da qui la spinta a ripercorrere in qualche modo l'intero arco della vicenda cristiana, a ripercorrere le molte vie attraverso cui essa non solo ha plasmato l'Occidente dopo essersi mischiata alle sue radici classiche, ma, contrariamente a una convinzione diffusa, ha anche preparato e perfino favorito l'avvento della modernità.

L'obiettivo ambiziosissimo è quello niente di meno, come si legge, di "un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo" nella quale peraltro "confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno", cioè – se capisco bene – di una sorta di "nuovo inizio" segnato da quello che appare il vero obiettivo di questo pontificato: la riconciliazione tra religione e modernità.

Nel procedere in questa direzione mi sembra che il papa operi una svolta decisiva non tanto rispetto al Concilio Vaticano II in quanto tale, ma certamente rispetto alla "vulgata" che ne è circolata largamente negli anni seguenti.

Benedetto XVI, infatti, sembra porre al centro dell'attenzione – si badi bene: all'attenzione non politica, ma teologica – della Chiesa non più genericamente il "mondo", bensì l'Occidente, il problema dell'Occidente. Di conserva egli individua con sicurezza i termini teoricamente cruciali per il discorso cristiano sulla modernità non più, come aveva fatto il Vaticano II, nella "giustizia", nella "pace" e nell'autodeterminazione individuale e collettiva, ma nella "ragione" e nella "scienza" (la seconda, in specie, sostanzialmente assente nella tematizzazione conciliare).

Tutto ciò è ben visibile nell'ultima enciclica del papa. Se con la "Deus caritas est" Joseph Ratzinger aveva esplorato alcuni dei mutamenti rivoluzionari introdotti dal messaggio evangelico nel mondo dell'"intimità morale", in particolare nei rapporti con l'altro, tra quei due "altri" per antonomasia che sono l'uomo e la donna, con la "Spe salvi" egli concentra la propria attenzione su un aspetto altrettanto decisivo di quella che Benedetto Croce chiamò la "rivoluzione cristiana" che è all'origine del mondo moderno: vale a dire il rapporto assolutamente nuovo rispetto alla dimensione del futuro che quella rivoluzione significò per le culture in cui ebbe modo di affermarsi.

Con ciò l'analisi di Benedetto XVI prende il taglio, che in questa enciclica è propriamente suo (ma che già si affacciava in quella precedente), di una declinazione della prospettiva teologica che tende continuamente a configurarsi come filosofia della storia. Anzi meglio, per chi come me guarda queste cose dall'esterno: a porre la religione cristiana come l'origine prima della storia quale dimensione tipica del pensiero occidentale.

Se infatti – come l'enciclica non si stanca di sottolineare facendone il proprio asse – la fede cristiana è per l'essenza speranza, cioè fede in un futuro ("i cristiani hanno un futuro"; "la loro vita non finisce nel vuoto"); se essa – come scrive icasticamente il papa – ha "attirato dentro il presente il futuro", e lo ha fatto – egli aggiunge – avendo in mente il futuro non di questo o quel singolo ma dell'intera comunità dei credenti, ebbene, come non vedere proprio in ciò, allora, la premessa per quella più generale tensione al domani e all'oltre che ha segnato così intimamente tutta quanta la nostra civiltà?

Ma per l'appunto in questa tensione sta l'origine dell'idea che l'oggi prepara il domani, che il senso di quanto accade oggi è in questa preparazione, e quindi che la vicenda umana nel suo complesso, possedendo una direzione, un fine, possiede anche un senso, un significato.

Sta insomma qui l'origine, per dirla con una sola parola, dell'idea di storia. E per conseguenza della frattura di cui si sostanzia la modernità: dal momento che è proprio nell'ambito della "speranza", del "futuro", del significato della storia – lungo un percorso che dall'attesa del Paradiso ha condotto all'attesa del progresso – che si è sviluppato forse il principale momento di laicizzazione della mentalità collettiva moderna.

Lo scritto di papa Ratzinger – mai come in questo caso assolutamente suo: a un certo punto si legge un "io sono convinto" del tutto inusuale per il testo di un'enciclica – è per una buona parte la ricognizione nel campo della storia delle idee delle cause che hanno portato all'espulsione della speranza cristiana dal mondo a opera specialmente del binomio scienza-libertà. Per ribadire naturalmente che però né la scienza, né le sempre parziali realizzazioni politiche della libertà saranno mai in grado di soddisfare il bisogno di giustizia e di amore che si agita in ogni essere umano e che è invece la sostanza della speranza cristiana, garantita da Dio ai credenti: "solo Dio può creare la giustizia", così come solo l'amore può bilanciare la cupa "sofferenza dei secoli".

Anche chi è privo della fede, come me, non fa fatica a convenire sull'esistenza di questo irreparabile "di più" che la storia umana priva di Dio non riuscirà mai a colmare.

Ma questo accordo – che non ha né vuole avere nulla di formale, e del resto dovrebbe essere nella sostanza quasi scontato – non può mettere a tacere un'osservazione critica che investe l'insieme dell'analisi dell'enciclica, pure così convincente in molti passaggi: perché la storia dell'Occidente cristiano è andata così? Perché essa sembra concludersi con uno scacco della religione che pure l'ha così intimamente forgiata?

La risposta sta forse in quella che a un certo punto – l'ho già ricordato – l'enciclica stessa chiama la necessaria "autocritica del cristianesimo moderno": indicazione alla quale però non viene dato alcun seguito.

Mi domando se sia lecito aspettarsi da Benedetto XVI ciò che avremmo senz'altro chiesto al professor Ratzinger. Non lo so. Ma sono certo che se mai in un domani il pontefice volesse far sentire la sua voce per rispondere a questo interrogativo, quella voce susciterebbe forse un'eco non destinata a spegnersi nel tempo.

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