SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
A settant’anni dalla morte del “padre dei Turchi” : fondamentalismo, laicismo, o sana laicità ?

di Massimo Introvigne -www.cesnur.org- (il Domenicale. Settimanale di cultura, anno 7, n. 45, 8 novembre 2008)

“Terza posizione nel nome di Atatürk”

ataturkSettant’anni fa, il 10 novembre 1938, moriva Mustafa Kemal detto Atatürk (“padre dei Turchi”: 1881-1938): un personaggio insieme amato e odiato in Turchia e in tutto il mondo islamico, il cui ruolo rimane centrale per qualunque riflessione sull’identità dei turchi e dei musulmani moderni in genere. Il tema dell’identità è centrale negli studi sulla Turchia, perché l’identità turca è emersa molto lentamente. Nel 1803 un diplomatico turco, Halet Efendi (1761-1822), abbandonò la Francia rivoluzionaria dopo essere stato presentato come ambasciatore turco, dichiarando che non era mai stato offeso in quel modo in vita sua. Turco, a quell’epoca, significava nomade del Turkmenistan o abitante di villaggi arretrati dell’Anatolia. Per la verità, a quell’epoca non vi era un’identità ottomana, ma piuttosto islamica. Se si fosse chiesto all’ambasciatore da quale Paese provenisse, avrebbe risposto semplicemente di essere musulmano. Si sapeva, naturalmente, che c’erano dei musulmani che sfuggivano alla giurisdizione dei califfi di Istanbul, che dal XVI secolo la rivendicavano su tutto l’islam, ma l’esercito, che in Europa si definiva turco, era l’esercito dell’islam, il califfo era il capo dei musulmani e i suoi diplomatici erano i diplomatici dell’islam.

Soltanto nell’Ottocento, sotto l’influenza di scambi sempre più intensi con l’Europa, emerse l’idea di patria, che, comunque, in origine, era ottomana, e che coincideva con un impero che comprendeva più di un centinaio di etnie e di lingue e che si estendeva dall’Arabia ai Balcani e alla Libia. Come un gentiluomo della corte di Vienna avrebbe parlato del suo patriottismo austro-ungarico, che era diverso dal nazionalismo austriaco che si andava agitando in altri ambienti e che non era ben visto a corte, così nella prima metà dell’Ottocento l’identità ottomana era differente – in quanto identità imperiale – da quella turca.

L’identità turca venne, paradossalmente, dall’Europa, dalla decomposizione dell’impero austro-ungarico. Furono soprattutto gli esuli nazionalisti ungheresi, accolti ad Istanbul, a diffondere idee sulla Turania, cioè su una grande unità, soprattutto linguistica e di popoli, che andava dalla Mongolia all’Ungheria e alla Finlandia. Questi popoli rappresentavano gli eredi di popolazioni (gli unni, i turchi, poi i mongoli) che, venuti in diverse ondate dalla Mongolia, riuscirono quasi a conquistare il mondo.

Chi visita ancora oggi la Mongolia ha modo di osservare i legami profondi che uniscono la storia di queste popolazioni che si sono mosse, probabilmente nel 500 d.C., dall’Asia centrale. Ad Ungut, in un bellissimo parco nazionale mongolo, ci sono ancora le tombe dei primi principi turchi pagani. Poi, nel percorso molto lungo che portò i turchi dai Monti Altai della Mongolia, le montagne dove si trovano i lupi grigi (animali diventati simbolo dell’estremismo nazionalista turco), fino all’Anatolia, avvenne la conversione all’islam, non dovuta – e questo è molto importante per gli sviluppi successivi – a una conquista militare araba, ma a predicatori itineranti che convertirono le tribù turche mentre si spostavano verso Occidente.

Nel clima dei nazionalismi esasperati diffusi in Europa nel XIX secolo, questi sogni “turanici” diventarono “panturanici”, e in alcuni politici utopistici si tradussero nell’idea di riconquistare tutte quelle terre che, in qualche modo, avevano fatto parte di un’unità etnica di tipo turco. Il passaggio dal “turchismo” al “panturchismo” fu poi criticato severamente propria da Kemal Atatürk come sogno che aveva fatto molto male alla Turchia. L’ideologia “panturanica”, anche se recupera elementi di cultura islamica, è sostanzialmente neopagana ed è all’origine di movimenti talora definiti fascisti, come appunto i Lupi Grigi. Atatürk, invece, sosteneva un “nazionalismo ragionevole” che consentisse la difesa dell’integrità territoriale dopo la disfatta nella Prima guerra mondiale e scongiurasse il rischio che la Turchia scomparisse, smembrata fra le potenze coloniali o ridotta al suo cuore storico, l’Anatolia,  e alla sua parte europea con Istanbul. Con Kemal Atatürk, che era indubbiamente convinto della superiorità della cultura europea ed occidentale, emerse la quarta identità, dopo quella islamica, ottomana e turca, ovvero quella europea. Queste identità oggi non si oppongono ma spesso coesistono. Non a caso capita di trovare in case di turchi di oggi insieme l’immagine di Atatürk, di Alì o della Mecca (a seconda che si tratti di sciiti o di sunniti) – e talora anche quella di Giovanni Paolo II (1920-2005), che ha potentemente colpito l’immaginario turco come uomo di dialogo e di amicizia fra le religioni.

Indubbiamente, Kemal Atatürk fu un grande laicizzatore. Abolì il califfato nel 1924 e, dopo aver mandato l’ultimo califfo Adbülmecid II (1868-1944), che tra l’altro si interessava assai più di pittura che di religione, a Parigi, promosse una serie di leggi che ridussero l’impatto della religione islamica: dal sequestro dei beni delle opere pie all’abolizione dei tribunali religiosi, la sostituzione del diritto di famiglia tradizionale con uno ispirato principalmente al codice svizzero e una gigantesca riforma dell’alfabeto, in base alla quale il turco abbandonò i caratteri arabi in favore di quelli latini, pur mantenendo alcune lettere proprie. L’abolizione del fez suscitò parecchie reazioni nell’establishment religioso, così come era accaduto un secolo prima con quella del turbante.

I nostri manuali di storia spesso ci presentano Atatürk come un personaggio calato in una situazione perfettamente teocratica che rovesciò completamente. L’opera di Atatürk fu effettivamente radicale; tuttavia, non si spiegherebbe se non ci fosse stato in Turchia, a partire dal Settecento, il dispotismo illuminato – per usare una categoria europea – dei sultani riformatori, che, osservando l’Europa e cercando di mettersi al passo con essa, avevano già introdotto elementi di separazione fra istituzioni religiose e istituzioni politiche. Si pensi all’abolizione del corpo dei giannizzeri, alla creazione di un’amministrazione dei beni religiosi, alla diminuzione del potere delle confraternite sufi.

Abdul Amid II, conosciuto come un sultano estremamente bigotto e reazionario, la sera ascoltava la musica di Giuseppe Verdi (1813-1901) e si faceva leggere le avventure di Sherlock Holmes e Fantômas in traduzione turca. Inoltre, era un maniaco delle ferrovie, che faceva costruire in Europa, scatenando scontri diplomatici tra tedeschi e francesi, che volevano aggiudicarsi i contratti per la costruzione delle strade ferrate.

Non dobbiamo confondere il laicismo di Atatürk con quello francese o del suo contemporaneo presidente messicano Plutarco Elias Calles (1877-1945). In Francia e in Messico lo scopo era confinare la religione nella sfera esclusivamente privata, negandole ogni espressione pubblica. L’islam non si presta a questa riduzione, ed Atatürk sapeva perfettamente che era impossibile. Perciò il suo scopo non era tanto di vietare l’espressione pubblica dell’islam, quanto di portarla sotto il controllo di istituzioni dello Stato o, ancora meglio, di convogliare e rafforzare in un Ministero degli Affari religiosi quelle istituzioni che i sultani avevano già creato.

La discussione sulle posizioni personali di Kemal Atatürk sull’islam in Turchia continua ancora oggi. Ci sono sue interviste abbastanza contraddittorie. In una alla famosa giornalista inglese Grace Ellison (1877-1935) disse che avrebbe voluto vedere tutte le religioni sprofondare in fondo al mare, mentre, in una predica tenuta nella moschea anatolica di Balikesir il 7 febbraio 1923, concluse il suo discorso dicendo: “Ogni persona ha una religione, soprattutto chi nega di averne una”. Forse si riferiva in qualche modo anche a se stesso.

Il processo di reinterpretazione dell’Atatürk avviene oggi all’interno dell’islam politico turco, che in Turchia ha avuto un legame costitutivo con un maestro sufi, lo shaykh Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) della moschea İskanderpaşa di Istanbul, affiliata ad una delle branche della Naqshbandiya, a sua volta la maggiore confraternita sufi mondiale. Fra i suoi allievi, seguaci di un’interpretazione dell’islam come elemento di modernizzazione soprattutto economica (qualche sociologo europeo lo ha paragonato a san Josémaria Escrivá de Balaguer, 1902-1975, il fondatore dell’Opus Dei) spiccano tre primi ministri: Turgut Özal (1927-1993), tecnocrate e primo artefice del boom economico turco, Necmettin Erbakan, che poi si è allontanato dalla confraternita di Kotku per adottare posizioni rigidamente fondamentaliste, e l’attuale primo ministro Recep Tayyip Erdoğan.

Tra le novità della svolta che Erdoğan ha impresso all’islam politico turco dopo l’11 settembre 2001 vi è anche il tentativo di recuperare in una sintesi nazionale elementi dell’eredità di Atatürk, distinguendo fra giacobinismo e secolarismo, e tra “kemalismo” ed “atatürkismo”. Erdoğan sostiene che, se che il secolarismo è accettabile come mezzo per portare la Turchia verso la modernità e l’Europa, non è accettabile invece il secolarismo se si tratta di un fine in sé, e questa sarebbe la visione del giacobinismo. Questo tentativo interessante di una nuova sintesi nazionale turca, in qualche modo, si inserisce in un dibattito più vasto che riguarda tutto l’islam.

Papa Benedetto XVI – il cui viaggio in Turchia del 2006 ha forse aiutato l’islam a riflettere su se stesso – descrive ripetutamente una sorta di ricatto culturale cui le persone religiose sono oggi sottoposte. Tale ricatto consiste nel sostenere che esistono solo due modi di mettere in relazione la religione con la cultura, la società e la politica: o il fondamentalismo, che deduce meccanicamente tutta la cultura, la società e la politica dalla religione, così che tutto quanto è estraneo ad essa è considerato demoniaco, o  il laicismo, che, invece, innalza un muro fra religione e cultura e vuole espellere completamente la religione dalla società e dalla politica, riducendolo a un fatto meramente privato.

Secondo il Papa si tratta di un inganno, perché oltre a queste due opzioni (il laicismo e il fondamentalismo), ne esiste una terza: la sana laicità. La laicità è un valore di origine cristiana, mentre il laicismo è la sua deformazione ideologica. La laicità distingue tra religione e cultura, tra religione e politica, tra religione e società: e riconosce l’autonomia delle realtà secolari che hanno regole proprie, comuni a credenti e non credenti e non dedotte dalla teologia. Tuttavia, una volta accettate queste regole, ciascuno ha diritto di seguire la propria fede cristiana – o islamica –  e di portarla nella sfera pubblica.

La storia turca, come ha ricordato Benedetto XVI visitando questo Paese, è importante perché – proprio attraverso le durissime polemiche che hanno circondato la figura e la politica dell’Atatürk – è stata costretta a confrontarsi con questi problemi, così che è il luogo del mondo islamico dove precisamente potrebbe emergere la terza posizione autenticamente laica, intermedia fra laicismo e fondamentalismo, che il Papa augura anche all’islam di riscoprire.

Nel corso di un soggiorno in Arabia Saudita, un principe riformista mi diceva che il modello cui persino l’Arabia Saudita dovrebbe guardare è la Turchia, perchè sta cercando di costruire una posizione che non rinuncia all’eredità islamica (quindi non importa brutalmente una cultura diversa), ma, nello stesso tempo, si apre ai diritti delle minoranze religiose, delle donne e alla democrazia. Discorsi simili sul modello turco li ho sentiti nel corso di viaggi in Siria, negli Emirati Arabi, in Indonesia, in Malaysia, dove i rapporti con la Turchia sono stretti. Credo che da questo punto di vista il modello turco rappresenti un valore culturale – nelle analisi di Benedetto XVI, anche teologico – per fare emergere quella posizione laica che è sempre stata minoritaria nel mondo islamico e che dalla Turchia potrebbe oggi diffondersi anche altrove. Riveduto, corretto e depurato di elementi che derivavano piuttosto dai coevi nazionalismi europei – quindi integrato in una sintesi nazionale con le idee dei suoi oppositori – anche il laicismo dell’Atatürk, nonostante le sue asprezze, s’inserirebbe così in un processo storico utile e positivo per l’evoluzione del pensiero islamico moderno.

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