SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
PROLUSIONE DEL CARDINALE PRESIDENTE

Conferenza Episcopale Italiana
CONSIGLIO PERMANENTE

Roma, 22 - 25 marzo 2010

Venerati e Cari Confratelli,

«Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): insieme alle nostre comunità, ci siamo messi in cammino nella direzione indicata da queste parole per vivere come grazia il tempo forte della Quaresima, puntando alla Pasqua, cuore della nostra fede. Noi stessi, padri del Consiglio Permanente, conveniamo in questa sessione primaverile per rispondere in termini anche personali all’invito dell’apostolo Paolo. Il nostro ministero, al pari del lavoro che ci attende in questi giorni, vuol essere solcato dalla consapevolezza di una conversione necessaria e irrevocabile. Ci interrogheremo infatti sul già fatto e sul non ancora compiuto, e sulle condizioni del tempo in cui operiamo, dando così forma al «necessario discernimento, anche severo, del realismo sobrio e dell’apertura a nuovi carismi» (Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 10 marzo 2010), ossia all’ispirazione divina che dal Risorto è stata garantita alla Chiesa, per cui il governare, da parte dei Pastori, è anzitutto e «soprattutto pensare e pregare» (ib).

1. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): non c’è nulla di abitudinario né di ciclicamente scontato nella riproposta del tempo quaresimale. Non c’è anzitutto un nostro agitarci, ma c’è piuttosto l’iniziativa di Dio, c’è una misteriosa e gratuita «precedenza divina»: a noi rimane il compito di lasciarci raggiungere, di arrenderci all’amore e alla sua chiamata. Solo Dio infatti può attirarci, mentre a noi sta la responsabilità della risposta. Ecco la fede, che è il vero caso serio della vita: qui mettiamo a repentaglio noi stessi, lo spessore della nostra vita attuale, la beatitudine di quella futura (cfr Benedetto XVI, All’Udienza del Mercoledì, 17 febbraio 2010). Dio non ci ama per gioco, e il nostro corrispondergli non può essere affidato alla saltuarietà e ad uno spontaneismo vago quanto ingenuo. È piuttosto un lasciarci portare a livello di Dio, ed è evento ontologico che riguarda l’essere, cioè il fatto «che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha dato il suo amore» (Benedetto XVI, Lectio Divina con i Seminaristi del Seminario romano maggiore, 12 febbraio 2010). È, dunque, un restare al livello che Lui ci è ha guadagnato. Non basta rettificare un accidente, è tutta l’esistenza che va messa in asse con la chiamata: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).

E il Papa commenta: grazie all’azione di Cristo, «noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, quella dell’amore, la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare» (Messaggio per la Quaresima 2010). A quel punto, l’agire consegue
all’essere, «come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo anche esserlo nella nostra attività» (Lectio Divina cit.). Dunque − al di là del formalismo o del moralismo − non si tratta di consegnarci «ad una volontà tirannica» che sta fuori del nostro essere, o ad una legge estranea a noi stessi e che ci resterà esteriore. Dobbiamo piuttosto agire sul perno della nostra identità, dando realizzazione al «dono del nuovo essere» (ib). L’etica evangelica è essere fedeli a ciò che Gesù ha fatto per noi e di noi. È il dinamismo intrinseco e coerente con ciò che siamo per grazia. L’alienazione è in agguato quando ci si esclude dalla prospettiva di Dio, «perché in questo modo usciamo dal disegno del nostro essere», usciamo cioè da quella «volontà creatrice», crogiuolo dell’incandescenza, che porta l’uomo e la sua libertà al grado massimo della loro realizzazione (cfr Benedetto XVI, Lectio Divina con i Parroci di Roma, 18 febbraio 2010).

Ancora una volta, cari Confratelli, noi amiamo pensarci nell’ambito di quella scuola in cui mistagogo formidabile del nostro tempo è Benedetto XVI, e non per meramente ripetere ma per assumere emblematicamente questo magistero e per incastonarlo nel vissuto delle nostre Chiese, persuasi che la testimonianza pontificale oggi offerta, raccolta con ogni premura attorno ad uno speciale carisma della parola, accompagnata da una conoscenza singolare dei Padri, e da una sensibilità acuta per i bisogni dell’umanità, sia un provvido segno dei tempi, grazia che prova come il Signore non abbandoni mai il suo popolo e amabilmente lo guidi per i pascoli del suo amore. Quanto più, da qualche parte, si tenta inutilmente di sfiorare la sua limpida e amabile persona, tanto più il popolo di Dio a lui guarda commosso e fiero. Anche per questo gli rinnoviamo la nostra vicinanza ancora più forte e grata, l’affetto profondo e la nostra piena e concreta comunione.

2. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Ma per «lasciarci riconciliare» occorre, da una parte, che noi continuiamo ad avere una vera idea di Dio stesso. Quante volte infatti, dinanzi alle provocazioni del male abissalmente presenti nella storia e nella vita, si fa ricorso al concetto di kénosis, assegnando magari a questa parola un valore semantico sfuocato ed impreciso, intendendola cioè come ridimensionamento dell’onnipotenza di un Dio che così farebbe i conti con il principio a Lui contrario, quello del male? «Ma che povera apologia» di Dio è questa, osserva il Papa. «Come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicuri nel suo amore […]?». Credere a Dio vuol dire non ignorare il volto del Cristo Crocifisso: lì «vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. […]. In Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire […] fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, è potere: il potere dell’amore» (Lectio Divina con i Seminaristi, cit.). Ecco perché non ci stancheremo mai di sollecitare le nostre comunità ad approfittare quanto meno dei momenti forti dell’anno, come la Quaresima, per proporre ad adulti e giovani, oltre che ai bambini e ai ragazzi, degli itinerari catechistici in grado di far acquisire il senso autentico del messaggio cristiano.

Dall’altra parte, è necessario che tutta la pastorale si concentri, per così dire si essenzializzi, in quel «Gesù solo» apparso ai discepoli nel momento della Trasfigurazione. Guai a noi se cessassimo di contemplare il volto di Gesù, «vangelo vivente e personale», se pensassimo di saper reggere il lavoro ecclesiale staccando lo sguardo da Lui. Questo vuol dire, ad esempio, che per noi ecclesiastici non ci sono incarichi o ruoli da interpretare come «un privilegio personale», o da trasformare in occasioni per «una brillante carriera», quando c’è solo «un servizio da rendere con dedizione e umiltà» (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 3 febbraio 2010). Il Papa l'aveva già detto, e di recente l’ha ripetuto, che «le cose nella società civile e, non di rado, nella Chiesa, soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità» (ib).

Ma la concentrazione su Cristo vuol dire soprattutto che la trasparenza è un punto d’onore della nostra azione pastorale. Indirizzando sabato scorso la sua Lettera ai Cattolici d’Irlanda, e affrontando con loro a cuore aperto il problema, ovunque doloroso là dove si verifica, degli abusi sessuali compiuti su minori da ecclesiastici – crimine odioso, ma anche peccato scandalosamente grave che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo – il Papa ha posto un limite invalicabile alla perniciosa tendenza a cercare scuse in attenuanti e condizionamenti. Egli invece ha affermato con vigore che occorre assumere «una posizione più forte per portare avanti il compito di riparare alle ingiustizie del passato e per affrontare le tematiche […] secondo modalità conformi alle esigenze della giustizia e agli insegnamenti del Vangelo» (n. 1). Senza dubbio la pedofilia è sempre qualcosa di aberrante e, se commessa da una persona consacrata, acquista una gravità morale ancora maggiore. Per questo, insieme al profondo dolore e ad un insopprimibile senso di vergogna, noi Vescovi ci uniamo al Pastore universale nell’esprimere tutto il nostro rammarico e la nostra vicinanza a chi ha subìto il tradimento di un’infanzia violata. La Lettera papale è interamente pervasa da un accorato spirito di contrizione ed è testimonianza indubitabile di una Chiesa che non sta sulla difensiva quando deve assumere su di sé lo «sgomento», «il senso di tradimento» e «il rimorso» per ciò che è stato fatto da alcuni suoi ministri. Benedetto XVI non lascia margini all’incertezza o alle minimizzazioni: «rendiamo conto – esorta – delle nostre azioni senza nascondere nulla», «riconoscete apertamente la vostra colpa, sottomettetevi alle esigenze della giustizia», «dovete rispondere davanti a Dio onnipotente come pure davanti a tribunali debitamente costituiti» (n. 7). E lui, a sua volta, si mette in gioco con la sua autorità: «Vi chiedo con umiltà di riflettere su quanto ho detto» (n. 6).

Anche nella bufera, tuttavia, egli è Pietro ed indica la strada, propone a tutti, senza indulgenze, lo scatto in avanti necessario: nonostante l’indegnità, «i peccati, i fallimenti di alcuni membri della Chiesa, particolarmente di coloro che furono scelti in modo speciale per guidare e servire i giovani», ecco tutto questo è vero, «ma è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre» (n. 9). Le direttive chiare e incalzanti già da anni impartite dalla Santa Sede confermano tutta la determinazione di fare verità fino ai necessari provvedimenti, una volta accertati i fatti. I Vescovi italiani prontamente ne hanno preso atto e hanno intensificato lo sforzo educativo dei candidati al sacerdozio, il rigore del discernimento, la vigilanza per prevenire situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio, una formazione permanente del nostro clero adeguata alle sfide. Siamo riconoscenti alla Congregazione per la Dottrina della Fede per l’indirizzo e il sostegno nell’inderogabile compito di fare giustizia nella verità, consapevoli che anche un solo caso in questo ambito è sempre troppo, specie – ripeto – se chi lo compie è un sacerdote.

Da varie parti, anche non cattoliche, si rileva come non da ora il fenomeno della pedofilia appaia tragicamente diffuso in diversi ambienti e in varie categorie di persone: ma questo, lungi dall’essere qui evocato per sminuire o relativizzare la specifica gravità dei fatti segnalati in ambito ecclesiastico, è piuttosto un monito a voler cogliere l’obiettivo spessore della tragedia. Nel momento stesso in cui sente su di sé l’umiliazione, la Chiesa impara dal Papa a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla. Questo, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizzato. Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi coltiva l’assoluta autonomia dai criteri del giudizio morale e veicola come buoni e seducenti i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrenati. Ma l’esasperazione della sessualità sganciata dal suo significato antropologico, l’edonismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora insospettabilmente pervasivi. Conviene allora che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi.

Tenendo fisso lo sguardo a Gesù, siamo abilitati a riconoscerlo in tutti, in particolare nei piccoli e nei poveri. È, dunque, a partire dal riferimento a Lui, che si concretizza il contributo che, insieme ai Confratelli della Comece, intendiamo dare alla campagna approntata per l’Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Più in generale, in questa circostanza vorremmo osservare che c’è tanta, troppa sofferenza nel mondo, e che attenuare il carico di dolore prodotto è una missione cui tutti devono partecipare, quale che sia la loro competenza. E tuttavia, consapevoli che mai riusciremo a cancellare il male dalla nostra condizione umana, ci sia consentito ricordare che il dolore, per quanto scandaloso, non è mai del tutto eccedente: in ogni sua goccia infatti è fin d’ora deposto un seme di eternità e di salvezza.

3. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): vorrei che questa perorazione raggiungesse in particolare i nostri cari sacerdoti, e li interpretasse nel loro desiderio di autenticità e di rinnovamento della propria testimonianza di vita e di missione. L’Anno Sacerdotale che stiamo celebrando conoscerà, in ogni Chiesa locale, proprio giovedì della prossima settimana – giovedì santo – una tappa particolarmente significativa sul fronte della coscienza di sé, in rapporto agli altri, alle rispettive comunità, e soprattutto in rapporto a Gesù Cristo, «il sempre chiamante». In un certo senso, potrà rappresentare il fulcro, ossia il punto di caduta dell’intero Anno Sacerdotale, il momento nel quale meglio cogliere quella «continuità sacerdotale» che, partendo da Gesù di Nazareth, si è presto esplicata lungo i secoli nei nostri territori, e fino ad oggi (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno della Congregazione per il Clero, 12 marzo 2010). Il tema dell’identità sacerdotale resta «determinante» per l’esercizio del sacerdozio ministeriale: in un’epoca come la nostra − «policentrica» e «polimorfa» e perciò stesso «incline a sfumare ogni concezione identitaria» come avversa al sentimento democratico − «è importante avere ben chiara la peculiarità teologica del ministero ordinato» (ib). Sarebbe bello che l’impegno profuso in questi mesi fosse coinciso, per ciascun confratello, con uno scavo attorno alle radici della propria vocazione, per riscoprirne la bellezza e rinforzare in lui la propria umanità: come diceva di recente il Papa, egli «deve vivere una vera umanità, un vero umanesimo; deve avere un’educazione, una formazione umana, delle virtù umane; deve sviluppare la sua intelligenza, la sua volontà, i suoi sentimenti, i suoi affetti; deve essere realmente uomo, uomo secondo la volontà del Creatore e del Redentore…» (Lectio Divina con i Parroci cit.). Non un disagiato, né uno scompensato, benché il clima culturale odierno non faciliti certo la crescita armonica di alcuno. Il sacerdote è un uomo che – non solo nel tempo del seminario – coltiva la propria umanità nel fuoco dell’amore di Gesù.

E in questo orizzonte la nutre, la pota, la orienta, diventando a quel punto capace di amare in maniera matura la vocazione donatagli. Ogni sacerdote è consapevole di essere stato preso per mano dal suo Signore e chiamato a stare con Lui come amico: per questo è vitale conoscere Dio da vicino, frequentarlo, accompagnarsi a Lui cuore a cuore. La celebrazione quotidiana della Messa, la preghiera regolare della Liturgia delle Ore e quella dei momenti più intimi e personali, l’adorazione eucaristica, la pratica del sacramento della penitenza, lo studio anche sistematico che permette di penetrare meglio le sfide del tempo, sono tutti elementi che vanno nell’unica direzione, quella della comunione stabile con Dio in Cristo Gesù (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno sul foro interno promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010). La secolarizzazione diventa l’ambiente di cui si coglie il portato, ma senza ingenuità o illusioni, per diventare sacerdoti di convinzione, sacerdoti capaci di autonomia pensante, senza lasciarsi sopraffare dall’estensione delle cose da sapere o da fare perché si punta sulla profondità, sulla sintesi più che sui dettagli, sulle arcate più che sulla decorazione. Un’insistente proiezione esterna, una parcellizzazione degli impegni, un attivismo esasperato non possono diventare l’ancoraggio della vita interiore; questa si nutre anzitutto nel rapporto con Dio, coltivato, preservato, amato. C’è un’industriosità del sacerdote che, se dapprima galvanizza e inebria, molto presto svuota e appesantisce.

L’apertura al mondo, ai fatti della vita, alla contemporaneità, non va scambiata con l’ingenua condiscendenza allo spirito del tempo, quasi dovesse tradursi in un’auspicabile e progressiva auto-secolarizzazione (cfr Benedetto XVI, Lettera cit., n. 4) Allora, l’intorpidimento dell’anima apparirà per quello che è, un inaridimento scaturito da auto-esenzioni circa i doveri del proprio stato. Essere preti è qualcosa di più di una semplice decisione morale, affidata ad una pur adeguata condotta di vita; è anzitutto una risposta d’amore ad una dichiarazione d’amore. La missione «non è una cosa aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa» (Lectio Divina con i Seminaristi cit.), e diventerà il nostro modo di essere, di porci fra gli altri, senza finti distacchi, ma anche senza ignorare le differenze. Si diventerà capaci di appassionamento, di com-passione, per soffrire con gli altri, e caricarsi addosso il patire del nostro tempo, il patire della nostra stessa comunità, senza tuttavia lasciarsene sopraffare. Serve per questo non concentrarsi sui propri limiti, «ma tenere lo sguardo fisso sul Signore e sulla sua sorprendente misericordia, per convertire il cuore, e continuare con gioia a lasciare tutto per Lui» (Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 7 febbraio 2010). Si scoprirà, a quel punto, che «la testimonianza suscita vocazioni» come recita il tema scelto per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni in calendario per il prossimo 25 aprile. C’è una sorta di contagio tra chi vive gratuitamente e gioiosamente il proprio essere prete e quanti attorno a lui si interrogano sul proprio destino, sulla propria personale chiamata, fuori dai burocraticismi e dalle mimetizzazioni indotte dal clima culturale. Siamo certi che come non si è accorciato il braccio di Dio, né affievolita la sua voce, così non ha perso trazione nei cuori di oggi il linguaggio del dono. C’è piuttosto una fascinazione esercitata dai testimoni che sarebbe sciocco deprezzare. L’accorrere sorprendente di tanta gente, in occasione di «ostensioni» – da poco si è svolta a Padova quella di Sant’Antonio, presto sarà la volta della Sindone a Torino – o per appuntamenti religiosi anche non eccezionali, è un fenomeno da trattare non con sufficienza né con snobismo. Occorre invece saperlo attraversare, per interpretarne le tracce, raccogliere segnali, purificare linguaggi.

In quest’ora delicata, una parola ci sentiamo in dovere di rivolgere a voi, amati Sacerdoti che fate il vostro dovere con fede, amore e dignità. Noi Vescovi, insieme al Papa (cfr Lettera cit. n. 10), onoriamo la vostra dedizione limpida e generosa per il bene autentico della gente, a cominciare dai bambini e dai ragazzi. Nessun caso tragico può oscurare la bellezza del vostro ministero e del sacerdozio che sacramentalmente ci unisce, né mettere in discussione il sacro celibato che ci scalda il cuore e ispira la vita. Nell'appartenenza radicale e fedele a Gesù noi sappiamo che la nostra umanità si realizza e diventa feconda nella paternità dello spirito. Non sentitevi mai guardati con diffidenza o abbandonati, e non scoraggiatevi; siate sereni sapendo che le nostre comunità hanno fiducia in voi e vi affiancano con lo sguardo della fede e le esigenze dell'amore evangelico.
4. Proprio la declinazione educativa del compito sacerdotale ci interessa in questo momento. I lineamenti del nuovo decennio che sono in gestazione, e prenderemo in esame nel corso di questo Consiglio Permanente in vista dell’approvazione all’ordine del giorno della prossima Assemblea, ci impongono una sottolineatura che valorizzi la riflessione in atto con l’Anno Sacerdotale. Pensiamo al grande tema dell’Apostolo quale padre che rigenera colui che vuole credere (cfr 1Ts 2,7.11; Gal 4,19; 2Cor 12,15, Fm 10). E in Rom 6,17-18 contrappone due condizioni esistenziali, evocando dapprima gli «schiavi del peccato», e poi i «servi della giustizia». Il passaggio da un modo di esistere all’altro è dovuto ad almeno due fattori: l’insegnamento come viene trasmesso e l’obbedienza compiuta dal cuore. La natura di questa operazione è identificata niente meno che con la categoria della liberazione: è un’esperienza vissuta dalla libertà e attraverso la libertà. Ebbene, facile è desumere da qui lo spessore che la Parola di Dio attribuisce alla dimensione educativa. Paolo parla di «cuore» che ubbidisce. Cioè non basta che l’insegnamento trasmesso venga assentito razionalmente in quanto ritenuto vero, bisogna che si acconsenta ad esso perché valutato affettivamente come qualcosa di desiderabile.

Ne discende che la predicazione della Parola di Dio non deve essere solo fedele alla verità, ma anche significativa per la persona. Una proposta su Cristo, che fosse poco significativa per il soggetto, sarebbe molto probabilmente incapace di ottenere l’assenso del cuore. Ecco allora l’educare, delicata operazione affidata non ad un prestigiatore ma a chi per vocazione conosce i segreti dell’animo umano: l’immagine di Dio lì impressa è incancellabile. Saperlo, facendovi conto, è la risorsa più importante. Non solo: il sacerdote è l’uomo della Parola, la quale ha in sé una potenza invincibile. Nella misura in cui è immessa nel processo educativo – al catechismo, in oratorio, nella scuola, ai campi estivi, insomma nella comunità cristiana – e la si serve per quello che è, senza spadroneggiarla e senza piegarla ai propri gusti, non può non produrre frutto. Allora il sacerdote-educatore saprà di essere colui che introduce alla conoscenza della realtà riconosciuta nel suo valore obiettivo, accompagnando nel contempo la persona verso la verità di ciò che è, e verso il suo senso. C’è bisogno che venga più sistematicamente esplicitata la dimensione educativa intrinseca alla carità pastorale, così che «una nuova visione» possa «ispirare la generazione presente e quelle future a far tesoro del dono della nostra comune fede» (Benedetto XVI, Lettera cit., n. 12). Mai l’investimento educativo può essere valutato con sufficienza, quasi fosse un’opzione storica minore, quella non solo meno importante ma anche meno incisiva. Per quel che ci riguarda, con il recente documento «Per un Paese solidale: Chiesa italiana e Mezzogiorno», abbiamo inteso affermare alla coscienza del Paese che educare è piuttosto una priorità ineludibile per affrontare problemi antichi e nuovi che sfidano la società, ed è la strada più redditizia e decisiva per far emergere in modo strutturato ed efficace le potenzialità di mente e di cuore in serbo al nostro popolo.

Al termine della settimana che oggi inizia, la domenica delle Palme, è in calendario la XXV Giornata mondiale della Gioventù, «iniziativa profetica» del grande Papa Giovanni Paolo II, dichiarato da poco «venerabile» e che i giovani nella loro spontaneità hanno da subito acclamato santo (cfr Benedetto XVI, Messaggio per la XXV Giornata mondiale della Gioventù, 22 marzo 2010). Noi Vescovi italiani siamo testimoni privilegiati del gran bene, anzi dei «frutti abbondanti» (ib) che questa intuizione ha generato nelle nostre Chiese particolari. Desideriamo che si continui con determinazione e creatività lungo questa strada, che non è mai ripetitiva perché deve coinvolgere le ondate sempre nuove di giovani che si affacciano alla vita. Il tema scelto e illustrato da Benedetto XVI: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», e che si riallaccia alle origini stesse della Giornata, suona davvero come l’indicazione più promettente per quell’Incontro mondiale, in programma a Madrid nell’agosto 2011, verso cui i nostri giovani sono già rivolti.

5. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Non raramente si affacciano alla cronaca del mondo eventi che per la loro imponderabilità, come per l’impatto che sono destinati ad avere tra le popolazioni, contengono in sé un poderoso invito alla conversione. Pensiamo ai fatti calamitosi che nell’arco di poche settimane sono accaduti prima ad Haiti e poi in Cile. Due terremoti di proporzioni disastrose, dagli esiti tuttavia parzialmente differenti per la diversa connotazione degli habitat investiti. Possiamo dire che in entrambe le circostanze la nostra gente è sembrata non poco turbata. Bisogna operare perché le emozioni vengano elaborate e approdino a posizioni più consapevoli, ad atteggiamenti ragionati, e infine a scelte coinvolgenti (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Protezione civile italiana, 6 marzo 2010). Nei drammi che scaturiscono da eventi naturali solitamente ci sono delle «lezioni» da apprendere, di ordine per così dire logistico, ed anche sul piano civico. Ma resta la quota parte di imponderabilità che va saggiamente ricondotta alla intrinseca precarietà della nostra esistenza, senza lasciarsi sedurre dalla «illusione di poter vivere senza Dio», per leggere piuttosto la storia dell’uomo e del mondo secondo quel ribaltamento di prospettiva suggerito dallo sguardo di Dio stesso (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 7 marzo 2010). C’è bisogno allora di conversione e di preghiera per raccogliere i messaggi intrinseci agli accadimenti, per maturare ogni volta comportamenti più congrui e solidali, in grado di creare sintonia con chi soffre, e per essere meno indegni nella domanda di intercessione.

Ebbene, mentre comincia qua e là a farsi largo la convinzione che la comunità internazionale debba attrezzarsi per rispondere in modo non improvvisato né episodico alle tragedie che si presentano in questa o quella parte del mondo, va sottolineato come la nostra comunità nazionale e la sua opinione pubblica in occasione degli eventi menzionati siano state in debita allerta, e certo sollecite negli interventi. Non di meno la nostra comunità ecclesiale ha prontamente reagito con stanziamenti sostenuti e poi rafforzati attraverso raccolte assai significative di mezzi indispensabili per offrire – in via diretta e attraverso la Caritas – l’aiuto che serve nell’immediato e quello, forse più meritorio ancora, del post-emergenza. I credenti, le loro famiglie, le nostre comunità continuino a sentire il morso della disperazione altrui e si facciano prossimi ai loro bisogni. L’aver noi, come popolo italiano, ripetutamente sperimentato in prima persona le conseguenze di dolore e disagi collegate alle calamità naturali, come l’essere tuttora sotto sforzo per il terremoto che un anno fa ha colpito l’Aquila e l’Abruzzo, mentre gravi smottamenti hanno, nell’ultimo inverno e fino ad oggi, colpito numerose località in particolare del Meridione, fa sì che non possiamo farci trovare mai estenuati, bensì attenti e solleciti quando un fratello è nel bisogno.

Ma c’è un’altra tipologia di situazioni dolenti, che ci interpella anzitutto sul piano interiore, ed è quella delle popolazioni tormentate perché sono calpestati i diritti umani fondamentali, primo dei quali la libertà religiosa. Nelle ultime stagioni si registra una recrudescenza degli attacchi ai cattolici. Non sono finiti ad esempio in India, paese in cui nonostante tutto la comunità cattolica cresce grazie alla stima di cui gode, ma dove ultimamente si è giunti a manifestazioni blasfeme dell’immagine di Gesù, così da umiliare e forse anche provocare i nostri fratelli di fede, già sotto tiro con chiese bruciate e sacerdoti e credenti fatti oggetto di persecuzione. Ma pensiamo anche agli scontri molto gravi avvenuti in Nigeria e in precedenza in Malaysia, in Egitto e in Algeria. Nelle ultime settimane, in vista delle elezioni locali, era tornata a salire la tensione in Iraq, e i cristiani sono scesi in piazza per manifestare la loro mite resistenza a fronte di incursioni condotte a loro danno. A motivo delle perduranti discriminazioni, costituiscono oggi una ancor più ridotta minoranza, senza tuttavia che possa mutare lo status di componente religiosa certo non estranea a quella regione, avendo lì il cristianesimo radici quasi bimillenarie.

La mitezza che contrassegna in generale la risposta cattolica non può essere però fraintesa: nessuno ha il diritto di farsi padrone degli altri in nome di Dio. Noi siamo effettivamente vicini a questi nostri fratelli di fede, solidali con il loro patire, ammirati della loro perseveranza, impegnati a far sì che la politica a livello internazionale voglia assumere con crescente autorevolezza iniziative urgenti ed efficaci per assicurare a tutti gli uomini, entro qualunque confine, il sacrosanto rispetto della libertà di credo e di culto. Ai missionari, alle suore, ai volontari laici che, come è accaduto anche di recente, di fronte a discriminazioni e violenze di ogni tipo non si staccano dalla terra in cui operano, va la nostra assidua vicinanza: sono nel cuore della nostra preghiera. Vogliamo, anzi, essere degni di loro, e per questo non cesseremo di interrogarci sul nostro vivere la fede, perché crescano in noi la testimonianza e l’annuncio evangelico nel segno di una gioia più limpida e di una convinzione più coraggiosa.

6. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5, 20): questo invito accorato vorremmo con affetto rivolgerlo specialmente al nostro Paese. Sappiamo bene che oggi c’è una certa allergia a parlare di conversione; e talora anche il semplice suggerimento finisce per suonare paradossalmente sgradito. Certo, la conversione, come l’auto-rinnovamento, è tra le decisioni più intime, che comprensibilmente suscitano pudore. Il fatto è però che una società non si rinnova per legge, o per qualche automatismo generale o in forza di un’indagine sociologica. La conversione è scelta personalissima, che nessuno può fare per altri. Ne risulta che una società si rinnova solo a condizione che più soggetti decidano
consapevolmente di farlo. Se uno invece passa la mano, e attende che altri facciano quello da cui egli si auto-esonera, allora davvero si finisce in una stagnazione etica che fatalmente indebolisce e logora l’intera convivenza. La nostra è una società vivace, e che in vari campi ha delle punte di eccellenza che sono motivo di comune soddisfazione; a dispiacere semmai è la rapidità con cui spesso ci si dimentica di quello che gioverebbe ricordare e sotto ogni latitudine concorre a formare il patrimonio tipico di ogni popolo. Nello stesso tempo, la nostra è una società molto sensibile, con un’alta propensione a immedesimarsi nei problemi come nei disagi degli altri. Siamo un popolo esuberante che, in un arco di tempo limitato, ha coperto un tratto lungo di strada in ordine al progresso, distanza magari che altri hanno impiegato assai di più a percorrere, ma che in questa sua corsa entusiasmante e talora persino affannosa, rischia di lasciarsi indietro regole e remore introiettate quando era più povero e meno evoluto.

Non so dire se la società italiana sarebbe nel suo insieme disposta ad accogliere da noi Vescovi una parola, anche una sola, peraltro umile, e comunque schietta. Se penso alle nostre singole città, e alla società che si esprime nelle singole diocesi, sarei indotto a immaginare senz’altro di sì. E a quel punto direi: sostiamo un attimo e proviamo a pensare. Pensare a noi stessi, a quello che eravamo, ed oggi – dopo esserci lanciati in una maratona incredibile, e aver raccolto non pochi risultati – rischiamo nonostante tutto di compromettere. Da più parti si parla di un declino che sarebbe incombente sul nostro amato Paese. Perché nei paragoni, che talora si avanzano, dove l’Italia è messa per l’uno o l’altro dei suoi parametri a confronto con altri contesti nazionali, si finisce puntualmente per concludere – magari con un sottile compiacimento intellettuale – che siamo in svantaggio? Si tratta di irriducibile pessimismo o di cronico snobismo? Rimestare sistematicamente nel fango, fino a far apparire l’insieme opaco, se non addirittura sporco, a cosa serve? E a sospingere verso analisi fin troppo crudeli, è l’amore per la verità o qualcos’altro di meno confessabile? O è più attendibile invece il fatto che stiamo progressivamente perdendo la fiducia in noi stessi, assumendo con ciò stati d’animo che finiscono col destrutturare la società intera? Quella energia morale che avevamo dentro ed ha consentito ad una nazione, uscita dalla guerra in condizioni del tutto penose, di ritrovarsi in qualche decennio tra le prime al mondo, quella forza vitale che fine ha fatto? Perché il vincolo che ci aveva legato nella stagione della ricostruzione post-bellica e del lancio del Paese stesso sulla scena internazionale, ed aveva retto nonostante profondi dislivelli sociali e serie fratture ideologiche, è sembrato da un certo punto in avanti non unirci più?

7. Ci sono tuttavia dei motivi di contingente quanto seria preoccupazione, dovuti in gran parte alla crisi economica internazionale, che sprigiona ora sul territorio i suoi frutti più amari. Mi riferisco in particolare alla realtà del lavoro, il lavoro che è «bene per l’uomo, per la famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e responsabilità» (Benedetto XVI, Discorso all’Unione degli Industriali del Lazio, 18 marzo 2010). Per un popolo abituato a far leva sostanzialmente sulla propria intraprendenza e sulla propria fatica, trovarsi spiazzato sul fronte dell’occupazione è una sofferenza acuta. In non poche aree assistiamo ad industrie che fermano la produzione. Dove la competizione internazionale già aveva ridotto i margini di guadagno, la gelata sugli ordinativi sembra far giungere al pettine tutti i nodi in un colpo solo. Alcune antiche debolezze si rivelano fatali. E quando poi le imprese industriali più consistenti ricorrono massicciamente alla cassa integrazione, ipotizzano ristrutturazioni o addirittura avviano chiusure, subito una corona di piccole aziende a cascata ne risentono. Rallentando i volani dislocati sul territorio, s’inceppano le imprese artigianali, ansimano i piccoli esercizi commerciali. I giovani che già costituivano la fascia di popolazione più in sofferenza perché meno garantiti e poco sussidiati nel loro tuffo verso la vita, oggi rischiano di demoralizzarsi definitivamente. Se sono meridionali tendono a trasferirsi al Settentrione, ma già è iniziato il fenomeno inverso, quello della gente del Sud che, perdendo il lavoro al Nord, torna a casa.

Mentre un numero crescente di giovani – del Sud come del Nord – guarda oltre il confine nazionale: un dinamismo interessante nella misura in cui non è unidirezionale e obbligato. Sappiamo che resiste da noi una cultura forte del lavoro ma anche dell’impresa: ci si riconosce nella fabbrica e se ne trae vincoli non semplicemente strumentali. I casi di suicidi verificatisi negli ultimi mesi tra i lavoratori minacciati dalla crisi, ma anche tra i piccoli imprenditori, in particolare del Nordest, che nell’impossibilità a far fronte agli impegni nei confronti dei propri dipendenti disperatamente non scorgono alternative diverse dal tragico gesto, che cosa dicono infatti, se non che si è dinanzi ad una coscienziosità tirata allo spasimo, fino ad essere inaccettabilmente indirizzata contro se stessi? Come Vescovi, ci scopriamo talora il terminale ultimo di una filiera di preoccupazioni: nessuno evidentemente ci carica di responsabilità che non possiamo avere, ma tutti o quasi finiscono ad un certo punto per rivolgersi a noi in nome di ciò che rappresentiamo. Ebbene, in questa veste, pur non disponendo di inedite soluzioni tecniche, avremmo un metodo di comportamento da ricordare, quello della responsabilità sociale, da esercitare anzitutto evitando la fuga dai problemi, e illudendosi di trovare riparo dietro a soluzioni unilaterali e drastiche. Nell’economia globalizzata infatti ci sarà sempre un altrove più conveniente, un territorio nel quale i costi sono minori e il ricavo più alto. Ma proprio la genesi di questa terribile recessione conferma che non ha senso ritenere la persona del lavoratore una variabile rispetto agli altri fattori di produzione. Un’impresa realizza davvero la propria missione quando riesce, grazie ad uno sforzo collettivo, ad un impegno ripartito tra i contraenti, a raggiungere i propri obiettivi industriali in concomitanza al benessere delle persone che vi lavorano e dunque del territorio e dell’ambiente in cui essa è inserita (cfr Benedetto XVI, Discorso ai Dirigenti e al Personale dell’Acea, 6 febbraio 2010).

Per questo risulta necessario, all’insorgere delle difficoltà, ricercare un dialogo inesausto tra le parti, ed esplorare tutte le possibili soluzioni, avendo come riferimento costante il vero interesse di quanti formano la comunità d’impresa. Le crisi non si superano tagliando semplicemente i posti di lavoro e arrendendosi alla logica della remunerazione di breve periodo, ma anzitutto sforzandosi di immaginare il nuovo, ricercando innovazione di prodotto insieme a strategie di sistema, in una parola perseguendo senza ingenuità ciò che da sempre connota il progresso autentico di un’economia. Siamo testimoni che questo sforzo coscienzioso ispira non pochi, ma è necessario si allarghi e, soprattutto, sia sostenuto da tutti.
L’accorato appello che da mille rivoli ci perviene, noi non possiamo – a nostra volta – esimerci dal presentarlo a imprenditori e sindacati, alle associazioni di categoria e alle camere di commercio, agli istituti bancari e alle pubbliche amministrazioni: oggi troppe famiglie sono in ansia. I problemi – chi non lo sa? –sono certamente complessi, per questo bisogna in coscienza non alzare mai bandiera bianca prima di aver esperito tutte, proprio tutte le vie che possono portare ad una ragionevole soluzione. Ciò va fatto territorio per territorio, attraverso la messa in comune delle competenze che lì sono in gioco, così che nessuna situazione critica deperisca nel disinteresse sociale. E per ottenere – allorché tutto è stato tentato – quegli ammortizzatori che permettono di non far sentire alcuno abbandonato dalla collettività. Resistiamo insieme, pensiamo insieme, industriamoci insieme. E insieme, dopo la crisi, ripartiamo più forti.

Su un altro fronte la nostra società è chiamata a interrogarsi per tempo, prima che altre situazioni critiche arrivino ad esplosione: quello di una fondamentale strategia di integrazione degli immigrati presenti sul territorio italiano. Dopo i fatti di Rosarno – a cui i confratelli Vescovi della Calabria hanno riservato parole chiare specie sullo sfruttamento criminale cavalcato dalle cosche – altre situazioni sono venute alla ribalta, come ad esempio a Milano, nei fatti incresciosi di via Padova, dopo che c’era stata purtroppo una vittima. Un altro ragazzo successivamente ha trovato una morte atroce, bruciato mentre dormiva in un campo rom della periferia milanese. Da varie parti ormai si riconosce che, tra le opzioni da perseguire avendo per obiettivo l’accoglienza dei nuovi arrivati, non possono più figurare le cosiddette «isole etniche». Noi Vescovi ci eravamo già permessi di dirlo in precedenti occasioni, e torniamo ora a ribadirlo con la fiducia che si voglia finalmente procedere attraverso una mappatura graduata delle diverse situazioni a rischio e si inizi subito ad agire con determinazione e lungimiranza, sapendo che la questione ha innegabili implicanze con la politica immobiliare e quella fiscale. Se si vuole evitare che una determinata zona di città (o del territorio) diventi, anche in breve tempo, un ambiente separato che dà il senso di estraneità a chi ci vive, occorre muoversi per tempo e attrezzarsi mediante un sapiente monitoraggio urbano che consenta per tempo iniziative di ricomposizione, così da mantenere ragionevolmente miscelate le provenienze e sufficientemente coesa la cittadinanza. Ma per questo è indispensabile una presenza sul territorio di figure di riferimento, educatori e assistenti sociali che, insieme a forze dell’ordine, garantiscano interventi preventivi, in grado tra l’altro di far rispettare il diritto alla famiglia che è proprio anche dei poveri. Nello stesso tempo, è indispensabile che dai quartieri e dalle parrocchie si dispieghino esperienze di animazione che possano configurare quella che l’Azione cattolica ha chiamato «una nuova alleanza civile» sul territorio. Nessuna persona ha il diritto di ritenersi superiore ad altre: gli immigrati sono donne e uomini come noi. L’uguaglianza, prima di essere un principio sancito dalla Costituzione, è una consapevolezza attinta da una cultura che ha potuto sedimentarsi grazie anche all’influsso esercitato lungo i secoli dal Vangelo.

Con l’occasione vorremmo anche ricordare la difficile situazione in cui versa una serie di strutture sociali e sanitarie di ispirazione cristiana dislocate sul territorio e preziose quanto ad assistenza specifica, specie dei meno abbienti. Chiediamo alle Regioni che il diritto costituzionale alla salute sia effettivamente tutelato collocando le pur necessarie riforme in un contesto di promozione del bene comune.
8. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20): è sul primordiale diritto alla vita che all’alba di questo terzo millennio l’intera società si trova a dover fare ancora l’esame di coscienza, non per caricare fardelli sulle spalle altrui, né per provocare aggravi di pena a chi già è provato, ma per il dovere che essa ha, per se stessa, di guardare avanti in direzione del futuro. E nonostante le apparenze o le illusioni, non le riuscirà di farlo se non schierandosi col favor vitae, sempre e particolarmente quando le condizioni siano contrastate, difficili, incerte. Da qualche tempo, nella mentalità di persone che si ritengono per lo più evolute, si è insediato un singolare ribaltamento di prospettive nei riguardi di situazioni e segmenti di vita poco appariscenti, quasi che l’esistenza dei già garantiti, di chi dispone di strumenti per la propria salvaguardia, valga di più della vita degli «invisibili». Come non capire che si consuma qui un delitto incommensurabile, e che lo si può fare solo in forza di una tacita convenzione culturale che è abbastanza prossima alla ipocrisia? Il rapporto, predisposto dall’Istituto per le politiche familiari a proposito dell’aborto in Europa, illustrato di recente a Bruxelles, forniva dati agghiaccianti: quasi tre milioni di bimbi non nati solo nel 2008, ossia ogni undici secondi, venti milioni negli ultimi quindici anni. E all’orizzonte nulla si muove che possa lasciar intravedere un qualsiasi contenimento di questa ecatombe progressiva, se si tiene conto che l’aborto ha ormai perso l’immagine di una pratica eccezionale e dolorosa, compiuta per motivi gravi di salute della madre o del piccolo, per diventare un metodo «normale» di controllo delle nascite. Intanto già è in incubazione un’ulteriore silente rivoluzione, compiuta grazie alla diffusione di nuovi metodi abortivi sempre più precoci che – variando la composizione chimica, a seconda della distanza di assunzione dal concepimento – hanno come effetto quello di «far scomparire» l'aborto, agendo nel dubbio di una gravidanza in atto che la donna sarà così in grado di coprire meglio, rispetto agli altri ma rispetto anche a se stessa.

Se venisse effettuato in casa, magari in solitudine, da problema sociale diventerebbe un atto di alchimia domestica, che non interseca più in alcun modo la collettività, neppure sul residuale versante sanitario. Dalla «pillola del giorno dopo» al nuovo ritrovato, chiamato sui giornali «pillola dei cinque giorni», è un continuum farmacologico che, annullando il confine tra prodotti anticoncezionali e abortivi, ha già indotto ad una crasi linguistica – si chiamano infatti contraccettivi post-concezionali – che sfuma la precisione del momento per l’eventuale feto, e dunque l’esatta contezza dell’atto, minimizzando probabilmente l’urto del gesto abortivo, anzitutto sul piano personale, e poi anche su quello cultural-sociale. L'embrione, se c'è, non potrà annidarsi, e la donna non saprà mai che cosa effettivamente sia successo nel suo corpo, se una vita c’era ed è stata eliminata oppure no. A completamento del fatto, queste pillole tendono a diventare un prodotto da banco, accessibile a tutti, anche alle minori. Diversa, di per sé, la logica della Ru486, che è prescritta quando c’è la certezza di una gravidanza in atto. Nella pratica reale però, l’aborto sarà prolungato e banalizzato, acquisendo connotazioni simboliche più leggere, giacché l’idea di pillola è associata a gesti semplici, che portano un sollievo immediato. E così la «rivoluzione» iniziata negli anni Settanta per sottrarre l’aborto alla clandestinità, al pericolo per la salute delle donne, al loro isolamento sociale, si chiude tornando esattamente là dove era cominciata, con il risultato finora acquisito dell’invisibilità sociale della pratica, preludio di quella invisibilità etica che è disconoscimento che ogni essere è per se stesso, fin dall’inizio della sua avventura umana. Domanda per nulla polemica: che cosa ci vorrà ancora per prendere atto che senza il principio fondativo della dignità intangibile di ogni pur iniziale vita umana, ogni scivolamento diviene a portata di mano?

In questo contesto, inevitabilmente denso di significati, sarà bene che la cittadinanza inquadri con molta attenzione ogni singola verifica elettorale, sia nazionale sia locale e quindi regionale. L’evento del voto è un fatto qualitativamente importante che in nessun caso converrà trascurare. In esso si trasferiscono non poche delle preoccupazioni cui si è fatto riferimento, giacché il voto avviene sulla base dei programmi sempre più chiaramente dichiarati e assunti dinanzi all’opinione pubblica, e rispetto ai quali la stessa opinione pubblica si è abituata ad esercitare un discrimine sempre meno ingenuo, sottratto agli schematismi ideologici e massmediatici. C’è una linea ormai consolidata che sinteticamente si articola su una piattaforma di contenuti che, insieme a Benedetto XVI, chiamiamo «valori non negoziabili», e che emergono alla luce del Vangelo, ma anche per l’evidenza della ragione e del senso comune. Essi sono: la dignità della persona umana, incomprimibile rispetto a qualsiasi condizionamento; l’indisponibilità della vita, dal concepimento fino alla morte naturale; la libertà religiosa e la libertà educativa e scolastica; la famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna. È solo su questo fondamento che si impiantano e vengono garantiti altri indispensabili valori come il diritto al lavoro e alla casa; la libertà di impresa finalizzata al bene comune; l’accoglienza verso gli immigrati, rispettosa delle leggi e volta a favorire l’integrazione; il rispetto del creato; la libertà dalla malavita, in particolare quella organizzata. Si tratta di un complesso indivisibile di beni, dislocati sulla frontiera della vita e della solidarietà, che costituisce l’orizzonte stabile del giudizio e dell’impegno nella società. Quale solidarietà sociale infatti, se si rifiuta o si sopprime la vita, specialmente la più debole?

9. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare da Dio» (2Cor 5,20): vorrei infine pensare queste parole rivolte a quanti concretamente operano sulla scena politica. E per farlo con qualche efficacia torna forse interessante riferirsi a quella linea di studi antropologici che suggeriscono di scorgere qualcosa di sacro in ciò che fonda ogni società, ossia in quel supporto profondo che si trasmette di generazione in generazione, e che dunque va al di là dei singoli individui, consentendo tuttavia agli stessi di vivere insieme. Per questo, l’esplicarsi nel tempo di questo legame – cioè la politica – ha a sua volta in sé qualcosa di nobile che richiede, da parte di chi vi si dedica, un approccio consono. È una visione che non sorprende i cattolici, che infatti sulla scorta del citato Messaggio quaresimale del Papa, sono chiamati quest’anno a chiedersi che cosa sia la giustizia. Essa esprime sempre un profilo di gratuità che supera quel dare a ciascuno il suo, che è il minimo, per renderla espressiva di una opzione incondizionata per il bene non solo dinanzi al bene ma anche dinanzi al male. Così sperimenta la giustizia chi, andando realmente oltre la mera logica distributiva, viene trattato secondo la sua dignità. Si situa qui, in modo cioè non solo contingente, l’idea alta di politica cui ci permettemmo di fare cenno nell’ultimo Consiglio Permanente: una politica capace di rendere onore all’uomo in quanto uomo, sempre cioè figlio di Dio. «Per entrare nella giustizia – avverte Benedetto XVI – è pertanto necessario uscire da quella illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è all’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre in altre parole […] una liberazione del cuore» (Messaggio cit.). Ecco ciò che, dinanzi a quel che va emergendo anche dalle diverse inchieste in corso ad opera della Magistratura, e senza per questo anticiparne gli esiti finali, noi Vescovi ci sentiamo di dover chiedere a tutti, con umiltà, di uscire dagli incatenamenti prodotti dall’egoismo e dalla ricerca esasperata del tornaconto e innalzarsi sul piano della politica vera. Questa è liberazione dalle ristrettezze mentali, dai comportamenti iniqui, dalle contiguità affaristiche per riconoscere al prossimo tutto ciò di cui egli ha diritto, e innanzitutto la sua dignità di cittadino. Bisogna che, al di fuori delle vischiosità già intraviste e della morbosità per un certo accaparramento personale, si recuperi il senso di quello che è pubblico, che vuol dire di tutti e di cui nessuno deve approfittare mancando così alla giustizia e causando grave scandalo dei cittadini comuni, di chi vive del proprio stipendio o della propria pensione ed è abituato a farseli bastare, stagione dopo stagione. C’è un impegno che, a questo punto, non può non riguardare proporzionatamente tutti, politici e cittadini, e che ciascuno nel proprio ambito è chiamato ad onorare: mettere fine cioè a quella falsa indulgenza secondo la quale, poiché tutti sembrano rubare, ciascuno si ritiene autorizzato a sua volta a farlo senza più scrupoli. Anzitutto non è vero che tutti rubano, ma se per assurdo ciò accadesse, cosa che non è, non si attenuerebbe in nulla l’imperativo dell’onestà. «Si dice – annota il Papa – “ha mentito, è umano”; “ha rubato, è umano”; ma questo non è il vero essere umano. Umano è essere generoso, è essere buono, è essere uomo della giustizia […]» (Lectio Divina con i Parroci cit.). Non cerchiamo alibi preventivi né coperture impossibili: sottrarre qualcosa a ciò che fa parte della cosa pubblica non è rubare di meno; semmai, se fosse possibile, sarebbe un rubare di più. A qualunque livello si operi e in qualunque ambiente. Per i credenti poi, questo obbligo assurge alla dignità di comando del Signore, dunque non si può venir meno.

Concludo ricordando un laico cattolico, Vittorio Bachelet, che giusto trent’anni or sono – il 12 febbraio 1980 – veniva proditoriamente ma anche illusoriamente ucciso sulla gradinata della sua Università. Egli diceva: «In questa fase di passaggio, in questa svolta della
civiltà alla quale ha voluto rispondere il Concilio Vaticano II nel cui solco fecondo noi abbiamo lavorato e ci impegniamo a lavorare, occorre soprattutto una forza spirituale che testimoni nella povertà dei mezzi umani la sua fedeltà a Cristo, in una carità aperta e libera verso tutti i fratelli facendosi trasparente al Suo volto. Però questo – aggiungeva – non si fa senza dare la propria vita: come ha fatto Padre Massimiliano Kolbe nel campo di concentramento, ma come ciascuno di noi può e deve fare ogni giorno perché un fratello, perché i fratelli abbiano un poco più di vita » (Vittorio Bachelet, Discorsi 1964-1973, a cura di Mario Casella, Ave 1980, pag. 259).

Conservando dinanzi agli occhi simili modelli, diamo avvio al nostro confronto per il quale voglio sperare che questa non breve – e me ne scuso – prolusione sia di qualche aiuto. L’ordine del giorno è quello che conosciamo, e su quella base affronteremo i singoli temi, affidandoci all’assistenza dello Spirito Santo, e all’intercessione di Maria Santissima, nostra madre, dei santi Francesco e Caterina, come dei Patroni delle nostre Chiese.

Grazie

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