SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Prima e dopo il Concilio Vat. II.
Il dibattito continua .

di Sandro Magister http://chiesa.espresso.repubblica.it/

LA VIA SOPRANNATURALE PER RIPORTARE PACE TRA PRIMA E DOPO IL CONCILIO

di Enrico Maria Radaelli

La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro "La bellezza che ci salva".

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d'Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella "Città della bellezza" che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.

Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini  che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. "Divinitas", 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel "munus docendi", di quel magistero, sospeso cinquant’anni fa.
    
Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: "Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio".
    
Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di "rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?". E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica "aletica", veritativa, insegnataci dalla filosofia.


Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?


Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: "Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso". Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità. Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse. 
    
Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente "religioso ossequio") se non "addirittura errate", come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, "e comunque non infallibili", e che dunque "possono essere anche mutate", sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma "solo" moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele. 
    
D'altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado). Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins ("quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est"), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del "munus", del magistero dogmatico.

La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il "munus" dogmatico è: 1) un dono divino, dunque 2) un dono da richiedere espressamente e 3) un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio. Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che "religioso ossequio", pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali "ab initio" già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste. Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.    


Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?


Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun "nuovo campo dogmatico", come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario "campo pastorale". Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d'anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo "Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta") furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della "théologie nouvelle" come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull'indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio "Summorum Pontificum". "Lex orandi, lex credendi": se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos'è allora?   

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è "tutti i giorni" sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 ("Portæ inferi non prævalebunt") e di Matteo 28, 20 ("Ego vobiscum sum omnibus diebus") e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo. 

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il "Novus Ordo Missæ" in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il "corpus theologicum" posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro "La bellezza che ci salva"), restando così tutte in pericoloso e "fragile borderline tra continuità e discontinuità" (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.


Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?


Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di "Iota unum" definisce "la legge della conservazione storica della Chiesa", ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale "la Chiesa non va perduta nel caso non 'pareggiasse' la verità, ma nel caso 'perdesse' la verità". E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d'anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo. 
 
Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – "lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra" negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell'arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio "Gaudet mater ecclesia" – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”. Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua "conservazione storica".

In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d'anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse. 

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò "deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè 'l'‘insegnamento educativo alla retta dottrina' – deve avere" (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di "omissione della dogmaticità propria alla Chiesa" (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento "favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto 'pastorale', che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli" (pp. 67s). 
      
Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo "munus docendi", facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come "habitus" del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: "trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo") l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.

Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.


Per concludere, una proposta


Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.

Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini "fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è", l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino "munus docendi" nella sua pienezza.

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Il libro di Enrico Maria Radaelli "La bellezza che ci salva" (prefazione di Antonio Livi, 2011, pp. 336, euro 35,00) può essere richiesto direttamente all'autore (enricomaria.radaelli@tin.it) o alla Libreria Hoepli di Milano (www.hoepli.it).

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POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI FRANCESCO ARZILLO


L'appello del professor Enrico Maria Radaelli, accorato e sofferto, suscita simpatia ma anche qualche perplessità sia di contenuto sia di metodo.

Partirei dalla coda, ossia dai tempi. Radaelli pone l'anno 2015 quale orizzonte temporale di riferimento per un pronunciamento di carattere dogmatico sulle questioni pendenti. Tuttavia egli richiama quale esempio la proclamazione dogmatica dell'Immacolata, per la quale la Chiesa ha invece atteso non pochi secoli. Gli storici del dogma conoscono le resistenze dei domenicani, che solamente nell'Ottocento furono definitivamente superate: il plurisecolare lavoro teologico e spirituale favorì in tal modo una proclamazione quasi unanimemente condivisa nella Chiesa.

È da ammirare questo modo di procedere, che fa della Chiesa cattolica – per dirla paradossalmente – l'opposto di quella monarchia autoritaria che non pochi tra i non cattolici immaginano. Una cosa è infatti il potere del Magistero supremo, un'altra cosa è la questione del modo e dei tempi del suo esercizio, che sono soggetti a ovvi canoni prudenziali.

C'è quindi da chiedersi: se ci sono voluti secoli per una proclamazione dogmatica in un contesto caratterizzato ancora da una certa omogeneità di linguaggio e di formazione teologica, come si può pensare che le odierne dispute possano risolversi con atti dogmatici nel giro di pochi anni, in un contesto di radicale pluralismo culturale ed epistemologico? La definizione dogmatica presuppone infatti, di regola, una preparazione niente affatto semplice.

La linea di Benedetto XVI appare diversa: seminare – come nel caso del ripristino del rito antico – e attendere che la semina porti frutto a suo tempo.

Un secondo punto. Si potrebbe di certo – dopo attenta indagine – riconoscere che alcune delle nuove dottrine conciliari e postconciliari siano collocate nel II livello, come sostiene il padre Giovanni Cavalcoli. Ma anche se ciò non fosse, la cosa non dovrebbe turbare più di tanto il fedele cattolico, anche se teologo. È bene ribadire che lo Spirito Santo non assiste i pastori solamente nel momento della definizione (di I o di II livello, per esprimersi secondo la nota scala di durezza richiamata dal professor Radaelli). Lo Spirito li assiste sempre, anche nei pronunciamenti di III livello, ai quali, come Radaelli stesso riconosce, è dovuto un "religioso ossequio dell'intelletto e della volontà" (art. 752 del codice canonico).

La necessità di questo assenso anche interno è il punto più trascurato, oggi, sia dai neomodernisti sia dai tradizionalisti. Il fatto che si tratti di pronunciamenti non irreformabili non significa che i fedeli non debbano seguirli come espressione della via più sicura. Ciò non esclude la possibilità che le persone competenti sollevino qualche dubbio nelle forme e nei modi propri, tali da non turbare l'ordinato svolgimento della vita ecclesiale. Ma ciò non può di certo comportare l'instaurarsi di magisteri paralleli, neppure sul fronte tradizionalista: effetto che sarebbe paradossale, dopo le giuste polemiche contro il consolidato magistero parallelo dei teologi progressisti sui mass-media.

Un terzo punto, infine. Il bel dibattito in corso su www.chiesa e sul blog Settimo Cielo dimostra che è possibile approfondire la portata dell'ermeneutica della continuità solamente entrando nel merito dei singoli problemi. La discussione sulla libertà religiosa lo ha rivelato assai chiaramente. È evidentemente fruttuoso lo sforzo volto a capire e a individuare esattamente il nocciolo che attiene all'essenza della dottrina sotto la mutevolezza degli accidenti storici: fermo restando, ovviamente, che questo nocciolo ci deve essere e deve essere mantenuto fermo, per evitare il rischio di cadere nel relativismo.

Questo esame delle dottrine "al microscopio", ma anche "al telescopio" della profondità storica, riserverebbe piacevoli sorprese, nel senso auspicato dall'ermeneutica della continuità. Esso potrebbe mostrare che lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa cinquant'anni fa. E che non è certo venuta meno la promessa del Signore:  "Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28, 16-20).

Roma, 16 giugno 2011

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POST SCRIPTUM 2 / LA REPLICA DI GIOVANNI CAVALCOLI



Caro professor Radaelli,
    
ho letto con molto interesse le sue considerazioni e le sue proposte circa l’autorevolezza delle dottrine nuove del Concilio Vaticano II, che lei pone, con dom Basile Valuet, al III grado, mentre io, almeno per alcune, la porrei al II.

Il III grado contiene sia dottrine "de fide et moribus" che disposizioni pastorali. Qui il Magistero, trattando materia di fede o prossima alla fede, non intende definire che quanto insegna è di fede, per cui non definisce se si tratta di dottrine definitive o infallibili oppure no. La dottrina della fede è di per sé è infallibile perché assolutamente e perennemente vera, ma qui la Chiesa, pur trattando di materia di fede o prossima alla fede, non chiede, come Lei ben riconosce, un vero assenso di fede, ma un semplice "ossequio religioso della volontà" per il fatto che qui la materia trattata non appare con certezza essere di fede. Questo ovviamente non vuol dire che possa essere sbagliata. 

Viceversa, al II grado la Chiesa richiede un vero e proprio atto di fede, benchè non si tratti ancora della fede divina e teologale con la quale aderiamo alle dottrine del I grado, che sono i veri e propri dogmi definiti. La fede richiesta al II grado si chiama "fede ecclesiastica" o anche semplicemente "cattolica" ed è quella fede che abbiamo nell’infallibilità del Magistero della Chiesa in quanto assistito dallo Spirito Santo. 

Qui aderiamo con la fede, perchè qui appare con chiarezza, magari per mezzo di opportune dimostrazioni, che si tratta di materia di fede e, se si tratta di dottrine nuove, è possibile mostrarle come chiarificazione, esplicitazione o deduzione di o da precedenti dottrine definite o dati rivelati. È questo il caso delle dottrine nuove del Concilio, se non tutte, almeno di alcune, le principali, come per esempio la definizione della liturgia, della rivelazione, della Tradizione o della Chiesa.

Quanto alla "pastoralità" del Concilio, è vero, è stato un Concilio pastorale, ma non solo pastorale, bensì anche dottrinale e addirittura dogmatico: basterebbe citare il titolo di due suoi documenti, chiamati appunto "Costituzioni dogmatiche". Questo i papi del postconcilio lo hanno detto più volte, anche se hanno detto con altrettanta chiarezza che il Concilio non ha definito dichiaratamente o esplicitamente nuovi dogmi, quindi è indubbio che la sua dottrina non si pone al I grado.

È importante questa distinzione tra il dottrinale e il pastorale, perché, quando un Concilio presenta un insegnamento dottrinale, attinente benchè indirettamente alla Rivelazione, non può sbagliare. Anche se si tratta di dottrine nuove, non può tradire o smentire la Tradizione. Viceversa, le direttive o disposizioni di carattere pastorale o lo stesso stile pastorale di un Concilio non sono mai infallibili, a meno che non si tratti di contenuti di fede concernenti l’essenza dell’azione pastorale, ed anzi sono normalmente mutevoli e rivedibili, possono essere meno opportune o addirittura sbagliate, per cui devono essere abrogate. Questa può essere la "paglia" del III grado, ma non certo eventuali pronunciamenti dottrinali! Questi, accostati al "fuoco" del dogma, splendono di maggiore bellezza!

Anche certe disposizioni pastorali del Concilio potrebbero essere "paglia". Ed anzi, secondo me e non solo secondo me, lo sono state e lo sono per il fatto che, messe alla prova dei fatti, dopo quarant’anni, richiedono di essere riviste o corrette per i cattivi risultati che hanno dato. Mi riferisco per esempio a quanto anche lei dice: l’eccessiva indulgenza del Magistero nei confronti degli errori o l’eccessivo ottimismo nei confronti del mondo moderno, nonché l’eccessiva esaltazione dei valori umani e la debole esaltazione dei valori cristiani, soprattutto cattolici. 

Ciò ha consentito la penetrazione dappertutto, anche nella gerarchia, di queste tendenze, ulteriormente esasperate da una ben concertata macchina pubblicitaria internazionale organizzata dal centro-Europa (per esempio la rivista "Concilium"). I vescovi, come osservò a suo tempo padre Cornelio Fabro, ne restarono intimiditi, sicchè oggi è assai difficile liberarsi da questa situazione, perché chi dovrebbe intervenire è egli stesso connivente con l’errore. 

Altro errore pastorale del Concilio è stato quello di indebolire il potere del papa rafforzando eccessivamente quello dei vescovi, col risultato che si è verificata quella "breviatio manus" del papa, della quale parlava Amerio: il pontefice è rimasto isolato nello stesso episcopato. Ovviamente, grazie all’assistenza dello Spirito santo, egli conserva ed applica il suo ruolo di maestro della fede e nemico dell’errore; ma purtroppo spesso gli interventi della Santa Sede in questo campo – che non mancano affatto – hanno scarsa per non dire scarsissima eco nell’episcopato e fra i teologi, quando a volte non si hanno addirittura delle opposizioni, ora subdole, ora sfrontate.
 
Su questa materia occorre recuperare un certo stile precedente il Concilio, che portava buoni risultati, ovviamente senza cadere in certi eccessi di severità e di autoritarismo del passato. I papi del postconcilio sono papi crocifissi, abbandonati come Cristo dai suoi. Altro che "trionfalismo"! È uso dei prepotenti fare le vittime.

Sono d’accordo con lei nel sostenere o meglio nel constatare con Amerio che dall’immediato periodo postconciliare a tutt’oggi il Magistero dice sì la verità – e come non potrebbe? – ma non la dice tutta. Tace alcune verità per un eccessivo timore dei non-cattolici e di non apparire abbastanza moderno. Le preoccupazioni ecumeniche, e peraltro di ecumenismo troppo pacifista e accondiscendente, sembrano prevalere sul dovere di evangelizzare e di correggere chi sbaglia, invitandolo all’unità "cum Petro e sub Petro".

Occorre allora recuperare verità dimenticate, delle quali dò solo qualche esempio, sapendo bene, con lei, di sfondare una porta aperta: il valore realistico della verità, il valore intellettuale-concettuale della conoscenza di fede, il valore sacrificale, espiativo e soddisfattorio della redenzione, la natura e le conseguenze del peccato originale, la congiunzione della giustizia e della misericordia divine, gli attributi divini dell’impassibilità e dell’immutabilità, la distinzione fra natura e grazia, la predestinazione, l’esistenza di dannati nell’inferno, la possibilità di perdere la grazia col peccato mortale, l’esistenza dei miracoli e delle profezie, il dovere di lavorare per la conversione dei non-cattolici al cattolicesimo.

Vorrei dirle, però, caro professore, che non deve credere che dottrine conciliari come quelle della prospettiva universale della salvezza, del dialogo con la modernità, dell’ecumenismo, della libertà religiosa o delle verità contenute nelle altre religioni contrastino con le precedenti verità, anche se si tratta di dimostrare la continuità. Si tratta solo di una migliore conoscenza o di aspetti nuovi di quelle medesime verità che vengono insegnate in quelle dottrine.

Vorrei dire inoltre che oggi la debolezza del papato non dipende da difetti personali dei singoli papi, ma è un difetto istituzionale ("pastorale") introdotto o quanto meno consentito dallo stesso Concilio. Forse per rimediare a tale difetto occorrerà un altro Concilio. Del resto sempre nella storia un Concilio ha dovuto rimediare ad errori commessi da un Concilio precedente. Per questo mi pare francamente ingiusta l’accusa che lei fa ai papi del Concilio e del postconcilio, tra i quali abbiamo due beati e un servo di Dio, di "aver peccato contro la fede e la carità" nella conduzione del Concilio e del postconcilio.    La loro "debolezza" non è colpa loro; sono le stesse istituzioni che non mettono nelle loro mani gli strumenti sufficienti per far valere la loro autorità.

Riconosco inoltre che anche lo stesso linguaggio "pastorale" dei documenti dottrinali non brilla sempre per chiarezza e precisione. Qui ne hanno approfittato i modernisti per interpretare a loro modo questi testi, con risultati disastrosi dal punto di vista dottrinale e morale. Bisognerebbe qui, come ha proposto di recente l’arcivescovo Atanasio Schneider, che il Santo Padre emanasse un sillabo degli errori di interpretazione delle dottrine del Concilio. Inoltre io ritengo che sarebbe bene che il papa presentasse le dottrine vincolanti (siano di II o siano di III grado) sotto forma di "canoni", come è sempre usato nei Concili. Questo metodo, come dimostra l’esperienza, dà chiarezza ed impedisce di giocare sull’equivoco e consente eventuali opportuni provvedimenti canonici.

Dopo studi quarantennali, mi sono fatto la convinzione che la forma più grave di modernismo che oggi bisogna eliminare, anche per l’influsso e prestigio che possiede in molti ambienti, è quella rahneriana. L’operazione non sarà facile, ma è necessaria, se vogliamo fermare l’attuale processo di corruzione della fede e dei costumi, anche se ovviamente esistono altre cause di questa decadenza o falso progresso. Si tratterà di un’operazione chirurgica dolorosa, complessa e radicale, perché il male ha preso radici e nell’operare il rischio è quello di ledere organi vitali. Ma per il bene della Chiesa dev’essere fatta e non va ulteriormente procrastinata.
 
Si potrà condurre l’operazione scaglionandola nel tempo, come si fa in interventi chirurgici complessi, ma la cosa dev’essere condotta in modo inflessibile e sistematico, succeda quel che succeda. Cristo, per fondare la Chiesa ci ha rimesso la vita: e noi per salvarci non dobbiamo fare qualche sacrificio, non dobbiamo vincere forze avverse? L’importante è combattere con l’apparente Sconfitto che in realtà è il Vincitore.    

Per quanto riguarda la "continuità" delle dottrine nuove con quelle antiche, della quale ci hanno sempre assicurato i papi del postconcilio, il buon cattolico deve credere al papa sulla parola e non avere diffidenze, come fanno i lefebvriani, che accusano i papi di volerli circonvenire. Indubbiamente questa continuità non è sempre così perspicua, ma starebbe ai teologi dimostrarla con un serio confronto di testi magisteriali fra quelli del preconcilio, quelli del Concilio e quelli del postconcilio.

È possibile dimostrare che la "novità" non è rottura, non è caduta nell’errore, non è smentita della Tradizione, ma sviluppo omogeneo della Tradizione, migliore conoscenza della medesima immutabile verità della Parola di Dio consegnata una volta per tutte da Cristo alla sua Chiesa. Bisogna ricordarsi che esiste ed è sempre esistito un progresso dogmatico, ossia una sempre migliore e più esplicita conoscenza delle medesime verità "eodem sensu eademque sententia".

Ciò che occorre evitare e contro cui metteva in guardia san Pio X, è la concezione modernista del progresso dogmatico, fondata sull’idea di una mutabilità della verità di fede: un’eresia che è propria anche dei modernisti dei nostri giorni. Non è la verità di fede che cambia: essa resta sempre la stessa ("veritas Domini manet in aeternum"); è la nostra conoscenza che "muta", nel senso che progredisce nel tempo per l’assistenza dello Spirito Santo, che "conduce alla pienezza della verità". Essere moderni non vuol dire essere modernisti. Il sano tradizionalismo non è restare indietro, ma andare avanti.

Conosco bene la sua fede di cattolico, appresa dal suo maestro Romano Amerio, che la Chiesa è indefettibile maestra di verità e non potrà essere vinta dal potere delle tenebre. Apprezzo molto il taglio "estetico" col quale lei contempla la bellezza della verità cattolica. Ripeto con lei: la Bellezza sarà la salvezza del mondo.

Fr. Giovanni Cavalcoli, OP

Bologna, 17 giugno 2011

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