SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Fine-vita . Ecco perché dopo Eluana serve una legge

Gabriele Toccafondi-giovedì 10 marzo 2011- ilsussidiario.net © Riproduzione Riservata. 

Alla Camera ha preso il via la discussione sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). Colpisce che la legge sia poco conosciuta soprattutto dagli stessi parlamentari, ma ancor di più sorprende che da angolature e convincimenti opposti in molti affermano: meglio nessuna legge che questa legge. Antonio Socci: non stravolgiamo questa legge o "perderò" mia figlia .

Sorprende perché forse non si comprende che questa legge è quasi obbligata dopo la sentenza definitiva del caso Englaro e dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale in merito ai ricorsi, una sentenza che ha creato una strada verso una forma di eutanasia che altri possono agevolmente percorrere. Sorprende perché senza una “regola”, che in qualche modo parta dalle dichiarazioni di volontà del paziente, la stessa legge sarebbe praticamente nulla, perché le sentenze e il pronunciamento della Corte Costituzionale obbligano il legislatore a partire proprio dal rispetto delle dichiarazioni di volontà. Sorprende, infine, perché l’alternativa sarebbe l’anarchia delle sentenze di singoli tribunali. È un dovere fare una legge tenendo conto dei paletti imposti dal caso Eluana, questa è la realtà: tutto il resto è immaginato e idealizzato, ma non corrisponde alla realtà.

Forse è il caso di ripercorrere quanto accaduto negli ultimi tre anni nel nostro Paese, perché una cosa è chiara: nessuno voleva fare una legge su questo tema, ma dopo il caso Englaro è divenuto doveroso. Con il caso di Eluana, si è messa in pratica anche in Italia una forma di eutanasia, si è deciso che la libertà possa significare “libertà di morire”, si è sentenziato che si possa intraprendere un percorso che porti a un verdetto sulla vita e soprattutto su una vita definita imperfetta, attestando per legge o sentenza quale possa essere il livello non più dignitoso per una vita.

Attualmente, in Italia sono circa 3000 le persone in stato vegetativo, sono decine i casi pronti a fare il percorso nei tribunali italiani e sono migliaia le dichiarazioni di volontà depositate da notai, comuni ed enti locali, documenti che qualche associazione è già pronta a portare in tribunale. Con la sentenza Englaro si è creato un precedente secondo il quale le proprie volontà possono essere ricostruite o desunte addirittura dallo “stile di vita”. Il rischio è quello di un’anarchia giudiziaria e non a caso chi parla di eutanasia sta chiedendo a gran voce di non fare questa legge.

Questo testo di legge è chiaramente un argine al ripetersi di casi come quello di Eluana. Ripeto: è un argine, con la consapevolezza che la violenza dell’acqua può prevalere. Ma per questo si fanno gli argini È una legge che dice chiaramente “no” all’eutanasia e “no” all’accanimento terapeutico (art. 1 e art. 7). È una legge che prevede un’alleanza e un rapporto di fiducia tra medico e paziente (art. 2) e in questo vuole intendere chiaramente che nessun soggetto esterno potrà interpretare le volontà del paziente rispetto alle cure, che valuterà insieme al proprio medico.

Sulla scia della sentenza, e del precedente Englaro, sono previste delle Dat che contengono alcuni punti fermi (art. 3 e art. 4): la Dichiarazione assume rilievo quando è certa, scritta, firmata, non è quindi più possibile ricostruire o immaginare le dichiarazioni di volontà. Assume rilievo quando viene accertato che il paziente non sia più capace di comprendere, quindi se è certa l’incapacità. Ha validità di 5 anni, e quindi la volontà deve essere espressa e confermata. Deve essere inserita nella cartella clinica. Alimentazione e idratazione non sono oggetto di Dichiarazioni e non possono essere equiparate a terapie mediche, tranne il caso in cui non risultino più efficaci nel fornire fattori nutrizionali.

In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato, la Dichiarazione non si applica (art. 4), il medico applica il principio di inviolabilità della vita umana e della tutela della salute, secondo principi di precauzione, proporzionalità e prudenza (art. 7). Il medico curante ha un ruolo centrale sia nella fase di informazione costante al paziente cosciente, sia in seguito, quando lo stesso si trova nell’incapacità permanete di comprendere e quindi subentra la Dichiarazione di trattamento. In questo caso al paziente subentra il fiduciario da lui nominato (art. 6), che sarà l’unica persona autorizzata a interagire con il medico. In caso di controversia tra medico curante e fiduciario, la questione viene sottoposta a un collegio di medici (art. 7).

L’alternativa è l’anarchia delle sentenze di qualche tribunale che più che “accompagnare alla morte” determina la morte per legge, togliendo acqua e cibo a chi non aveva mai detto di voler morire ed era amorevolmente accudito. Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”? La sospensione dell’alimentazione di Eluana è stata un omicidio, così come è omicidio quello che qualche associazione e qualche deputato dichiarano nella loro volontà di aprire all’eutanasia. La questione è poi aggravata dal fatto che si è voluto impedire l’esercizio della carità, perché c’è chi si stava prendendo cura di Eluana e, come dichiarato pubblicamente, avrebbe continuato gratuitamente a farlo. Una disponibilità che vale anche per tanti altri casi. 

La storia del nostro popolo è un’altra. La storia della medicina è progredita quando si è cominciato ad assistere gli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura della città o eliminati. Chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro uomo. La stessa storia degli ospedali nasce da questo. Una storia che adesso fa una brusca inversione.

Il caso Eluana, e il dibattito su questa legge, ci mette davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. «Persino i capelli del vostro capo sono contati». Rifiutare questa evidenza vuol dire rifiutare la realtà e chi rifiuta la realtà rifiuta di vivere.

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di : redazione-www.denaro.it

La tesi di fondo di un volume del vicepresidente del Senato, Domenico Nania (Il testamento biologico. La terza via, Prefazione di Gianni Maria Flick, Koinè nuove edizioni, Roma 2009) appare chiara agli occhi del lettore: “L’ordinamento giuridico deve prendere atto che una persona può rinunciare alla vita se e quando vuole, purché questa scelta sia solo sua, e dove e come vuole, purché non coinvolga altri” (p. 49), dunque neppure il medico. In altri termini, la persona direttamente o attraverso un fiduciario, da nominare secondo Nania obbligatoriamente, ha, tra le altre decisioni e possibilità dell’ordinamento, anche il “rifiuto libero, lecito e responsabile” (p. 112) delle cure erogate dal Ssn, con una sola eccezione, presente peraltro anche nel testo del relatore Calabrò, che riguarda i progressi scientifici intervenuti dopo le Dichiarazioni anticipate (Dat). Progressi e scoperte che “lascino presumere un ragionevole recupero dalla malattia o nella qualità della vita del paziente” (p. 112).

In sostanza, in attesa di una norma, da più parti si cerca già di prevedere cosa fare, attraverso il proprio amministratore, in caso di malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, malattia che costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione. In presenza di queste condizioni, si dispone, ora per allora, per esempio, di non essere sottoposti ad alcun trattamento terapeutico, con particolare riguardo a rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusione, terapia antibiotica, ventilazione, idratazione o alimentazione forzata e artificiale. Se la Costituzione italiana sancisce l’inviolabilità della libertà della persona a disporre del proprio corpo anche per quanto concerne la tutela della salute come diritto fondamentale di fronte alle proposte di trattamento – argomenta Nania –, si può anticipatamente consegnare ad un amministratore il compito di attuare le proprie libere determinazioni, anche se restano ancora alcuni dubbi giuridici sulla cosiddetta non attualità del momento in cui dispone ora per allora.

Ma cosa avviene sul piano parlamentare nella produzione di legge?

Nell’ottobre 2008 il Senato ha avviato l’esame, concluso in prima lettura il 26 marzo 2010, del testo unificato di varie proposte di legge recante disposizioni sul consenso informato e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Nel corso del dibattito parlamentare non sono mancate prese di posizione varie e contrastanti tra i diversi schieramenti politici e anche all’interno degli stessi, frutto di differenti concezioni etiche e giuridiche.
Il provvedimento è stato esaminato, in sede referente, dalla XII Commissione affari sociali della Camera che ne ha concluso l’esame il primo marzo scorso. Conclusa la fase della discussione, la Commissione ha adottato come testo base per il seguito dell’esame il testo della proposta di legge n. 2350, approvata dal Senato, che ha subito varie modifiche a seguito dell’approvazione di emendamenti. Il provvedimento è ora all’esame della Camera.
Certo, ci ricorda Nania, lo Stato deve darsi una legge sulle Dat, “purché si tratti di dichiarazioni lecite e rispettose dei principi costituzionali” (p. 108), anzi la formazione alla luce del testo costituzionale sarebbe appunto questa “terza via”, via media (come tutte le terze vie) tra opposti estremismi laici e cattolici, troppo sommariamente ascritti come coloro che sostengono la legalizzazione del suicidio assistito (i laici cosiddetti “più spinti”), o come coloro che sulla base di un valore-vita ritenuto “non negoziabile” ne concludono che togliere alimentazione e idratazione a un paziente significa togliere la vita (i cattolici).
L’orizzonte costituzionale sembra a Nania l’argine giusto non tanto per mediare tra posizioni per loro natura, come scrive tra l’altro Gianni Maria Flick, dilemmatiche, ma quasi per scavalcare le contrapposizioni insanabili e produrre “una legge che perimetri la materia del contendere” senza però andare “sul piano inclinato che porta verso la legittimazione dell’eutanasia” (p. 15).

Ma vi sono alcuni presupposti del ragionamento di Nania, che meritano indugio e discussione.

Primo. Il Comitato Nazionale per la Bioetica, da organo “indipendente eticamente”, si è trasformato in un organismo oscillante che procede per pareri, sullo stesso oggetto, non coerenti tra loro ma dipendenti dalla maggioranza ideologica interna, ora cattolica, ora invece laica. Secondo Nania, l’eventuale desiderio “suicida” del paziente (per esempio per inanizione a seguito del rifiuto di acqua e cibo) non può essere assistito o sostenuto dalla struttura sanitaria o da un medico.

Secondo. Il medico è o non è un erogatore di presidi possibili per la tutela della salute o, tutt’al più, di terapie per alleggerire o palliare la sofferenza di certi stati patologici? Se è questo, egli, piuttosto che decidere o tener conto dei “desideri” del paziente, deve proporre, in scienza e coscienza, le diverse più efficaci e sicure terapie esistenti per la risoluzione di una patologia e, in caso di inguaribilità, per palliare, anche farmacologicamente, lo stato estremo di vita in malessere patologico. Ma le sue restano “prescrizioni” o “proposte”?

Terzo. Il consenso informato è sinonimo di una nuova modalità non paternalistica di allearsi con il paziente. Le Dat sono espressione della volontà del paziente di cui i sanitari terranno conto nelle proprie autonome ponderazioni? Sono semplici desiderata di adesso certamente superati dalla tecno-scienza del futuro? Sono desideri da eseguire come nell’esecuzione testamentarie del paziente defunto? In merito, Nania ricorda che la stessa Convenzione di Oviedo, all’articolo 9, parla di desideri che saranno tenuti in considerazione, quindi presupporrebbe “che non sono direttive da eseguire, ma espressioni della volontà del paziente che in ogni caso non possono sfociare nell’eutanasia” (p. 88).
Quarto. Viene suggerita l’incentivazione di proposte terapeutiche analgesiche, sedative e palliative. Tuttavia, col federalismo, anche fiscale, sempre meno soldi ad hoc ci saranno per quelle Regioni che non rispetteranno i criteri di appropriatezza della cura del dolore e i requisiti minimi per accreditare strutture di cure palliative e terapia del dolore.

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