SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
La donna e la rivoluzione antropologica dell'Occidente.

fonte : Anna Bono -Reponsabile del Dipartimento Sviluppo e politiche femminili del Cespas, Centro Europeo di Studi su Popolazione, Ambiente e Sviluppo- www.svipop.org

Le condizioni di vita dell’umanità differiscono nettamente a seconda che si considerino i paesi industrializzati e quelli convenzionalmente definiti "in via di sviluppo".

Un dato per tutti basta a mostrare l’ampiezza del divario: la speranza di vita alla nascita, che è uno dei tre fattori utilizzati dalle Nazioni Unite per elaborare l’Indice di sviluppo umano. Nei primi sfiora ormai gli 80 anni mentre nei secondi può essere addirittura meno della metà. In Africa, per esempio, dopo aver raggiunto i 51 anni all’inizio dello scorso decennio, la speranza di vita alla nascita ha incominciato a diminuire e attualmente è di circa 50 anni, con picchi molto inferiori come la Sierra Leone (34 anni), lo Zambia (33 anni), il Sudan (34 anni). Bisogna tornare indietro di quasi due secoli per trovare analoghi valori in Europa Occidentale e in America Settentrionale. 

Lo studio comparato della condizione femminile conferma e approfondisce il divario.
La situazione economica delle donne nei paesi poveri è spesso ancora peggiore di quella degli uomini. Ma quel che colpisce maggiormente, in quei paesi, sono le differenze sociali tra maschi e femmine: lo stato di assoggettamento, marginalità e dipendenza delle donne, le discriminazioni e le violenze istituzionalizzate che subiscono praticamente senza scampo e che non hanno equivalente nelle società industriali.

Diritti naturali: una rivoluzione antropologica.

Un presupposto femminista è che esista uno specifico femminile che accomuna le donne di tutti i tempi e di ogni paese e che si possa parlare di "condizione della donna" al di là di qualsiasi differenza culturale, sociale, economica, religiosa…
Questo presupposto non è vero o non lo è più da quando una civiltà – l’Occidente cristiano – ha trasformato le donne in persone.
Formulando il concetto di "persona", l’Occidente riconosce infatti a ogni essere umano, anche di genere femminile, dei diritti naturali, vale a dire inerenti alla condizione umana, quindi inalienabili e universali, e realizza così una rivoluzione antropologica di cui noi siamo i fortunatissimi eredi.
Ha scritto Murray N. Rothbard, uno dei più noti filosofi libertari: "La gloria della razza umana è l’unicità di ogni individuo, il fatto che ogni persona, quantunque simile a ciascun’altra per molti aspetti, possiede una propria personalità ben individuata. È il fatto dell’unicità di ogni persona, il fatto che non esistono due persone pienamente intercambiabili che rende ogni uomo insostituibile e che rende importante se egli vive o muore, se è felice o se è oppresso. E, infine, è il fatto che queste personalità uniche hanno bisogno della libertà per il loro pieno sviluppo che costituisce uno dei maggiori argomenti a favore di una società libera" (Freedom, Inequality, Primitivism and the Division of Labor, Institute for Human Studies, Menlo Park, 1971, p.3).

Per la maggior parte di coloro che si sono formati nella tradizione di pensiero occidentale l’individualità è un valore che va difeso e rispettato nell’interesse del singolo e della società e la libertà è un bisogno fondamentale.
Altrove, nel mondo, le parole di Rothbard risultano invece incomprensibili e persino blasfeme, estranee e minacciose. Dove non si è realizzata la rivoluzione antropologica occidentale, l’individuo conta soltanto in quanto componente di un gruppo umano e non si concepisce che possa far parte di una comunità diversa da quella di nascita. Ai bambini si insegna a temere gli estranei, a evitarli, addirittura a non considerarli umani; e ad essere fedeli, ad oltranza, solo ai propri familiari, non essendovi possibilità di sopravvivenza senza di essi. Così la loro identità si forma nella dipendenza da un gruppo di riferimento impermeabile e insostituibile.
Inoltre i diritti di ciascuno sono determinati dalla posizione sociale che gli viene assegnata, e imposta, in base a fattori prevalentemente indipendenti dalla sua volontà e dalle sue capacità e quindi ascritti: il sesso, la famiglia d’appartenenza, l’ordine di nascita rispetto ai fratelli, l’età.

Un’altra citazione ci aiuta a capire che cosa significa.
"…ognuno è ciò che riesce a diventare. Gli orizzonti sono aperti, le opportunità sono illimitate e la realizzazione di esse dipende dall’energia, dal rigore e dalla perseveranza dell’individuo; in sostanza, dalle sue capacità e dalla sua voglia di lavorare. " (Samuel P. Huntington, La nuova America, Garzanti, 2005, p.88).
Di nuovo, come nel caso del brano precedente, i concetti espressi da Huntington sono privi di significato per chi non partecipa della rivoluzione antropologica che afferma la centralità della persona umana oppure suonano come una sfida, un pericolo all’ordinato e giusto andamento dell’esistenza. La possibilità di decidere di sé e da sé – in "orizzonti aperti" e con "illimitate opportunità" – è esattamente ciò che l’ascrittività degli status si propone di impedire.

Nella formulazione occidentale, quindi, "libertà" significa prima di tutto affrancamento dall’appartenenza ascritta e indissolubile alla comunità originaria e dagli status ascritti che prescrivono il destino di ogni individuo, i suoi diritti e i suoi doveri, dalla nascita alla morte. L’individuo divenuto "persona" si vuole che sia indipendente, padrone di sé, pari a ogni altro essere umano per dignità e diritti, libero di cambiare se stesso e il mondo, di difendere le proprie scelte, di realizzarsi al meglio delle proprie capacità, di occupare gli status che, a prescindere dalle sue condizioni sociali d’origine, le sue risorse fisiche, intellettuali e morali gli consentono di raggiungere e che può decidere di accettare o rifiutare in funzione dei propri progetti e delle proprie aspettative.

Diversi fattori hanno contribuito alla realizzazione di questa rivoluzione antropologica: due di essi hanno svolto un ruolo determinante nel produrla.

Il primo è il cristianesimo: ecco perchè, nelle parole di don Luigi Giussani.
"La cultura occidentale possiede dei valori tali per cui si è imposta come cultura e operativamente, socialmente, a tutto il mondo (…) tutti questi valori la civiltà occidentale li ha ereditati dal cristianesimo: il valore della persona, assolutamente inconcepibile in tutta la letteratura del mondo; (…) il valore del lavoro, che in tutta la cultura mondiale, in quella antica ma anche per Engels e Marx, è concepito come schiavitù, è assimilato a una schiavitù, mentre Cristo definisce il lavoro come attività del Padre, di Dio; il valore della materia, vale a dire l’abolizione del dualismo tra un aspetto nobile e un aspetto ignobile della vita della natura, che non esiste per il cristianesimo; la frase più rivoluzionaria della storia della cultura è quella di San Paolo: "ogni creatura è bene"; il valore del progresso, del tempo come carico di significato, perché il concetto di storia esige l’idea di un disegno intelligente. Questi sono i valori fondamentali della civiltà occidentale, a mio avviso. Non ne ho citato un altro, perché è implicito nel concetto di persona: la libertà" ("Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Comunione e Liberazione, New York, 8 marzo 1986", Tracce-Litterae Communionis, febbraio 2002).

La religione cristiana propone una comunità, quella dei credenti, alla quale chiunque, in qualsiasi momento della vita, può aderire per sua scelta, perché decide di credere, e senza per questo perdere precedenti appartenenze. Da 2000 anni per i cristiani la comunità biologica, carnale non è più l’unico destino dell’uomo.
Il cristianesimo prevede inoltre per maschi e femmine lo stesso rito di iniziazione alla comunità dei credenti, il sacramento del battesimo: un’eccezione quasi unica rispetto alle tradizioni millenarie di innumerevoli società che a ogni stadio della vita ribadiscono con riti e cerimonie distinte (o con l’assenza di cerimonie per le femmine) il posto diverso assegnato ai due sessi.

Di non poca rilevanza per la condizione femminile è anche il valore riconosciuto dal cristianesimo alla donna che non è madre: accada ciò per scelta o involontariamente, per sterilità o per altri motivi. Considerando la sorte tuttora riservata alle donne sterili in numerose società, si capisce l’importanza di una religione che ritiene utile e degna persino l’esistenza di una donna incapace di generare figli per un uomo.
Fin dall’inizio le comunità cristiane si sono inoltre distinte per l’impegno a favore dei propri componenti più deboli. Il valore intrinseco e supremo attribuito alla persona dai cristiani si è tradotto subito tangibilmente in tutele e cure maggiori ai malati, agli anziani e in particolare alle vedove e agli orfani; e la disponibilità a collaborare e spartire ha migliorato le condizioni generali di vita. Lo prova il fatto che mediamente i cristiani vivessero più a lungo dei pagani, come dimostrano, ad esempio, i dati ricavati dai monumenti e dalle epigrafi tombali.

In più – concezione assolutamente rivoluzionaria – cure e tutele si ritengono dovute non solo ai membri della comunità d’appartenenza: per un cristiano il "prossimo tuo" da rispettare e se necessario da soccorrere è infatti, senza possibilità di eccezioni, ogni persona umana, familiare, affine o estranea che sia.
Tra le testimonianze che lo confermano, vi è quella, ad esempio, dell’imperatore romano Giuliano che attribuiva il successo del cristianesimo alla benevolenza mostrata dai suoi fedeli "verso gli estranei e alla loro cura delle tombe dei morti", al loro carattere morale, "anche quando si tratta di una messa in scena", vale a dire – nell’interpretazione dell’imperatore – di un espediente per convincere e convertire.

"Io penso – scriveva nel 362 d.C. in una lettera indirizzata a un sacerdote pagano che voleva indurre a promuovere istituti di carità sull’esempio di quelli cristiani – che quando succede che un povero è trascurato e dimenticato dai nostri sacerdoti, gli empi Galilei se ne accorgono e subito accorrono con la loro beneficenza. (…) Gli empi Galilei sostengono non solo i loro poveri ma anche i nostri, mentre chiunque può vedere che da noi la nostra gente non riceve aiuti". (Rodney Stark, Massimo Introvigne, Dio è tornato, Piemme, Casale Monferrato, 2003, capitolo primo)

Per finire, benché altro si potrebbe ancora aggiungere, un ulteriore elemento rivoluzionario del messaggio cristiano è il valore attribuito al lavoro che, rendendo le attività produttive degne dell’uomo e l’uomo fiero di svolgerle, allevia per donne e bambini l’onere delle funzioni economiche e rende ingiustificato lo status inferiore assegnato a chi le esegue. Ancora adesso, invece, la piaga dell’ozio dei maschi adulti, che schivano il lavoro e si appellano alle tradizioni per giustificarsi, è una delle cause maggiori di povertà in Africa e in altri continenti.

Il secondo evento della storia umana che trasforma radicalmente la condizione femminile è l’evoluzione dalle economie di sussistenza e rapina, tipiche delle società arcaiche nelle quali la funzione economica centrale della donna coincide con il suo asservimento, alle economie produttive moderne.

Le società preindustriali dipendono essenzialmente dai beni esistenti in natura perché i modi di produzione tradizionali, fondati sui rapporti di parentela, e le tecnologie elementari utilizzate rendono il lavoro poco produttivo. La terra, l’acqua, l’oro e alcuni altri metalli, tutti beni irriproducibili e reperibili in quantità limitate, sono le risorse che gli uomini si contendono. Per inciso, questo spiega l’origine della condanna morale della ricchezza, tuttora diffusa in certi ambienti sociali e culturali e un tempo giustificata dal fatto che effettivamente nelle economie arcaiche si potevano accumulare grandi ricchezze solo sottraendole agli altri, quindi impoverendoli, e non, invece, producendone in abbondanza.

Caccia-raccolta, pastorizia, agricoltura – le economie di sussistenza praticate per millenni – includono perciò come fattore strutturale, vale a dire necessario e non marginale o occasionale, la guerra di conquista, per il possesso di terre fertili, pascoli, sorgenti, acque pescose, e a scopo di razzia e saccheggio, di beni, raccolti, bestiame e anche di persone. Un altro fattore produttivo strutturale è infatti la schiavitù che serve ad acquisire forza lavoro e riproduttiva, sottraendola ai rivali.

In tali contesti vita e morte, abbondanza e carestia dipendono, oltre che dagli andamenti climatici ai quali il bassissimo livello tecnologico non consente di rimediare, dalla disponibilità di molte braccia giovani, in grado di lavorare, razziare, conquistare e far fronte alle aggressioni delle comunità concorrenti. Per garantirsi sempre nuove braccia, ogni gruppo umano ha bisogno di donne. La società si organizza quindi in unità patriarcali che le assoggettano per disporre delle loro preziose facoltà procreative e amministrarle a discrezione e nell’interesse della comunità.

L’ossessivo bisogno di organizzare e controllare la procreazione viene meno con l’affermarsi delle economie di produzione e soprattutto del capitalismo che aumenta straordinariamente la produttività del lavoro: disporre di tante donne e dei loro figli non è più il solo modo per una comunità di assicurarsi le risorse necessarie.
Tre rivoluzioni – scientifica, tecnologica, industriale – forniscono al modo di produzione capitalistico le condizioni e gli strumenti per realizzarsi e due secoli or sono, tra il 1815 e il 1830, in Europa e nell'America Settentrionale le nuove, immense risorse disponibili incominciano a essere usate in modo costruttivo. Così si afferma una civiltà – l’Occidente – che è capace di progressi scientifici, tecnologici e produttivi incomparabilmente superiori a quelli di ogni altra società e che – unica nella storia umana – considera giusto solo un mondo in cui tutti abbiano pari opportunità di contribuire al progresso materiale, intellettuale e morale dell’umanità e di goderne i frutti.

Nel resto del pianeta questo non è accaduto.

La più compiuta e consapevole affermazione d’intenti in favore della valorizzazione e della tutela della persona è la Risoluzione 217 A(III) approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948 e meglio nota come Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

La qualità della condizione umana dipende innanzi tutto dal grado di applicazione dei valori in essa enunciati.
L’adesione ai contenuti della Dichiarazione comporta infatti che ogni forma di violenza, di discriminazione e di limitazione della libertà individuale sia bandita, riprovata e sanzionabile.
Ma dove il concetto di persona non è stato elaborato, i diritti elencati nella Dichiarazione sono invece considerati minacce al tradizionale funzionamento della vita sociale, illecite alterazioni di un ordine che deve essere mantenuto per salvaguardare la comunità, anche a costo di sacrificare gli individui che la compongono. Quindi le norme e le consuetudini, vale a dire le istituzioni che definiscono e regolano i rapporti e i comportamenti sociali, politici ed economici, sono concepite per garantire che ciò accada. Le difficili, spesso terribilmente dolorose condizioni di vita di centinaia di milioni di donne derivano proprio da tali istituzioni. Questo vuol dire che sono non le deplorate conseguenze di comportamenti arbitrari, devianti, illeciti e immorali per prevenire e reprimere i quali delle autorità politiche, religiose e sociali si battono ogni giorno; bensì gli effetti, previsti e perseguiti, di azioni prescritte e doverose, dunque lodevoli e perfettamente legittime, compiute da persone che, proprio per questo, meritano stima e fiducia e godono di buona reputazione.

Si capisce quanto sia difficile considerare "istituzioni" e non "trasgressioni" certe pratiche e certo non aiuta il linguaggio involontariamente improprio con cui le descriviamo. Usiamo infatti espressioni dalla valenza negativa come "discriminazione" sessuale, per indicare ad esempio le diverse opportunità di accesso alle cure mediche o all’educazione scolastica riservate ai figli maschi e femmine, oppure "delitti" d’onore, per definire le punizioni inflitte dai genitori alle figlie accusate di disobbedienza e atti impuri. Invece, nei contesti sociali in cui si praticano, sono comportamenti sollecitati ed esemplari che denotano dedizione alla famiglia e volontà di far bene. Di "discriminazione" si può parlare all’interno di un gruppo di pari ai quali si devono attribuire gli stessi diritti, ma maschi e femmine non si ritengono pari: non è necessario trattarli allo stesso modo e anzi farlo significherebbe mettere in pericolo i valori in cui tutti credono; e "delitto" è caso mai il comportamento delle figlie ribelli che i genitori uccidono per salvare, come è loro dovere, il proprio onore e quello degli altri congiunti.
Prima di illustrare alcune delle istituzioni dalle quali dipende la sorte delle donne che vivono oltre i confini della civiltà occidentale, va evidenziato che quasi tutte le norme e le tradizioni definibili discriminazioni, limitazioni della libertà e violazioni dell’integrità fisica e morale in base alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riguardano l’istituzione familiare e l’ambito domestico e ad agire sono i parenti delle vittime: genitori, fratelli e zii, fino al momento del matrimonio, e poi il marito, i figli maschi e i loro familiari.

È bene rimarcare, inoltre, che per quanto ai nostri occhi appaiano irrazionali e assurde, oltre che incapaci di soddisfare i bisogni umani universali, sono istituzioni effettivamente funzionali al mantenimento di società arcaiche patriarcali e di economie di sussistenza e rapina che hanno il loro fulcro nel controllo delle facoltà procreative femminili. Matrimonio forzato e infantile, prezzo della sposa, dote, poliginia, mutilazioni genitali femminili, harem, velo, punizioni fisiche, omicidio d’onore, ripudio… tutte queste istituzioni, e altre ancora, contribuiscono a far si che le donne siano, dalla nascita alla morte, a disposizione di chi le possiede e che in ogni momento della loro vita si sottomettano alla sua volontà.
Ciò che distingue l’Occidente cristiano dal resto del mondo non è quindi un diverso grado di realizzazione di valori peraltro condivisi. Gli ideali a cui tendono le società arcaiche non sono quelli che hanno ispirato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Inoltre dove non si riconoscono diritti naturali e il concetto stesso di "persona" non è formulato, i fondamentali bisogni umani sono generalmente insoddisfatti: per quanto siano le donne – e i minori di entrambi i sessi – a soffrire di più in simili contesti, in realtà nessuno è libero, neanche gli uomini.
Infine, al contrario di quanto può sembrare, discriminazioni, violenze, gravi limitazioni della libertà sono causa e non effetto della povertà.

Per disporre delle funzioni procreative e amministrarle, la comunità prima di tutto deve poter impedire ai propri componenti di sposarsi liberamente.

Il matrimonio forzato o imposto o combinato permette ai parenti di una persona di sceglierne il coniuge. In certe società anche gli uomini, almeno al primo matrimonio, devono accettare la volontà della famiglia, ma l’istituzione riguarda più di frequente le donne. Il grado di violenza subita dipende da diversi fattori, uno dei quali è l’età. Il matrimonio infantile o comunque precoce è praticamente sempre combinato e comporta numerose conseguenze negative soprattutto per le femmine: dal mancato completamento dell’istruzione scolastica alle gravidanze precoci con rischi elevati per la salute di madri e figli.Dote e prezzo della sposa si associano spesso al matrimonio combinato. Di solito, comunque, la presenza di queste due istituzioni implica che, quand’anche sia consentita la libera scelta del coniuge, la stipulazione del contratto matrimoniale dipende dal consenso dei parenti dei due contraenti ed è subordinata al raggiungimento di un accordo sull’ammontare da corrispondere.

L’istituzione della dote richiede che per sposarsi una donna debba portare al marito dei beni, di solito forniti dalla sua famiglia. Al contrario il prezzo della sposa è l’importo che un uomo, o la sua famiglia, deve corrispondere in cambio di una moglie. In entrambi i casi, è evidente che la volontà di chi paga prevale su quella di chi è oggetto di scambio.

La poliginia consente, e in certe circostanze impone, a un uomo di avere più di una moglie. Le regole di questa istituzione variano da etnia a etnia, ma quasi sempre prevedono una gerarchia tra le co-mogli. Il "potere contrattuale" di ogni donna, in una famiglia poliginica, dipende inoltre dalla sua prolificità e dalla considerazione in cui è tenuta dal marito. Anche nella meno conflittuale delle situazioni le co-mogli sono concorrenti nella spartizione delle risorse familiari.

Il controllo delle facoltà procreative delle donne è assicurato da diverse altre istituzioni. Una delle più lesive dell’integrità fisica e morale della persona umana è l’istituzione delle mutilazioni genitali femminili. Le più diffuse sono l’escissione e l’infibulazione. Entrambe servono a impedire che le donne abbiano rapporti sessuali non ammessi e quindi a garantire che generino figli soltanto per gli uomini ai quali appartengono e per le loro famiglie.

Due istituzioni islamiche – l’harem e il velo – svolgono la stessa funzione separando maschi e femmine e, nei luoghi pubblici, nascondendo l’aspetto di queste ultime agli occhi di uomini estranei. L’harem relega le donne in casa e, se possibile, in spazi domestici inaccessibili agli estranei. Nella forma più rigorosa dell’harem le donne non escono se non raramente, sempre velate e accompagnate dai parenti maschi o da dipendenti incaricati di vigilare su di loro. Il velo va dall’obbligo di indossare un copricapo almeno durante le ricorrenze islamiche al burka che occulta tutto il corpo femminile, inclusi piedi e mani, e scherma parzialmente anche gli occhi. Di norma ogni comunità chiede alle donne di adeguarsi alla propria corrente interpretazione della prescrizione.

L’obbedienza delle donne si ottiene anche incutendo loro paura. Di norma nelle società patriarcali si ritiene che un buon capofamiglia non soltanto possa, ma debba punire la moglie che non soddisfa i bisogni familiari e lo stesso vale per tutti i congiunti che gli sono sottoposti. Ciò che nel loro comportamento si reputa una mancanza intollerabile e l’entità della pena inflitta variano da cultura a cultura, ma le punizioni fisiche non sono mai escluse: dalle percosse…agli acidi che sfigurano il volto delle donne ribelli.

Una donna che mostra in pubblico di non obbedire agli ordini del capofamiglia, che desta il sospetto di intrattenere rapporti illeciti, anche non sessuali, con uomini estranei o ancora che subisce uno stupro compromette seriamente l’onore della propria famiglia: in questi casi alcune società prescrivono l’omicidio, il cosiddetto "delitto d’onore" che ovviamente non è considerato un "delitto", bensì un atto benefico.

L’ultima istituzione considerata è il ripudio. In società che non prevedono per le donne altro status che quello di madre, per una moglie l’eventualità di un ripudio – la decisione unilaterale di un uomo di sciogliere il proprio legame coniugale con una donna – è una minaccia costante e può essere temuta più della morte. La donna respinta disonora la propria famiglia, nel caso sia stato pagato il prezzo della sposa la mette nella sgradita situazione di doverlo restituire e rappresenta comunque un peso indesiderato. Perdere lo status di moglie, specie se il ripudio è dovuto al fatto di essere sterile, può essere la peggiore delle disgrazie.

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