SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Il Sinodo dei vescovi cattolici : «Lavoriamo insieme per un’alba nuova in Medio Oriente»

http://www.avvenire.it -13 ottobre 2010

Senza dialogo con l’islam «non ci sarà la pace e la stabilità». Per questo «insieme possiamo eliminare guerre e tutte le forme di violenza», e dunque «dobbiamo unire le nostre voci per denunciare insieme il grande affare economico del commercio delle armi».

Nei primi interventi al Sinodo dei vescovi sul Medio Oriente è stato, come prevedibile, il tema del dialogo a emergere come punto centrale. Per monsignor Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, in Iraq, «il mortale esodo che affligge le nostre Chiese non potrà essere evitato», ma di fronte a tale problema «le Chiese Orientali, ma anche la Chiesa universale, devono assumersi le proprie responsabilità e trovare con la comunità internazionale e le autorità locali scelte comuni che rispettino la dignità della persona umana, basate sull’uguaglianza e sulla piena cittadinanza, con impegni di partenariato e di protezione... Vogliamo vivere in pace e libertà invece di sopravvivere».

Quel che è necessario, secondo monsignor Shlemon Warduni, vicario patriarcale di Babilonia dei Caldei, è «lavorare tutti insieme per preparare un’alba nuova per il Medio Oriente», impegnandosi perché terminino i conflitti, siano emarginate le correnti aggressive dell’Islam, e ci sia rispetto per la libertà religiosa, specie in Iraq dove i cristiani sono «vittime della guerra, ma non tenuti sufficientemente in considerazione dalla comunità internazionale». 

Per l’arcivescovo libanese Paul Youssef Matar, di Beirut dei Maroniti i cristiani, «figli di questa terra da sempre... devono sentire che non debbono forgiare un destino limitato a se stessi, ma piuttosto un destino comune con i loro partner» musulmani. Il loro far parte del mondo arabo «non dovrebbe far perdere loro né i loro diritti, né le loro libertà, ma confermarli, in comune con i diritti e le libertà dei loro concittadini». D’altra parte «gli alti e bassi della convivenza sono spesso legati a problemi politici», ha affermato monsignor Elias Nassar, vescovo di Sidone dei Maroniti, in Libano, sottolineando allo stesso tempo il valore concreto del dialogo: «L’attaccamento dei musulmani alla preghiera, al digiuno, alla carità, al pellegrinaggio incitano i loro vicini cristiani a divenire più praticanti», così come «la vicinanza dei cristiani fa riflettere i musulmani, ad esempio, su una lettura critica del Corano».

Nella prospettiva di far crescere il dialogo, i Padri sinodali hanno tra l’altro sottolineato l’importanza «imperativa» deimass-media, attraverso i quali «si possono diffondere nella popolazione le nozioni su cittadinanza, uguaglianza, accettazione della diversità, evitando la manipolazione delle masse e la deriva verso l’estremismo». Al riguardo, sono state deplorate con forza le iniziative provocatorie nei confronti dell’Islam, come le vignette satiriche i roghi del Corano, incoraggiando invece tutte le attività – come per esempio quelle degli scout – in cui i ragazzi sono fianco a fianco, senza distinzione di credo. 

Come riferito dalla Radio Vaticana, durante i lavori «un pensiero» è andato anche all’Afghanistan che, pur non presente al Sinodo come Paese del Medio Oriente, è stato comunque ricordato nella solidarietà dai Padri sinodali, «a causa delle tribolazioni vissute dalla popolazione locale». In questo contesto «è stata richiamata, quindi, la responsabilità delle potenze occidentali, in particolare di quelle che hanno commesso errori storici nei confronti del Medio Oriente, affinché il grido di giustizia e pace nella regione non rimanga inascoltato».

Salvatore Mazza

Penisola arabica, con l’immigrazione crescono i cristiani

Arleen ha 25 anni, viene dall’India e fa parte del gruppo «Giovani adulti» della parrocchia di Saint Francis a Jebel Ali, periferia di Dubai. Theresa, pakistana, è catechista della Cattedrale di Saint Joseph, ad Abu Dhabi, mentre Joy, anche lui indiano, 27enne del Kerala, è animatore del gruppo carismatico «Jesus Youth» in uno dei labour camp – le città ghetto – di Mussapha, la zona industriale della capitale, dove vive insieme a migliaia di lavoratori-schiavi, immigrati negli Emirati in cerca di un futuro.

Nel resto del mondo, molti non si immaginano nemmeno che esistano. Eppure loro, i cristiani del Golfo Persico, sono in tanti e crescono senza sosta. Nel Vicariato d’Arabia, che con i suoi tre milioni di chilometri quadrati è il più esteso al mondo – oltre agli Emirati Arabi comprende il Qatar, il Bahrain, l’Arabia Saudita, l’Oman e lo Yemen, mentre il Kuwait è un Vicariato a sé – i battezzati sono milioni. Secondo stime ricavate dal Rapporto 2009 del Dipartimento di Stato americano sulla libertà religiosa, integrato da fonti "dirette", in tutta la Penisola arabica (Vicariato d’Arabia più Vicariato del Kuwait) i cattolici sono circa tre milioni. I seguaci di Gesù rappresentano, nei diversi Paesi, tra il sette e il dieci per cento della popolazione, ma semplici calcoli empirici suggeriscono che negli Emirati superano addirittura il 30 per cento degli abitanti. Fanno parte di quegli immigrati che, dopo il boom petrolifero, hanno cominciato a riversarsi nella regione. E non hanno mai smesso, visto che il Golfo continua ad importare dall’estero sia le «braccia», sia i «cervelli» indispensabili alla sua crescita continua: in certe zone degli Emirati i migranti sono l’80% della popolazione. Mentre tutto il Medio Oriente, quindi, assiste al drammatico esodo dei cristiani, proprio nella Penisola arabica, che secondo la Sunna è terra sacra all’islam, il loro numero aumenta. E la loro presenza, sebbene discreta, è viva ed entusiasta.

«Periferici? Noi non ci sentiamo affatto periferici!». Le parole di Susan, incontrata a un gruppo di preghiera carismatico nella parrocchia di Saint Michael, nell’emirato di Sharjah, chiariscono bene la vivacità e il protagonismo vissuti da una Chiesa che, vista dall’Occidente, potrebbe apparire marginale. Una percezione decisamente fuorviante. A Saint Michael, per esempio, le iniziative pastorali dedicate alle coppie e alle famiglie sono frequentatissime: i gruppi di preghiera – dalla scuola della Parola in lingua malayalam agli incontri per le comunità africane o tamil – sono quarantuno. Questi numeri – e questo mix di popoli – tra le comunità cristiane del Golfo Persico rappresentano la norma. 

Si dice che la parrocchia di Dubai, con i suoi 200 mila fedeli, sia tra le più grandi del mondo. I ragazzi che da tutta la città convergono ogni settimana nel compound (il complesso delle strutture parrocchiali) di Saint Mary per la catechesi sono oltre quattromila. Nella Cattedrale di Abu Dhabi, invece, al venerdì (qui il giorno di festa si adegua ai ritmi dell’islam) si celebrano dieci Messe: si comincia alle 6 e mezza di mattina mentre l’ultima celebrazione, quella in arabo, è alle 20,15. In mezzo, Messe in inglese, tagalog, konkani, urdu, seguite spesso da incontri di preghiera e momenti conviviali in cui i membri delle varie comunità, spesso lontani dalle proprie famiglie, scacciano la nostalgia di casa. Per farsi un’idea di che cosa sia la vita in una grande parrocchia del Golfo, basta scorrere lo schema usato da padre Muthu, parroco della Cattedrale, per calcolare il «numero di ostie da preparare per le celebrazioni»: la media è di trentamila particole alla settimana.

Questa, però, è sola una faccia della medaglia. «I numeri così vistosi – fa notare padre Eugenio Mattioli, cappuccino di origine fiorentina e parroco di Saint Francis, da 52 anni in queste terre – rispecchiano la concentrazione dei fedeli causata dalla scarsità dei luoghi di culto esistenti!». La difficoltà a ottenere spazi per nuove chiese è uno dei crucci più sentiti tra le comunità del Golfo, dal Qatar – dove la prima chiesa cristiana è sorta, dopo tanta attesa, solo due anni fa – fino al Kuwait. «Lo stesso terreno su cui è costruita la cattedrale di Kuwait City non ci appartiene – racconta il vicario apostolico di Kuwait, il comboniano Camillo Ballin –. Siamo tenuti a pagare un affitto simbolico e non abbiamo garanzie di poter restare qui anche in futuro».

La precarietà, da queste parti, è vita quotidiana. E non solo perché i cristiani, in quanto stranieri, sono obbligati ad abbandonare il Paese allo scadere del contratto di lavoro e comunque all’età della pensione. Soprattutto, la libertà di cui godono in tema di pratica religiosa è limitata agli stretti confini del complesso parrocchiale: non sono ammesse processioni, né simboli religiosi evidenti, né crocifissi in cima alle chiese. Eppure, proprio in terra d’Arabia, dove le campane non suonano mai, lo Spirito soffia. «La nostra fede è più forte qui che in patria!», esclama Nila Sanchez Bandigan, immigrata filippina che vive ad Abu Dhabi da 28 anni. «A casa frequentavo la parrocchia frettolosamente, dandola in un certo senso per scontato. Qui, come tanti miei connazionali, ho invece riscoperto la gioia di essere parte attiva della Chiesa».

Chiara Zappa -10 ottobre

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