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Fine vita : tre regole per affrontare insieme quell'ultimo miglio

di Tommaso Scandroglio 10-08-2014 http://www.lanuovabq.it/

É nota a tutti l’equazione “senilità”: una vita più lunga corrisponde un aumento delle cure mediche.

L’Istat ci informa che la vita media è passata dai 46 anni degli anni Cinquanta ai 66 nel periodo 2000-2005. Gli ultra ottantenni sono oggi il 5,8% e tra 30 anni saranno intorno al 13%. Viene dunque da concludere che non è la vita ad allungarsi, bensì la vecchiaia. Ma, come accennato prima, l’ultimo scorcio di vita è sempre più passato in compagnia dei camici bianchi. Il ministero della Salute ci dice che su 8 milioni di ricoveri annuali il 5% riguarda insufficienze croniche. Questi ricoveri pesano sulle casse dello Stato il 5% di tutta la spesa sanitaria, il 4,1% del Pil e in futuro, manco a dirlo, l’aggravio economico crescerà. Naturale che gli accoliti della “dolce morte” trovino in queste cifre una sponda efficace per far quadrare i conti a spese del nonno moribondo.

Lo studio multicentrico europeo Senti Melc sul tema poi ci fornisce qualche dato in più. Gli ultimi tre mesi di vita vengono passati in ospedale, spesso in modo inutile. Solo in un caso su dieci il paziente viene seguito a domicilio e solo in un caso su dieci si sceglie un ricovero in un hospice. Le insufficienze croniche portano spesso a esiti letali (un rischio da 2 a 4 volte maggiore rispetto ad altri quadri clinici) e i ricoveri in terapia intensiva non di rado non apportano reali benefici.

Da qui una domanda che si pongono gli specialisti che seguono questi pazienti: quali criteri seguire per la cura di questi malati secondo il principio di proporzionalità? Dato che la parabola naturale della loro esistenza sta arrivando a compimento e soluzioni salvavita spesso non ne esistono, diviene prioritario accompagnare il paziente nel suo ultimo miglio su questa Terra cercando il più possibile di alleviare il suo dolore fisico e la sua sofferenza psicologica. 

Il percorso del morente nella medicina è un percorso che interessa trasversalmente più categorie di professionisti. Ecco allora che dieci società scientifiche mediche (intensivisti, palliativisti, cardiologi, pneumologi, neurologi, nefrologi, gastroenterologi, medici di urgenza e di medicina generale, infermieri) hanno pubblicato un documento sulla rivista “Recenti progressi in medicina” per scegliere, insieme a bioeticisti e giuristi, il miglior percorso palliativo o intensivo per le insufficienze croniche. 

I punti salienti di questo documento potrebbero essere i seguenti. In primo luogo occorre condividere con il malato e i familiari il percorso di cura adeguato che bilanci effetti positivi sperati e costi sopportati in termini di sofferenza psico-fisica e di esborsi economici per la famiglia. In secondo luogo la cura intensiva in genere non è più efficace nella fase terminale della malattia (6-12 mesi dal decesso) e quindi risulta essere sproporzionata. Occorre però valutare caso per caso. Infine, il documento ricorda che le cure palliative non significano abbandonare il paziente e i familiari, ma rendere meno gravoso ad entrambi i soggetti l’ultimo tratto di vita del paziente stesso. 

Ora i principi qui espressi sono condivisibili sul piano morale. Ma i principi, per quanto ottimi, scritti sulla carta e non incarnati in virtù e cultura possono essere stravolti a piacimento. Per dirla in breve, il pericolo potrebbe essere quello che il malato con insufficienza cronica venga automaticamente derubricato a caso disperato e abbandonato a se stesso. Le dieci società scientifiche hanno fatto bene a individuare la rotta da seguire in queste strettoie cliniche, ma non vorremmo che, a causa dei venti eutanasici che spirano sempre più sui letti dei moribondi, queste indicazioni restassero lettera morta o peggio offrissero il destro a qualche zelante camice bianco per spingere nella fossa anzitempo chi ha invece buone prospettive di vita. Perché anche questo, qualcuno potrebbe sostenere, è prendersi cura del malato terminale.

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