SOMMARIO RASSEGNA STAMPA
Chi paga il genocidio dei cristiani

di Gianandrea Gaiani e Stefano Magni 14-08-2014 http://www.lanuovabq.it/

L'Isis sembra essere nato dal nulla e all'improvviso. Ma così non è. Infatti, l'esercito di jihadisti che ha espugnato un terzo dell'Iraq e sta compiendo un genocidio di cristiani e yezidi, è nato in anni di guerriglia siriana, finanziato da gruppi salafiti basati in Kuwait e nelle monarchie del Golfo. I pochi raid aerei ordinati dal riluttante Obama non serviranno a fermare il Califfato. Anzi: rischiano di rafforzarlo.

Da dove arrivano tutti i soldi dell'Isis? Con due miliardi di dollari a disposizione, è attualmente la più ricca organizzazione terroristica al mondo. La fonte iniziale è la rete di salafiti e organizzazioni di esuli siriane che foraggiavano la ribellione ad Assad dal Kuwait. Poi si è aggiunta l'economia di rapina. 

Pochi raid mirati non servono a indebolire l'Isis, né a smantellare il progetto di espansione del Califfato. Obama ha deciso di intervenire con una mano legata dietro alla schiena. E così facendo rischia di regalare una "medaglia" jihadista al califfo Al Baghdadi.

L'allevamento dei mostri. I soldi dell'Isis
di Stefano Magni

L’Isis, l’esercito islamico dell’Iraq e del Levante è diventato un attore geopolitico, un vero e proprio governo non riconosciuto, un Califfato islamico dotato di un proprio budget stimato in due miliardi di dollari, che lo rende, di gran lunga, il più ricco gruppo terrorista al mondo. L’origine di questa ricchezza, impiegata sia per il controllo del territorio, sia per l’acquisto di armi e munizioni sul mercato nero, è e resta uno degli aspetti più inquietanti del dramma iracheno. L’Isis è nato apparentemente dal nulla, nella primavera del 2013, nella Siria settentrionale e orientale. Nel giro di pochi mesi è riuscito a consolidarsi. Nel solo giugno del 2014, dopo alcune incursioni preliminari in inverno e primavera, è riuscito a conquistare un territorio pari all’intera Siria, diffuso fra le regioni orientali siriane e l’Iraq nord-occidentale, compresa Mosul, la seconda città irachena.

Se nessuno vuole l’Isis, se persino Al Qaeda non lo vuol riconoscere come una propria filiazione, da dove spunta questo grande e ricco esercito? La risposta al dilemma è, quasi certamente, la più semplice in assoluto: autofinanziamento, economia di predazione e consistenti fondi privati. Partiamo da questi ultimi, che cronologicamente parlando sono arrivati per primi.

Un documentatissimo studio della giornalista statunitense Elizabeth Dickinson, pubblicato dalla Brookings Institution nel dicembre 2013, rivela come, dal 2011, si sia formata una fitta rete di finanziatori dei gruppi armati jihadisti siriani in Kuwait. Perché proprio in Kuwait? Perché l’emirato garantisce libertà di assemblea, libertà di espressione e un buon grado di segretezza bancaria. Tutte ottime cose, se non che, in quella regione del mondo, vengono sfruttate al meglio dai gruppi e dagli ideologi più estremisti. In Arabia Saudita, dopo l’11 settembre, i trasferimenti di fondi privati alle organizzazioni islamiche sono più strettamente monitorate. In Kuwait no. Gruppi jihadisti e attività teoricamente “caritative” legate ai Fratelli Musulmani, come la Rihs, benché soggette a sanzioni statunitensi, possono continuare a operare dall’emirato.

La Dickinson ricostruisce la storia dei finanziamenti ai gruppi jihadisti fin dagli albori della rivoluzione siriana, indica i nomi dei suoi principali protagonisti, come il chierico e professore islamista Shafi al Ajmi, il siriano-kuwaitiano Khaled al Mohammed, la già nominata Rihs, l’Associazione Rivoluzionaria Deir ez Zor (dal nome dell’omonima città siriana divenuta l’epicentro delle attività dell’Isis); Mohamed Hayef al Mutairi a capo del Consiglio dei Sostenitori della Rivoluzione Siriana; Hajjaj al Ajmi, giovane chierico salafita (detto “il bambino”); Ghanem al Mutahiri, finanziatore diretto di Al Nusrah. Questi uomini e organizzazioni hanno formato ed equipaggiato intere brigate, da partire dall’autunno del 2011, quando le proteste e le insurrezioni siriane sono sfociate in una vera guerra civile.

Hanno pubblicamente raccolto fondi, aprendo siti internet appositi, organizzando collette, lotterie, competizioni a chi armava più jihadisti. Siti espliciti, in cui si indicava il prezzo per le armi da comprare: 800 dollari raccolti permettevano l’acquisto un lanciagranate RPG, per esempio. Queste organizzazioni di sostegno non si limitavano ai soldi e alle armi: loro specifiche sezioni provvedevano alla propaganda, alla comunicazione sui social network, all’organizzazione (anche sul campo) delle strutture paramilitari e civili dei loro gruppi. Una raccolta fondi straordinaria durante il Ramadan del 2013 chiedeva di armare 12mila jihadisti: 2500 dollari per ogni combattente da addestrare ed equipaggiare. Spesso in lite fra loro, anche solo per motivi di prestigio e rivalità, questi finanziatori hanno provocato anche la frammentazione della resistenza siriana in una miriade di brigate, anche in lotta fra loro. Soprattutto, i chierici salafiti hanno impresso la loro ideologia ai gruppi che finanziavano e armavano.

Basti solo un’inquietante dichiarazione pubblica di Shafi al Ajmi, l’11 giugno 2013, per capire di cosa stiamo parlando: alla notizia che le sue milizie avevano catturato gruppi di Hezbollah (sciiti e filo-Assad), chiese che gliene fossero preservati 10, per “macellarli con le mie mani”. E questo venne detto in piazza, di fronte all’ambasciata del Libano in Kuwait City.

La rete dei finanziatori privati dal Kuwait ha attraversato fasi alterne, con un picco nel 2012 e una decadenza nel 2013, motivata soprattutto dai lunghi tempi del conflitto, dalla stanchezza, dalla divisione settaria dei gruppi finanziati e (per gli animi più sensibili) anche dalla crescente violenza dimostrata da questi combattenti nei confronti dei civili. Altri fondi, comunque, sono giunti da reti analoghe (che operavano con metodi analoghi) dal Qatar e dall’Arabia Saudita, specie quando questi due Paesi si misero alla testa degli sponsor della rivoluzione siriana, nel 2012. I governi sono indirettamente responsabili di tutto questo transito di denaro. Basti pensare che, in Kuwait, altri gruppi di privati ed esuli siriani hanno finanziato gli sciiti e il governo di Bashar al Assad.

Nel 2013, su pressione statunitense, il Kuwait ha imposto anche controlli più severi sulle sue banche, anche se i fondi sono arrivati ugualmente e in grandi quantità tramite corrieri privati, meno controllabili e gestiti da clan e tribù con agganci all’estero. Il danno, comunque, era già fatto. Nella primavera del 2013, più della metà dei membri di Al Nusrah hanno giurato fedeltà al nuovo Isis e al suo leader Al Baghdadi, portandosi con sé armi, equipaggiamento e fondi raccolti nei due anni precedenti. La galassia di organizzazioni salafite cresciute sotto l’egida di finanziatori siriani esuli, qatarini e sauditi è poi in gran parte confluita nel nuovo Califfato, la realtà più promettente, sia in termini di soldi che di potere. Non si parla di un progetto ideologico nato a tavolino: la stessa rivista del Califfato, Dabiq, dedica ampio spazio alle alleanze tribali che sono confluite nel nuovo movimento, al di qua e al di là del confine siro-iracheno. Ecco come, in pochi mesi, è nato il mostro del deserto che adesso compie il genocidio di cristiani e yezidi in Iraq.

Espandendosi, un esercito che inizialmente era costituito da meno di 10mila combattenti male armati, ha incluso anche pezzi di esercito iracheno, dominando intere comunità sunnite nemiche del governo sciita di Al Maliki. Adesso ci si stupisce come i guerriglieri dell’Isis siano dotati anche di armi sofisticate (alcune notizie non confermate parlano anche di carri armati americani Abrams nelle loro mani): si tratta semplicemente di tutto quel che è stato abbandonato dall’esercito iracheno in piena disintegrazione. L’autofinanziamento è imposto alle popolazioni locali, attraverso un sistema di riscossione di imposte tradizionali islamiche, riscatti e confische. A Mosul, ad esempio, tutte le case dei cristiani sono state sequestrate e sono ora parte del patrimonio del Califfato. I loro abitanti, costretti in fretta e furia alla fuga, devono pagare un riscatto per poter rientrare in possesso dei loro beni e tornare a vivere nelle loro case.

Ma nella stragrande maggioranza dei casi, non si fidano affatto di rientrare a casa loro e vivere sotto la “protezione” di un Califfo che li vuole “convertiti o morti”. Anche attività criminali direttamente legati all’Isis provvedono a fornire dollari guadagnati con i rapimenti, il commercio di armi e di merce di contrabbando, in tutto il Medio Oriente. L’economia di predazione, poi, non è da sottovalutare. La sola conquista della banca centrale di Mosul è fruttata all’Isis 425 milioni di dollari, che costituiscono più di un quinto del suo intero patrimonio. Anche senza andare sui “colpi grossi”, le colonne di profughi yezidi e cristiani che fuggono verso il Kurdistan sono un’altra grande fonte di profitto: i fuggiaschi sono infatti sistematicamente fermati ai posti di blocco dell’Isis e depredati di tutto, dall’auto ai beni personali. Sono ormai molte le testimonianze di cristiani che arrivano in Kurdistan senza più nulla addosso e in tasca. Come tutti gli eserciti di predoni, anche l’Isis sfrutta la disperazione delle sue prede e ci si arricchisce.

In base a quel che sappiamo, questa è l'origine della ricchezza dell'Isis. Altre ricostruzioni che vanno molto di moda su Internet, al contrario, appaiono affrettate quanto interessate. Edward Snowden, per esempio, la ex "talpa" della National Security Agency, sostiene che l'Isis sia stato allevato in batteria dai servizi segreti di Usa, Gran Bretagna e Israele. Ma Snowden, che ha rivelato aspetti tecnici dello spionaggio della Nsa, non ha mai avuto accesso alle "segrete stanze" della Cia o del Pentagono. Tantomeno a quelle dei servizi segreti alleati. In compenso, lavorando e parlando dalla Russia, ha tutto l'interesse a diffondere disinformazione sugli Usa, in un momento di crisi fra le due potenze. Al Maliki punta il dito sui governi di Qatar e Arabia Saudita, suoi diretti rivali sunniti. Ma, al di là della sua inimicizia politica (e religiosa) nei confronti dei due Stati del Golfo, l'ormai ex premier iracheno dovrebbe spiegare come mai proprio l'Arabia Saudita sia ora il più acerrimo nemico dell'Isis e foraggi il Libano per contrastarne l'espansione.

Come in tutti i casi precedenti di guerra al terrorismo, una guerra misteriosa contro nemici sconosciuti, anche l'Isis provoca una vasta fioritura di teorie del complotto. Ma la risposta alla sua nascita e crescita, su chi abbia allevato questo mostro, è con tutta probabilità la più semplice: tanti hanno contribuito a gonfiare una guerriglia jihadista, anche se nessuno aveva mai previsto o voluto la nascita di un Califfato.

Un intervento debole rafforza il Califfato
di Gianandrea Gaiani

Non saranno i raid aerei limitati varati dalla Casa Bianca a fermare l’avanzata dello Stato Islamico, né i rifornimenti di armi ai curdi che oggi tutti i Paesi occidentali, improvvisamente, si accingono a inviare. Così come non saranno gli aiuti umanitari paracadutati dagli aerei anglo-americani a salvare dal massacro cristiani, yezidi e curdi.

L’intervento di Barack Obama, dietro il quale si muove lentamente un’Europa inconsistente e codarda, rischia di essere irrilevante per forze impiegate e obiettivi da conseguire mentre sul piano strategico potrebbe addirittura rafforzare lo Stato Islamico e la posizione di leadership di Abu Bakr al-Baghdad nella galassia del jihad globale.

In quattro giorni raid aerei gli statunitensi hanno compiuto poche missioni e distrutto ben poca parte dell’arsenale degli islamisti. La limitatezza dello sforzo è dimostrata dal fatto che vengono impiegati droni Reaper e i cacciabombardieri F/A-18 imbarcati sulla portaerei George H. Bush in navigazione nel Golfo. Non più di 2/4 coppie di jet sono in volo contemporaneamente sul nord Iraq e pur impiegando armi di precisione hanno finora distrutto alcuni lanciarazzi e una dozzina di veicoli uccidendo qualche decina di miliziani. Al confronto sta facendo molto di più la ventina di vecchi Sukhoi 25 forniti all’Iraq da russi e iraniani che, pur non disponendo di armi guidate, attaccano senza sosta i comandi degli islamisti e i grandi depositi di armi che lo Stato Islamico ha catturato all’esercito iracheno in rotta a Mosul, Baji e Tikrit.

I jet americani si limitano invece a colpire le forze nemiche che si avvicinano alla capitale curda Erbil, tutelando così la sicurezza del personale statunitense presente al fianco dei curdi fin da dopo la guerra del 1991. A Erbil non c’è solo un consolato americano, ma anche una grande base della CIA con contractors e consiglieri militari che vengono in queste ore rinforzati con altri 130 uomini delle forze speciali. Lo sforzo militare di Washington, per ora, punta forse a evitare un’altra Bengasi (dove nel settembre 2012 i jihadisti attaccarono il consolato uccidendo l’ambasciatore americano in Libia) non certo a salvare l’Iraq.

Anche le pressioni per indurre Nouri al-Maliki, che pure aveva vinto le elezioni del 30 aprile, a rinunciare a guidare il governo, difficilmente miglioreranno la sicurezza e la stabilità dell’Iraq dal momento che l’élite delle forze militari irachene, cioè i pochi reparti davvero in grado di combattere, sono vicini ad al-Maliki e non è detto che mostrino fiducia nel nuovo premier Haidar al Abadi voluto da Washington, accettato da Teheran e sostenuto, a parole, da europei e arabi.

Obama aveva chiesto la testa di al-Maliki, responsabile, ma non da certo da oggi, dell’emarginazione dei sunniti dalla gestione della cosa pubblica. Rovesciare l’esito del voto per dare il governo a un altro sciita, vice presidente del Parlamento, che secondo gli Usa dovrebbe creare un governo di unità nazionale, rischia però di indebolire ulteriormente il Paese. Soprattutto perché il nemico è alle porte di Baghdad: i terroristi continuano a colpire in città e le milizie islamiche combattono dall’aprile scorso alla periferia ovest della metropoli e stanno avanzando anche da nord e da est dopo aver strappato Jawal ai curdi. I sunniti iracheni stanno vincendo la guerra al fianco degli islamisti e non hanno motivo di negoziare con gli sciiti in rotta e allo sbando sul piano politico. Se l’esercito e parte della comunità sciita non accordasse fiducia ad al-Abadi lo Stato Islamico potrebbe agevolmente penetrare nel cuore di Baghdad con effetti devastanti su tutta la regione che obbligherebbero l’Iran a intervenire in modo massiccio in territorio iracheno innescando così nuove tensioni con le monarchie del Golfo.

Anche sul piano umanitario, lo sforzo messo in campo difficilmente potrà salvare le popolazioni in fuga (oltre un milione di iracheni ) consentendo loro di tornare nelle città occupate dai jihadisti. L’unica operazione militare che potrebbe consentire un rapido successo è un’azione aviotrasportata con elicotteri, fanteria aeromobile e paracadutisti appoggiati da elicotteri e aerei da attacco. Un intervento bellico vero e proprio che non rientra certo nelle opzioni valutate da Obama il quale ha dichiarato che non invierà truppe americane a combattere in Iraq. Senza di esse i raid aerei risultano insufficienti, anche perché troppo limitati, e il loro peso militare potrebbe ridursi ancora se le truppe di Baghdad dovessero subire altri rovesci.

Il presidente americano ha dichiarato di voler impedire la costituzione di uno Stato Islamico tra Iraq e Siria, ma se davvero avesse voluto perseguire questo obiettivo avrebbe dovuto muoversi prima. Possibile che l’intelligence di Washington non avesse previsto l’offensiva delle forze di al-Baghdadi, che pure ha mobilitato decine di migliaia di combattenti per occupare il nord Iraq? Possibile che la CIA non ne sapesse nulla considerato che i miliziani jihadisti imbracciavano le stesse armi che Washington aveva fatto arrivare in Siria per i ribelli “moderati”?

Obama ha detto che gli Stati Uniti non sostituiranno l’aviazione dell’Iraq, ma di fatto è quello che stanno facendo anche se in misura così ridotta da far risultare irrilevanti i loro raid aerei. Mentre gli analisti continuano a criticare le ambiguità della Casa Bianca e gli errori a raffica compiuti da Obama in politica estera, sarebbe forse il caso di domandarsi se ancora una volta (come in Libia, Ucraina e Afghanistan) la politica di questa amministrazione americana non sia volutamente improntata alla completa destabilizzazione delle aree energetiche di cui l’America, a differenza del resto del mondo, non ha più bisogno grazie alle sue immense riserve di gas e petrolio.

Se così fosse, tutta l’analisi sulla politica estera di Barack Obama dovrebbe subire una profonda rivisitazione e andrebbe valutata come un grande successo del presidente di quella che sta diventando la più grande potenza energetica globale a discapito degli interessi dell’Europa e del resto del mondo.

Un’ulteriore conferma giunge anche dalle conseguenze strategiche dei mini-raid sull’Iraq. L’intervento diretto contro lo Stato Islamico, lungi dal cambiare le sorti del conflitto, consegna invece una “medaglia” ad al-Baghdadi che appare come il nuovo paladino dell’islam contro gli infedeli. Il leader dello Stato Islamico ha colto subito l’occasione per minacciare gli Usa di attentati, forte del fatto che la guerra a Washington gli garantirà un massiccio flusso di volontari provenienti da tutte le comunità islamiche di Africa, Asia ed Europa e l’opportunità di emarginare al-Qaeda alla guida del jihad globale emulando Osama bin Laden. La mini-guerra di Obama finirà per rafforzare lo Stato Islamico amplificandone capacità e ambizioni.

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