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Le tre guerre che stanno spingendo nel caos lo Yemen

di Gianandrea Gaiani 07-11-2014 lanuovabq.it

Mentre i riflettori sono tutti puntati sullo Stato Islamico e la Coalizione internazionale che dovrebbe arginarlo in Iraq e Siria, nel sud della Penisola Arabica lo Yemen sta sprofondando nel caos per l’ennesima volta nella sua breve storia. La guerra in atto nel Paese è in realtà la somma di tre conflitti diversi.

Il primo è tribale e religioso e vede il confronto tra gli sciiti della tribù Houthi legati a Abdel Malik al Houthi (leader storico della ribellione sciita repressa per anni dal governo di Sanaa con il supporto saudita) e le tribù sunnite. Gli Houthi godrebbero dell’appoggio militare iraniano grazie al quale a fine settembre hanno assunto il controllo della capitale, del porto di Hodeida e di tutto l’ovest del Paese e continuando ad avanzare verso sud dove le milizie tribali sunnite sono alleate a quelle di al-Qaeda. Da quando il 27 febbraio 2012 si dimise il presidente Alì Abdallah ??le? (al potere dal 1978 nel Nord Yemen e dal 1990 presidente di tutto il Paese) lo Yemen è sprofondato in uno stato di destabilizzazione progressiva che ha visto il presidente Abed Rabbo Mansour Hadi (già vice di Saleh) e le forze governative perdere il controllo del territorio a vantaggio delle diverse milizie tribali e dei gruppi qaedisti. La rapida conquista di Sanaa da parte dei ribelli sciiti, che rappresentano circa un terzo della popolazione yemenita, sembra confermare lo sfaldamento delle forze militari nazionali sulla carta composte da 400 mila militari in parte sbandati e in parte aggregatisi alle diverse milizie incluse le forze sciite come riferiscono alcuni report. 

 

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 Dopo l’occupazione quasi incruenta della capitale, l’intesa siglata il 21 settembre per costituire un governo di unità nazionale con la mediazione dell’inviato dell’Onu Jamal Benomar sembra destinata a restare solo sulla carta. I ribelli hanno lanciato un ultimatum che scade il 10 novembre al presidente Hadi per dare vita a un governo di coalizione minacciando in caso contrario un “colpo di Stato”, ma l’offensiva militare scatenata verso sud contro le tribù sunnite rischia di far tramontare ogni ipotesi di compromesso. Il conflitto confessionale potrebbe essere giunto, infatti, al punto di non ritorno, replicando su scala più ridotta quanto sta accadendo in Siria e Iraq. Anche sul piano militare le similitudini sono infatti rilevanti. Come quello iracheno anche l’esercito yemenita si è sfaldato e in parte appoggia i ribelli (in questo caso sciiti a differenza dei sunniti dello Stato Islamico). La guerra viene combattuta anche nello Yemen da milizie irregolari dotate però di equipaggiamenti e armi pesanti. Infine, sul piano militare la travolgente avanzata sciita si fa più difficoltosa penetrando nelle aree abitate da sunniti, esattamente ciò che accade alle forze del Califfato quando cercando di avanzare in aree sciite di Iraq e Siria e ai governativi dei due Paesi quando cercano di penetrare nelle regioni abitate in prevalenza da sunniti.

La seconda guerra vede i droni e le forze speciali statunitensi basati a Gibuti (ma un piccolo reparto di incursori era presente anche a Sanaa fino all’anno scorso) colpire regolarmente le milizie di al-Qaeda e i suoi leader in una regione che ospita una delle branche più pericolose e organizzate della rete fondata da Osama bin Laden. Almeno una mezza dozzina di raid (ma forse molti di più) sono stati effettuati nelle ultime settimane uccidendo decine di miliziani e qualche elemento di spicco del gruppo terroristico inclusi Nabil al Dahab e Shouki al Badani colpiti dai droni a Radaa nella provincia di Baydha contesa tra milizie sciite e sunnite. La maggiore vulnerabilità dei qaedisti yemeniti è infatti dovuta al loro coinvolgimento nel conflitto civile in atto. L’offensiva sciita li costringe a uscire dai rifugi e le azioni militari e terroristiche in atto contro sciiti e laici (attentati suicidi, azioni militari e uccisioni mirate di politici e ufficiali dell’esercito) obbligano i terroristi di al-Qaeda ad esporsi. Inoltre, non si può escludere che gli sciiti abbiano interesse a fornire agli statunitensi informazioni d’intelligence sul comune nemico mentre i qaedisti accusano il presidente Hadi e le forze armate di complicità con gli insorti sciiti.

Il terzo conflitto, per ora solo potenziale, riguarda la mobilitazione dei secessionisti del sud del Paese che fu uno stato indipendente come Repubblica Democratica filosovietica dal ritiro britannico dalla regione, nel 1971, fino all’unificazione con il Nord nel 1990. A metà ottobre ad Aden decine di migliaia di persone si sono riunite per chiedere l'indipendenza del Sud. I manifestanti sventolavano le bandiere che furono della Repubblica democratica e popolare. Rivendicazioni che non sembrano certo puntare a ripristinare una repubblica marxista, ma a smarcarsi da un Paese ormai al tracollo e a liberarsi dei nordisti che negli ultimi 25 anni hanno assunto ruoli di leadership in tutto il Sud e soprattutto negli affari della ricca città portuale di Aden.

La somma dei tre conflitti, che andrebbe in realtà vista come una sovrapposizione dei diversi fattori di instabilità, non inducono all’ottimismo circa le sorti dello Yemen. Anche in caso di accordo politico a Sanaa ben difficilmente le diverse milizie cesseranno di combattersi. Un’ipotetica stabilizzazione potrebbe venire favorita dal dispiegamento di una forza di pace internazionale che al momento appare improbabile. L’unica struttura politico militare transnazionale in grado di intervenire nello Yemen è il Gulf Cooperation Council, una sorta di “Nato del Golfo” composta dalle 6 monarchie petrolifere sunnite (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar) guidate da Riad. Un intervento che verrebbe però considerato certamente ostile dagli insorti sciiti (e da Teheran, grande sponsor di regimi e movimenti sciiti) e che trasformerebbe lo Yemen in un nuovo campo di battaglia nella guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran.

 

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