Corso di Religione

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Divorziati risposati nella Chiesa. Ancora su Amoris Laetitia.

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Divorziati risposati, la "ricetta" Galantino di Riccardo Cascioli 15-04-2016 lanuovabq.it


Monsignor Galantino – che era lì per spiegare l’esortazione apostolica Amoris Laetitia - ha raccontato questa storia per far capire cosa significhi discernimento, accompagnare le persone caso per caso: stesso discorso a stessa coppia, due “coscienze” diverse. Si tratta di un episodio molto interessante, che sicuramente accomuna altri preti, alcuni dei quali non per niente – come don Nunzio – hanno colto l’occasione di Amoris Laetitia per fare outing.

Finora la Chiesa ha infatti stabilito che un conto è accogliere le persone, un altro ammetterle all’Eucaristia. Davanti a situazioni oggettive di peccato come quella dei divorziati risposati (ma non è l’unica), se per vari motivi non è praticabile la separazione, l’accesso all’Eucaristia è possibile solo se c’è l’impegno a vivere in castità, come fratello e sorella.

Come mi diceva un parroco in questi giorni, questo non significa vedere tutto bianco o nero, o scagliare la dottrina senza guardare negli occhi le persone: si è sempre valutato caso per caso, ma con dei criteri oggettivi.

L’esempio di monsignor Galantino suggerisce invece che a cambiare non è l’ascolto e la condivisione delle fragilità delle persone (che ci è sempre stato), ma i criteri che si usano: se non c’è più un criterio oggettivo, alla fine tutto è lasciato alla coscienza (o opinione) del singolo.

A un comune fedele come il sottoscritto, il racconto non può non suscitare almeno due riflessioni:

1. La prima riguarda il valore dell’Eucaristia. Il Catechismo della Chiesa cattolica, dopo aver spiegato cosa è l’Eucaristia, invita a prepararsi adeguatamente prima di accostarvisi, anzitutto con un esame di coscienza, e cita San Paolo: «Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna (1 Cor 11,27-29)».

E chiosa: «Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione» (no.1385).

L’adulterio è un peccato grave, e sotto questa fattispecie rientra certamente il caso dei divorziati risposati, qualunque sia il grado di responsabilità con cui si è arrivati a quella situazione. Infatti ricorda ancora il Catechismo che «l’Eucaristia non è ordinata al perdono dei peccati mortali».

Davanti a un prete che non eccepisce al fatto che una persona in tale condizione si accosti alla comunione, i casi sono due: o non crede veramente che mangiare il corpo e sangue di Gesù in condizione di peccato grave porti alla propria condanna, o in fondo del destino di quella persona non gliene importa un granché.

Se un genitore vedesse il proprio figlio avvicinarsi pericolosamente con delle forbici a una presa elettrica lo bloccherebbe immediatamente anche in maniera brusca, sapendo delle conseguenze mortali di quel gesto. E non arretrerebbe neanche davanti a urla e strepiti del bambino che vuole provare quell’esperienza inconsapevole di ciò a cui va incontro.

Non per obbedire a una regola, ma semplicemente perché vuole il suo bene, vuole che viva. Nella Legenda Maior di San Francesco è raccontato un episodio della vita del santo, poi magistralmente dipinto da Giotto nel ciclo di affreschi che si possono ammirare nella Basilica superiore di Assisi: una donna era morta senza potersi confessare; San Francesco, tra lo stupore dei parenti, la fa resuscitare così che un prete possa raccogliere la sua confessione e poi lasciarla morire con l’anima in pace.

Nell’affresco, sopra la donna, è raffigurato un angelo che scaccia via un diavolo con ali di pipistrello. A dimostrazione che nella Chiesa il peccato si è sempre preso sul serio; non per obbedire a una legge ma per amore delle singole persone.

2. Una seconda questione balza agli occhi. Ciò che monsignor Galantino e altri hanno detto in questi giorni lascia intendere che nel corso degli anni questi sacerdoti hanno tranquillamente privilegiato la propria opinione rispetto a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato e raccomandato.

A dire il vero non è neanche così sorprendente visto che da decenni nei seminari e nelle facoltà teologiche viene insegnato un magistero parallelo, lontano da quello ufficiale della Chiesa. E i risultati si vedono.

Ma la domanda che ci poniamo è un’altra: se i primi a disobbedire sono certi preti, in base a quale criterio poi, questi stessi preti – magari diventati anche vescovi e cardinali - si aspettano l’obbedienza dei fedeli?

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"Amoris lætitia" non è magistero. La linea di resistenza del cardinale Burke http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

"Resisterò", promise un anno fa il cardinale Raymond L. Burke a chi gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se il papa avesse permesso la comunione ai divorziati risposati.

E ora che Francesco si è pronunciato, il cardinale spiega come intende resistere. Lo ha fatto in un testo di 2400 parole pubblicato in esclusiva l'11 aprile in inglese dal National Catholic Register e rilanciato il giorno dopo in italiano da La Nuova Bussola Quotidiana.

La sua linea di resistenza consiste essenzialmente nel non riconoscere alla "Amoris lætitia" il rango di documento magisteriale, ma semplicemente quello di "una riflessione del Santo Padre", di un suo "punto di vista che egli non intende imporre". E quindi, ne deriva, "l'esortazione apostolica postsinodale può essere correttamente interpretata, in quanto documento non magisteriale, solamente usando la chiave del magistero, come spiegato nel Catechismo della Chiesa cattolica".

Un magistero che naturalmente è quello che precede l'attuale pontificato. E che resta pienamente in vigore. In verità lo stesso Francesco – e Burke lo fa notare – ha confessato nell'esordio dell'esortazione, al paragrafo 3, una certa sua ritrosia a pronunciarsi con tutti i crismi magisteriali.

Ma anche qui con quella ambiguità di linguaggio che rende l'intero suo discorso aperto alle più diverse letture, anche là dove sembrerebbe più assertivo, come ad esempio nel paragrafo 301: "Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta 'irregolare' vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante".

La tesi di Burke è che l'errore non stia nella "Amoris lætitia", ma nelle interpretazioni di chi la vede "come una rivoluzione nella Chiesa, come un radicale allontanamento dall’insegnamento e dalla prassi della Chiesa, sul matrimonio e la famiglia, così come trasmesso fino ad ora".

Anche il cardinale Walter Brandmüller, in un'intervista a "Bild" ripresa dal sito katholisch.de della conferenza episcopale tedesca, si scaglia contro le "cattive interpretazioni" dell'esortazione papale, che "annacquano" il magistero e "minano la credibilità della Chiesa".

Sia lui che Burke, però, non mancano di criticare almeno un punto della "Amoris lætitia" che ritengono foriero di confusione. Per Brandmüller il punto inaccettabile è l'ammettere eccezioni al divieto della comunione per chi vive in uno stato di adulterio, perché "ciò che è fondamentalmente impossibile per ragioni di fede è anche impossibile in casi individuali".

Mentre per Burke un pericoloso equivoco nasce là dove l'esortazione fa riferimento al matrimonio indissolubile come a un "ideale": "Una tale descrizione del matrimonio può essere fuorviante. Può condurre il lettore a pensare al matrimonio come a un’idea eterna, alla quale gli uomini e le donne debbano più o meno conformarsi nelle circostanze mutevoli. Ma il matrimonio cristiano non è un’idea; è un sacramento che…".

È facile però prevedere che questa linea di difesa dell'insegnamento classico della Chiesa in materia di matrimonio non raffredderà minimamente il fervore sia teorico che pratico dei "rivoluzionari". In testa ai quali c'è sempre il cardinale Walter Kasper, il personaggio chiave dell'operazione che Jorge Mario Bergoglio ha condotto fin qui.

Per Kasper la "Amoris lætitia" è nientemeno che "il più importante documento nella storia della Chiesa dell'ultimo millennio". E chi si schiera apertamente con lui, come fa ad esempio il quotidiano "Avvenire" della conferenza episcopale italiana, non vede affatto nella "Amoris lætitia" soltanto "la riflessione ad alta voce di un padre saggio", ma proprio quello che il cardinale Burke non vuole vedervi: cioè "un documento del magistero" in piena regola, in cui "ci sono le note, i rimandi alle encicliche e alle esortazioni proprie, dei predecessori, e dei padri della Chiesa".

Un documento "saldo e rivoluzionario", che segna "l’archiviazione di una pastorale dei divieti e degli obblighi, mutuata più da una lettura pedissequa del codice di diritto canonico che non dal Vangelo". Povero cardinale Burke, grande canonista, che non si attacca a nient'altro che a codici e commi…

Perché inevitabilmente è anche a lui che pensa papa Francesco, senza amore né letizia, quando nel paragrafo 305 dell'esortazione – come già nel discorso alla fine del sinodo – se la prende con i legulei che "tirano pietre contro la vita delle persone" e i "cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite".

Ancora sull'incredibile nota 329 della "Amoris lætitia". http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Ricevo e pubblico questa breve e-mail: * Gentile Magister, l'esortazione apostolica "Amoris lætitia" ci ha letteralmente mandati in confusione... Io e mia moglie pensiamo infatti di rientrare in quella categoria dei "figli obbedienti" che ora non sanno più cosa pensare. Ci permettiamo solo di allegarle un "racconto" per chiarire il nostro pensiero. Grazie per la sua attenzione. [Lettera firmata] *

Questa e-mail riflette sicuramente l'amarezza d'un buon numero di altri "figli obbedienti", a seguito della pubblicazione della "Amoris lætitia".

AMORIS LAETITIA
NOTA [329] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 51).

La formula "figli obbedienti" era nel titolo di un post di pochi giorni fa e si riferiva a quei divorziati risposati che, dopo avere per anni obbedito alla Chiesa e riconosciuta la sapienza del suo magistero, si sono sentiti non confortati dall'esortazione, ma umiliati e derisi. In effetti – come Settimo Cielo aveva subito fatto notare – nella nota 329 della "Amoris lætitia" papa Francesco rivolge ai divorziati risposati che hanno scelto di convivere non più da adulteri ma "come fratello e sorella", e quindi con la possibilità di fare la comunione, un esplicito rimprovero: quello di recare un possibile danno alla nuova famiglia, poiché – parole letterali – "se mancano alcune espressioni di intimità, 'non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli'".

Questo con tanto di citazione – in realtà ritagliata da tutt'altro contesto – della costituzione conciliare "Gaudium et spes". E, peggio, col sottinteso che fanno meglio gli altri a condurre una piena vita da coniugi anche in seconde nozze civili, magari facendo anche la comunione. Dopo una simile doccia gelata non stupisce, quindi, lo smarrimento di tanti "figli obbedienti" e soprattutto dei più obbedienti tra loro. Perché al figlio maggiore della parabola del figliol prodigo il padre certo non riservò un trattamento così sprezzante. Anzi, fece tutto l'opposto. Una storia emblematica del loro caso è appunto quella allegata alla e-mail. Eccola. I nomi sono di fantasia. *

UNA STORIA DEI NOSTRI GIORNI

Tempo fa ho conosciuto una coppia di amici che avevano vissuto sulla loro pelle una storia di vita e di fede un po’ particolare, cioè un po’ fuori dagli standard cui normalmente siamo abituati. Provo a raccontarla. Lui, Andrea, cattolico tutto d’un pezzo, poco più che quarantenne, si era ritrovato col matrimonio all’improvviso sgretolatosi, per questioni che è inutile qui andare a dettagliare: dopo oltre sette anni di vita coniugale si ritrovò fuori di casa, con la figlia di neanche tre anni affidata alla ex-moglie e con le classiche regole per vederla: un fine settimana ogni quindici giorni, più una sera la settimana, le vacanze a metà, ecc...

Lei, Francesca, di qualche anno più giovane di Andrea, era stata abbandonata dal marito – che le preferì una collega d’ufficio – con due figli di 13 e 11 anni sulle spalle. E si trovò a dover vivere con grande difficoltà, sia materiale sia emotiva, una situazione che non aveva certo desiderato. Questi miei due amici, abitanti in due cittadine della pianura padana, si incontrarono casualmente, si conobbero, si frequentarono, si piacquero, e – cosa molto importante per loro che desideravano ardentemente ricostruire una famiglia – piacquero reciprocamente ai propri figli.

Andrea e Francesca iniziarono così una relazione sentimentale ed affettiva che, presto, li coinvolse totalmente. Fin dall’inizio, oltre alle problematiche che possono sorgere fra due estranei che cercano di mettere insieme i cocci di due vite precedenti, sorse anche il problema di fede dell’accesso ai sacramenti.

Le regole della Chiesa erano e sono chiare: fino a quando un uomo e una donna vivono “more uxorio” al di fuori del rispettivo vincolo coniugale, essendo “adulteri” non sono ammessi alla confessione e all'eucarestia, oltre che a una serie di altri momenti della vita ecclesiale. In quel momento della loro vita – essendo forte l’innamoramento e la passione – accettarono questo stato di cose, senza perdere però né fede né frequentazione alla vita della Chiesa, nei limiti loro possibili.

Dopo un paio di anni decisero di convivere nella casa di Francesca, anche perché Andrea aveva ottenuto il trasferimento del posto di lavoro vicino alla città di lei. Iniziarono così una nuova vita famigliare, con gli alti e bassi di tutte le famiglie normali, con le gioie e i dolori comuni a tanti, e con i problemi dovuti al fatto di essere una cosiddetta “famiglia allargata”, con la necessità quindi di dover gestire con i rispettivi ex-coniugi le convivenze dei figli in occasione di feste, vacanze, ecc...

Bene o male si raggiunge uno standard accettabile ma, dopo alcuni anni, quando l’ex-marito di Francesca chiese il divorzio per poi risposarsi con la sua nuova compagna, anche Andrea e Francesca pensarono di regolarizzare, per quanto possibile, la loro unione, convolando a nozze. Andrea aveva ottenuto, alcuni anni prima di conoscere Francesca, il riconoscimento di nullità del proprio matrimonio religioso, con successivo recepimento civile della sentenza, tornando così celibe a tutti gli effetti.

Per questo nulla ostava a un loro matrimonio civile, che venne celebrato con gioia e solennità, con gli amici più cari ed i famigliari più stretti, nel 2005. Restava comunque il cruccio della situazione religiosa non conforme. La soluzione era una sola: modificare lo “status” della loro convivenza.

Del resto, forse anche per un intervento discreto della Provvidenza, la passione ormai si era acquietata, stabilizzata per così dire, e una scelta di totale rinuncia poteva forse essere maggiormente presa in considerazione. E fu così che, sotto la benevola e paterna guida del proprio parroco, iniziarono un cammino di verifica che li portò poi, in pochi mesi, alla consapevole accettazione di una scelta di castità matrimoniale che, sola, poteva consentire loro una piena riammissione alla vita di fede nella comunità ecclesiale.

La scelta fu faticosa, senza dubbio: rinunciare alla pienezza della vita coniugale, nel senso comunemente inteso, non era certo facile; ma con la continua richiesta al Signore di un paterno sostegno per seguire la Sua strada, il cammino si poteva compiere. Non so al momento come proceda la vita di Andrea e Francesca: i casi della vita hanno fatto diradare un po’ i nostri incontri, una volta più frequenti.

Sono certo però, conoscendoli, che non cesseranno mai di chiedere al Buon Dio di guidarli ed assisterli, per camminare su quella strada che Lui ha tracciato per loro. È questa una storia vera che, in questo momento di dibattito – sia nella Chiesa sia fuori – sulla ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati, può indicare come affidandosi a Dio e rinunciando a un po’ del proprio orgoglio si possa percorrere la strada che la Chiesa, nella sua materna sapienza e bontà, ha sempre indicato.

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