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45 milioni e 800mila schiavi nel mondo; i tre perché della schiavitù .

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L’Indice Mondiale della Schiavitù, pubblicato questa settimana dalla Walk Free Foundation, rivela al grande pubblico che nel mondo ci sono ancora 45 milioni e 800mila schiavi.
di Stefano Magni04-06-2016 lanuovaabq.it



Si tratta di una stima, ricavata da sondaggi a campione e molto probabilmente inferiore al numero reale. Questi quasi 46 milioni di moderni schiavi si trovano per il 58% dei casi concentrati in soli cinque paesi: India, Cina, Pakistan, Bangladesh e Uzbekistan.



Se si guarda al rapporto fra il numero degli schiavi rispetto alla popolazione locale, vediamo una classifica leggermente diversa: il grosso della densità è in Corea del Nord, seguita, a distanza, da Uzbekistan, Cambogia, India e Qatar.

La classifica dell’infamia ha fatto il giro del mondo. Tuttavia emerge un dettaglio che potrebbe passare inosservato, ma non è affatto trascurabile. I paesi che registrano il maggior numero di schiavi, sia in termini assoluti che relativi, rispondono a caratteristiche culturali ben precise: islam, comunismo e società divisa in caste.

Se si guarda alla cultura prevalente nei paesi con il maggior numero di schiavi, l’islam è religione maggioritaria in Uzbekistan, religione di Stato in Pakistan, Bangladesh e Qatar, principale minoranza religiosa in India. Nella forma più estrema del fondamentalismo islamico, quella praticata dall’Isis in Siria, Iraq e Libia, la schiavitù è istituzionalizzata, gli schiavi vengono venduti sui mercati.

In Qatar troviamo una forma non troppo differente di schiavitù, quella dei lavoratori immigrati dall’Asia sudorientale costretti ai lavori forzati nei cantieri delle nuove metropoli del deserto o donne ridotte alla schiavitù sessuale, vendute o costrette a sposarsi anche minorenni. Gli stessi due tipi di schiavitù (lavori forzati e schiavitù sessuale) li troviamo in Bangladesh.

In Uzbekistan il grosso del problema della moderna schiavitù è costituito dai lavori forzati nei campi di cotone. A cui sono sottoposti cittadini reclutati a forza dallo… Stato. Dunque sono le stesse autorità che ricoprono il ruolo dello schiavista. Da questo punto di vista, l’Uzbekistan, ex repubblica sovietica il cui popolo non ha mai conosciuto la libertà, presenta una forma di schiavitù più simile a quella di un altro regime comunista, quello della Corea del Nord.

Nel “regno eremita” di Kim Jong-un, 4 cittadini su 100 lavorano come schiavi nei campi di concentramento, dietro accuse politiche, semplici sospetti o il mero rapporto di parentela con un altro condannato.

La Cina, che pure ha abolito ufficialmente i suoi campi di concentramento (Laogai) nel 2013, ancora registra diffusi casi di lavori forzati, pubblici e privati, oltre che un gran traffico di schiave sessuali. La Cambogia, passata da un regime comunista mega-omicida quale era quello dei Khmer Rossi (sotto i quali tutta la popolazione era sottoposta ai lavori forzati) ad uno più moderato filo-vietnamita, fino a quello attuale post-comunista, non ha mai conosciuto una reale libertà.

Non c’è da stupirsi, dunque, per la diffusione della schiavitù entro i suoi confini ancora oggi. Non è più uno schiavismo di Stato, come ai tempi di Pol Pot, ma diffuso nella società, sotto forma di matrimonio forzato (pratica che ai tempi dei Khmer Rossi era imposta per legge), traffico della prostituzione e lavori forzati.



L’India, con i suoi 18 milioni e 354mila schiavi, batte numericamente qualunque altro paese al mondo. Nella sua immensa società si ritrovano tutte le forme di schiavitù, da quelle più arcaiche (schiavitù per debiti contratti dalla famiglia), tradizionali (lavori obbligatori per le caste inferiori) a quelle più moderne (reclutamento forzato nelle milizie ribelli).

Non è possibile spiegare la vastità del fenomeno in India usando solo argomenti economico-sociali, come le migrazioni interne o l’impetuoso sviluppo economico nell’ultimo ventennio, foriero di nuove disuguaglianze. E’ possibile comprenderlo solamente tenendo presente il sistema tradizionale induista, una società divisa in caste alle quale le persone appartengono sin dalla nascita e dalle quali non possono uscire mai.

E’ possibile capirlo solo prendendo in considerazione anche l’estrema disuguaglianza fra uomini e donne, ancora vittime, in gran numero, di infanticidio, aborto selettivo e matrimonio forzato.

Lo schiavismo, nel Novecento, è stato ancor più diffuso nei sistemi comunisti. Dove gli induisti dividono la società in caste, i comunisti la dividono in classi. Il “nemico del popolo” non ha diritti ed è considerato tale solo in forza della sua appartenenza alla classe nemica, anche se non ha personalmente commesso alcun crimine.

Il lavoro forzato, che sotto il comunismo ha uno scopo teoricamente “rieducativo”, può durare a vita e riguardare anche figli e parenti dei condannati. E’ una forma di schiavitù a tutti gli effetti, inflitta a persone considerate inferiori. Anche dove non viene più praticata la "rieducazione", resta intatta una mentalità in cui lo Stato può disporre liberamente dei suoi cittadini per raggiungere i suoi scopi. Come nel caso dell'Uzbekistan, che sottopone periodicamente parte della sua popolazione alla corvée della raccolta di cotone. L’islam considera uguali tutti gli uomini.

Ma non i miscredenti che si pongono al di fuori dell'islam o contro di esso, gli infedeli, gli apostati. E nemmeno le donne, che sono ovunque segregate. Un maschio musulmano schiavo di un altro musulmano è pressoché impensabile. Ma un “infedele” immigrato dall’Asia è considerato letteralmente come un sotto-uomo. Così come hanno meno diritti le donne, benché musulmane.

E non è una questione di leggi. In India, così come in Cina, Cambogia e nella maggior parte dei paesi censiti, la schiavitù è vietata per legge. Non è neppure solo un problema dovuto alla mancanza di controlli o alla corruzione/connivenza delle autorità. Lo schiavismo è principalmente un fenomeno culturale: alligna laddove manca il rispetto per la persona e per la sua libertà, dove il tribalismo non è contrastato, ma viene incoraggiato dalla religione di maggioranza o dalla ideologia prevalente. Viene accettato nel momento in cui un’intera categoria di persone viene considerata inferiore.

 Il report 

Il Papa: contro le schiavitù il partito dei giudici  



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