Corso di Religione

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Bioetica globale
Bioregno I – Bioetica globale: il tutto interconnessosource :http://77.81.234.212/moralia/blog Moralia Blog , 26/01/2018.
Francesca Marin, 15/11/2017

Muovendo dall’assunto che tutto sia strettamente relazionato, oggigiorno l’integralità appare un criterio imprescindibile per comprendere e affrontare ogni problematica, sia essa sociale, politica, ambientale, economica o culturale.

In effetti, si adotta ad esempio un approccio riduttivo dinnanzi al fenomeno dell’inquinamento nel momento in cui ci si limiti a constatare il degrado ambientale che esso comporta; è questa una chiave interpretativa univoca che dimentica come tale fenomeno, pregiudicando tra le altre cose la qualità e l’accesso alle risorse naturali, specie per i paesi più poveri del mondo, sollevi anche questioni di giustizia sociale nonché di responsabilità nei confronti delle generazioni future.

Ecco perché, come giustamente evidenzia papa Francesco nel quarto capitolo dell’enciclica Laudato si’, un luogo inquinato è espressione di un’unica e complessa crisi socio-ambientale (139).

I temi globali dell'etica: dall'ecologia alla salute...

Nell’ultimo decennio l’esigenza di ampliare lo sguardo e di prediligere un approccio integrale è emersa anche nel dibattito bioetico: dovendo superare un orientamento biomedico che la portava ad occuparsi prevalentemente delle questioni etiche sollevate dal continuo progresso medico-tecnologico, la bioetica è oggi chiamata ad affrontare temi di portata globale, quali il rispetto della dignità umana e delle libertà fondamentali, l’accesso giusto ed equo alle cure essenziali, la condivisione dei benefici derivanti dalla ricerca scientifica e la protezione della biosfera e della biodiversità.

Sono questi alcuni dei principi contenuti nella Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani approvata all’unanimità il 19 ottobre 2005 dalla trentatreesima Conferenza generale dell’UNESCO.

A dire il vero, negli ultimi anni già a livello biomedico si è avvertita la necessità di adottare una prospettiva più ampia: quando si parla di promozione della salute, è sempre più frequente l’utilizzo dell’espressione “salute globale” che invita a cogliere l’interdipendenza tra le varie dimensioni dell’esistenza umana che concorrono a determinare lo stato di salute.

In questa direzione va anche l’attuale Codice italiano di deontologia medica il quale, all’art. 5 con perifrasi Promozione della salute, ambiente e salute globale, chiede al medico di «considerare l’ambiente di vita e di lavoro e i livelli di istruzione e di equità sociale quali determinanti fondamentali della salute individuale e collettiva».

Tutto è interconnesso

Alla luce di queste brevi considerazioni, si può constatare come non possa che rientrare anche in ambito bioetico la visione del tutto interconnesso, cioè l’idea in base alla quale ogni cosa è relazionata all’altra e si deve quindi tenere conto dell’interconnessione tra l’uomo e le altre forme di vita nonché tra gli esseri viventi e l’ambiente che li circonda.

Pur essendo condivisibile, questa visione rischia però di dar luogo a pericolose logiche di appiattimento qualora non sia antropologicamente fondata. È questo un pericolo rilevato dallo stesso pontefice nell’enciclica richiamata in precedenza quando afferma in maniera sintetica ma altrettanto netta: «Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia» (118).

In effetti, per poter prestare attenzione e cure al bioregno, l’uomo deve innanzitutto riflettere su se stesso e attivare quel meccanismo della motivazione che può condurlo ad essere un soggetto morale in relazione con l’ambiente. Detto altrimenti, egli dovrà chiedersi: che tipo di essere umano voglio diventare? Perché devo istituire una buona relazione con le altre forme di vita e con l’ambiente che mi circonda?

Da questo punto di vista, il contributo della bioetica può risultare significativo soprattutto nel momento in cui solleciti tali interrogativi e favorisca una visione integrale che riconosce le interconnessioni ma al tempo stesso le specificità e le differenze tra le molteplici componenti della biosfera.

Bioregno II - Un nuova saggezza: la bioetica globale Simone Morandini, 16/11/2017

Di fronte alla parola bioetica, il pensiero va quasi naturalmente a questioni legate all'ambito della medicina o, più in generale, a quello dell'esistenza umana nella sua dimensione biologica. In effetti, la riflessione bioetica proposta dalla grande maggioranza dei testi in circolazione - che muova da un approccio basato su principi o che prenda a forma in relazione alle virtù o alla cura; che sia centrata sulla legge o sulla responsabilità; che si declini come laica o come religiosamente fondata - tratta comunque delle vicende di uomini e donne e delle scelte che essi/e si trovano ad affrontare in tali ambiti.

Non a caso essa nasce a partire dalla tradizionale etica medica, pur ripensata in contesti decisamente nuovi. Una parola e i suoi significati In realtà quando il termine è stato coniato, il suo significato era abbastanza diverso, che però è poi caduto quasi completamente in disuso nella riflessione successiva.

Il primo ad usare la parola bioetica sembra, infatti, essere stato nel 1970 l'oncologo Van Resslaer Potter, che l'ha poi ripresa l'anno successivo per la raccolta di saggi in cui proponeva una nuova riflessione etica (Bioetica, ponte verso il futuro; ed. it. Sicania, 2000). Quella che disegnava l'autore americano era un'etica della vita in senso ampio, in grado di misurarsi con le sfide globali alla sopravvivenza dell'umanità - a partire dall'inquinamento e dal suo impatto sulla salute umana e più in generale dell'ecologia.

Era una "nuova saggezza", capace di offrire "la conoscenza di come usare la conoscenza". Era cioè un'etica che - aldilà della nefasta separazione tra le due culture - muovesse da una comprensione della vita stessa ampiamente radicata in quel sapere biologico che egli compendiava nei 12 postulati enunciati nel capitolo I.

Origini cui ritornare? Di fronte alle aporie in cui così spesso sembra trovarsi oggi la riflessione bioetica, il nome di Van Resslaer Potter viene talvolta evocato come punto di riferimento, cui ritornare per una prospettiva più ampia. In realtà, rileggendo la raccolta di saggi del 1971 non poche sono le ingenuità, che impediscono passaggi troppo facili. Il riferimento alla rilevanza etica della biologia è così immediato da sfiorare lo scientismo; minimale l'attenzione per le mediazioni necessarie ad un autentico argomentare morale; francamente superficiale la netta contrapposizione tra un'etica fondata sulla scienza e l'insieme delle etiche religiose.

L'ampiezza dell'intenzione si declina cioè in tale opera pionieristica in una prospettiva ancora ristretta, non veramente all'altezza di un punto di vista specificamente morale.

Allargare l'orizzonte

Eppure vi sono anche indicazioni importanti, che meritano una considerazione più attenta. Da un lato l'istanza metodologica di articolare la riflessione etica su solide competenze scientifiche, che non si limitino alla comprensione di fenomeni particolari, ma sappiano misurarsi con un'effettiva percezione della vita nella sua complessità biologica.

Dall'altro l'esigenza di allargare lo spettro di interesse della bioetica stessa alla considerazione di quello che K.Danner Clouser nell'edizione del 1974 dell'Encyclopedia of Bioethics chiamava bioregno, a disegnare una correlazione forte con l'etica ambientale. Impensabile, in effetti, una bioetica che continui a concentrarsi in modo esclusivo sulla vita individuale o sulla dimensione clinica senza coglierne la correlazione - ad esempio - con fenomeni globali come il mutamento climatico.

È del resto in tale prospettiva che l'espressione bioetica globale è stata ripresa negli ultimi decenni, ad esempio da Henk Ten Have, direttore emerito della divisione di Etica della scienza e della Tecnologia dell'UNESCO, disegnando un orizzonte valorizzato in Italia anche dalla Fondazione Lanza.

Il problema è quello di perseguire tali istanze con attenzione ed equilibrio. Da un lato la valorizzazione della dimensione scientifica entro la bioetica andrà bilanciata con un'approfondimento dell'orizzonte umanistico in cui essa si inscrive (come fa ad esempio U. Curi nel suo recente Le parole della cura, 2017), qualificandola cioè anche davvero come bioetica.

Dall'altro, occorrerà evitare che la correlazione con l'etica ambientale si trasformi in identificazione (magari con pericolose pretese di assorbimento dell'una nell'altra): un approccio integrato non dovrà cancellare la specificità di punti di vista che hanno metodi e assiomi in parte diversi. La complessità della vita rimanda, insomma, ad una complessità dell'umano, che con essa si intreccia inestricabilmente. Un pensiero morale responsabile dovrà essere davvero fedele all'una e all'altra, accogliendone le sfide.

Le neuroscienze sono quell’insieme interdisciplinare di studi (comprendenti biologia, matematica, fisica, chimica, statistica…) che si occupa dell’anatomia, della fisiologia, della biochimica, delle patologie del sistema nervoso centrale e periferico, dei suoi effetti sul comportamento e delle esperienze mentali.

Durante la conferenza «Neuroetica: una mappa del territorio», tenutasi a San Francisco nel maggio del 2002, fu utilizzato per la prima volta il termine neuroetica per indicare il rapporto tra le neuroscienze e l’etica.

La neuroetica si presenta pertanto come una disciplina complessa e interdisciplinare: i suoi confini sono in continua trasformazione, sia per la costante acquisizione di dati neurobiologici, sia perché le etiche individuali e collettive, nei diversi contesti sociali, sono anch’esse in continuo sviluppo.

Possiamo senz’altro affermare che il rapporto tra le neuroscienze e l’etica è reciproco. Non solo da una parte le neuroscienze offrono dati neurobiologici per comprendere determinati meccanismi circa alcuni comportamenti, o circa la nostra capacità di esprimere giudizi morali, ma anche, viceversa, ci si interroga sulle implicazioni morali delle neuroscienze.

Comunemente si parla di «neuroscienza dell’etica» nel primo caso e di «etica delle neuroscienze» nel secondo caso.

Neuroscienza dell’etica

Questo settore d’indagine si occupa di questioni relative alla natura della nostra libertà individuale e alla sua relazione con i nostri meccanismi neurofisiologici. I principali ambiti euristici riesaminano questioni «classiche» – quali i processi cognitivi ed emozionali, il libero arbitrio, la coscienza, l’identità personale… – secondo una prospettiva neurobiologica.

Un esempio: come potremmo ripensare la «responsabilità» qualora le tecniche di neuroimagining dimostrassero un rapporto di causalità diretta tra funzionamento cerebrale e reazioni comportamentali?

È evidente come tali studi abbiano (o possano avere) ripercussioni notevoli e dirette su diverse branche del sapere, come ad esempio il diritto. Etica delle neuroscienze L’etica delle neuroscienze si occupa d’altro canto di questioni relative all’impiego delle conoscenze neuroscientifiche.

Quali questioni morali emergono dalle neuroscienze e quali il loro impatto sul vissuto personale e sociale, anche in termini di equità nel contesto socio-culturale, a breve – medio – lungo termine? Teologia morale e neuroetica: quale relazione?

Sulla relazione tra i due ambiti molte domande restano ancora senza risposta. La teologia in genere, e in particolare la teologia morale, è chiamata ad ascoltare e discernere tra le acquisizioni neuroscientifiche e le teorie neuroetiche. Paolo Benanti, in conclusione alla sua relazione «Come le neuroscienze sfidano l’etica», tenutasi il 28 luglio 2014 durante l’annuale settimana di studi promossi dal Segretariato attività ecumeniche (SAE), così afferma: Interrogarsi sul rapporto tra le diverse discipline (umane, filosofiche, neuroscientifiche) e la teologia morale, in quanto disciplina teologica che riflette sul fenomeno della moralità esercitando la ratio illuminata dalla fede, rappresenta una domanda sui fondamenti della teologia morale e su come essa possa aver cura della propria specificità epistemologica e contenutistica.

La riflessione da fare deve ricordare che la dipendenza di una disciplina dall’altra non è a senso unico. Chiaramente il discorso è sulla relazione tra le discipline, poiché sul piano ontologico il cristiano sa qual è l’unica via di dipendenza: Dio, Gesù Cristo, l’uomo. La neuroetica inserita in un contesto di riflessione teologico-morale deve sempre aver presente che la dipendenza è reciproca: nell’esercizio della riflessione teologica, nei vari ambiti connessi, occorre che, a partire dalla disciplina in cui si sta esercitando la riflessione teologica, si vada a verificare nelle altre discipline la correttezza e la coerenza di ciò che si sta dicendo: s’instaura un circolo ermeneutico che indica una dipendenza reciproca e continua.

Autonomia delle discipline non equivale ad autarchia. Ogni disciplina ha una sua base specifica di esperienza, di approccio e di funzionalità: i risultati di ogni disciplina saranno verificati o falsificati in base a quelle specifiche esperienze che sono il campo di ricerca della disciplina stessa. In forza dell’autonomia delle varie discipline nessuna conclusione neuroetica è direttamente trasponibile in conclusione morale.

Il problema diviene l’interrelazione: il moralista riflette su dati dell’esperienza umana in quanto libera, consapevole e responsabile, ma sono dati offerti e interpretati da altre discipline, tra cui la neuroetica, e di queste discipline la teologia morale ha bisogno.


Il cervello: buono o cattivo? Antonio Gerardo Fidalgo, 26/01/2018

Si sente dire: «Tu non hai un sassolino nel cervello, hai gli scogli»; «Non hai cervello!»; «Apri il cervello!» ecc.; in genere per cervello s’intende la «mente» o un modo di pensare, d’impostare la propria comprensione sulla vita.

Per altri il cervello è più l’anima, luogo primo e ultimo che rende la nostra esistenza veramente umana, la «sedes sapientiae» insomma. Si pensa poi che questa «mente» sia controllata dall’io personale, come se fosse un organo da formare e guidare. Ma per non pochi è il cervello il centro del controllo umano. Ma con quale rapporto?

Si parla perfino di «morte cerebrale» per sancire la fine di una vita umana che meriti di essere tale. O ancora c’è chi dice «dimentica il cervello [cioè la ragione] e ascolta il cuore [cioè le emozioni, sentimenti]». Al di là di questo dicotomico luogo comune, oggi con maggioranza di accordi si parla di «cervello empatico», «pensiero senziente» e simili: perché l’essere umano è un sistema che funziona nell’integralità della sua complessità, e dunque niente di ciò che gli appartiene può essere veramente conosciuto senza assumere e rispettare questa conformazione sistemica.

Il cervello è ovviamente un organo umano e ha una principalità funzionale, si può dire, con rispetto agli altri organi; è un organo che si sviluppa lungo tutto il corso della crescita umana e bio-sociale (almeno secondo l’opinione più condivisa, fino a i primi 14 anni di vita), e resta sempre un organo flessibile, in continuo accomodarsi e ricrearsi per offrire delle funzioni di relazione che permettano all’essere umano di comprendere se stesso e tutto ciò che forma il suo mondo.

È un organo in gran parte geneticamente informato da – e allo stesso tempo conformato a – tutto ciò che proviene dall’esperienza e da fattori epigenetici, e, a quanto pare, anche «personalizzato», nel senso che la sua anatomia varia da persona a persona, come sembra facciano anche i modelli dei circuiti neuronali.

Cervelli sbagliati?

Lasciamo ad altre sedi la considerazione se abbiamo due o tre cervelli a seconda della conformazione e dello sviluppo storico-genetico, e assumiamo il cervello come un’unità sistemica diversificata. I neuroni e le sinapsi sono le componenti principali di molte operazioni che il cervello pone al servizio del nostro organismo, e in un certo senso possiamo dire che esse organizzano la nostra esistenza umana, sia per renderla più umana sia, talvolta, per disumanizzarla.

Ma qui emerge la domanda: siamo noi i cattivi o è il nostro cervello che, funzionando male, oppure mal formato/informato, ci fa fare il male che, forse, noi nemmeno vogliamo fare?

L’essere umano è datum e factum, meglio ancora, si realizza sempre a partire da ciò che costituisce la sua base biologica e, strada facendo, si va formando, integrando una considerevole diversità di variabili socio-culturali. Si può dire che sono le esperienze umane concrete quelle che danno la spinta ai movimenti delle funzioni del cervello, danno forma si può dire alle progettazioni dei circuiti che attivano una serie di meccanismi destinati a mettere in azione le capacità pre-disponibili nel programma genetico di base.

Queste esperienze implicano una visione integrale del vissuto umano, sempre complesso e sistemico, e dunque fanno comprendere l’importanza di una formazione olistica che tenda a una migliore umanizzazione della persona, aiutandola a vivere rapporti relazionali sani e liberatori, e permettendole così di sviluppare al meglio le sue capacità di base e di crearne di nuove. Così, attraverso un rapporto dialettico tra il dato e le scelte l’essere umano può costruirsi o distruggersi, costruendo o distruggendo allo stesso tempo la realtà.

I sistemi del cervello e i dati genetici possono influenzare per il bene o per il male, ma resta decisivo il modo in cui questi possono essere ricevuti e gestiti. Per dirla diversamente, natura e cultura sono in collaborazione fedele e creativa.

Corpo, cervello, emozioni

All’interno di questa comprensione vorrei soffermare l’attenzione su tre elementi antropologici che hanno un valore teologico e anche una grande importanza per capire la moralità come valore umano. Gli elementi sono: corpo, cervello ed emozioni.

VIDEO : Il cervello del cuore

La nostra esperienza umana implica direttamente il nostro corpo: mettiamo (con coraggio o indifferenza; per esporlo o nasconderlo) il corpo in gioco per vivere, è attraverso il corpo che sperimentiamo la vita (positivamente e negativamente), attivando delle emozioni che, in rapporto con le attività del cervello, aiutano a stabilire dei comportamenti morali, ossia, ci fanno «scegliere» degli atteggiamenti con cui vogliamo conformare la nostra esistenza.

Il corpo interviene con due elementi base, come luogo di molteplici interscambi di funzioni tra i diversi organi che lo compongono e inoltre come luogo e mezzo di comunicazione con la realtà circostante. Il corpo è un sistema dove si ritrovano in rapporto elementi biologici-chimici-sociali.

L’assunzione e la gestione di tutto ciò si potrebbe dire è la base del comportamento umano. Il cervello interviene come la base sistemica che rende possibile l’attivazione della mente emotiva, cioè che l’essere umano attivi il suo pensare senziente in ordine a generare atteggiamenti morali.

L’empatia interviene sia come elemento di collegamento sistemico, innescato sia da fattori chimici e organici sia da fattori esterni attivati dal rapporto con la realtà, che, attivando la sfera dei sentimenti, produce degli affetti da cui si parte e si ritorna per configurare il vissuto concreto umano.

In un’ottica teologica

In una visione teologica si può dire che la presenza umana di Dio in Gesù ci mostra a sufficienza questa bella correlazione tra corpo, cervello (come base per la mente) ed emozioni. Non abbiamo qui lo spazio sufficiente per dimostrarlo, ma possiamo affermare che nell’annuncio del programma di Gesù questa dinamica è attiva. Gesù si fa presente nella Galilea, cammina e annuncia, si fa vedere e sentire, e dice: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete» (Mc 1,15).

Fa un appello esistenziale in cui attiva la memoria, mette in ansia, richiede un cambiamento della forma di pensare, di impostare la vita. Tutto ciò non può che smuovere tutta la persona, mettendo in discussione ogni cosa, e chiamandola a vivere una vera e propria avventura.

Inoltre, siamo parte del corpo vivente di Cristo risorto nella storia, un corpo complesso, bello, variegato senza misura, con una immensa varietà di doni, e che si dispiega nella plasticità esistenziale al servizio della vita.

Siamo il cervello vivente di Dio, per così dire, che discerne, sente, ama, si dona, si appassiona, si rivela, sempre in ricerca di comprendere e di accogliere la vita come parte dello stesso vivere.




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