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«Neuroscienze. Quale spazio per la libertà e responsabilità umana?

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Torino, sabato 17 giugno 2017, Aula Artistica, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, sezione parallela di Torino Convegno organizzato dal Centro Cattolico di Bioetica – Arcidiocesi di Torino con il patrocinio di Amci e Associazione «Bioetica & Persona Onlus»
source : http://www.bioeticanews.it

Neuroetica

Neuroteologia

Teologia quantistica







Saluto di Mons. Cesare Nosiglia
" ... Il tema scelto «Neuroscienze. Quale spazio per la libertà e responsabilità umana?» richiede un’attenzione particolare.

È grande, infatti, il beneficio che le nuove tecniche di neuroimaging hanno offerto allo studio del sistema nervoso centrale. I risultati ottenuti hanno favorito lo sviluppo delle neuroscienze che, con il coinvolgimento di diverse discipline, hanno contribuito a promuovere una sempre più acuta conoscenza dei dinamismi biologici che regolano le funzioni celebrali.

Le ricerche in atto sono foriere di importanti sviluppi. Potranno tra l’altro favorire la cura di patologie oggi gravemente invalidanti e, in un futuro non lontano, ripristinare funzioni neurologiche compromesse da traumi di diversa natura.

Non si potrà negare che ci sono dimensioni dell’essere umano che trascendono il dato biologico . Accanto a chi sostiene che le neuroscienze devono dedicarsi unicamente a questo tipo di ricerche, sono numerosi quanti arrivano ad affermare che questa multiforme disciplina non è destinata a rimanere confinata nell’ambito dell’osservazione empirica, ma deve occuparsi di tutte le dimensioni dell’uomo, addirittura di quelle spirituali, perché ogni agire umano troverebbe spiegazione nella fisiologia del cervello.

Le neuroscienze sarebbero quindi, a loro avviso, l’unica disciplina in grado di offrire l’ultima parola sul comportamento umano. È palese che la proposta sopra descritta non sia equilibrata. Anche quando si conosceranno i meccanismi più nascosti del cervello, non si potrà negare che ci sono dimensioni dell’essere umano che trascendono il dato biologico.

La Pontificia Accademia delle Scienze nel corso degli anni si è interrogata più volte su questi argomenti. Recentemente ha proposto una nuova assise per continuare il dialogo tra neuroscienziati, filosofi e teologi nell’intento di dimostrare che la conoscenza dell’uomo non deriva unicamente dell’osservazione esterna e che le funzioni cerebrali da sole non sono sufficienti a spiegare le dimensioni etiche ed ontologiche della persona.

È importante ricordare allora quanto PAPA FRANCESCO asserisce nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium:


Quando il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo del loro specifico oggetto, rende evidente una determinata conclusione che la ragione non può negare, la fede non la contraddice. Tanto meno i credenti possono pretendere che un’opinione scientifica a loro gradita, e che non è stata neppure sufficientemente comprovata, acquisisca il peso di un dogma di fede. Però, in alcune occasioni, alcuni scienziati vanno oltre l’oggetto formale della loro disciplina e si sbilanciano con affermazioni o conclusioni che eccedono il campo propriamente scientifico. In tal caso, non è la ragione ciò che si propone, ma una determinata ideologia, che chiude la strada ad un dialogo autentico, pacifico e fruttuoso» (N. 243).


Introduzione di Giorgio Palestro - 9 ottobre 2017

Libero arbitrio, responsabilità e autocoscienza"Dio ci ha donato la vita in una condizione di naturalità fragile e caduca, come ricorda San PAOLO nella Lettera ai Romani (8,20-23). E proprio questa fragilità ci rende vittime del peccato. Ma insieme alla vita Dio ha donato all’uomo anche la completa libertà di gestirla secondo il proprio “libero arbitrio”, cioè libera capacità di scelta.

E ogni scelta presuppone l’esistenza della “responsabilità”. Mentre il semplice libero arbitrio offre all’uomo la libertà di scegliere fra le varie opportunità, magari perseguendo quelle che sono personalmente più convenienti e profittevoli, la responsabilità costituisce l’aspetto morale del libero arbitrio, in quanto inserisce l’atto di riflessione sugli effetti di una libera scelta o di un’omissione.

Come afferma il filosofo Filippo SANTONI DE SIO: «Questa forma di responsabilità rispecchia il modo più semplice dell’interazione tra persona e mondo…».

Il principio di “responsabilità” è requisito tipicamente ed esclusivamente umano. Solo l’uomo, fra gli esseri viventi, è in grado di selezionare le proprie azioni attraverso il senso di responsabilità, che orienta i comportamenti umani e i loro effetti sul piano etico, sociale, politico, giuridico. E' l’atto di responsabilità è esercitato dall’uomo come espressione della profondità della sua coscienza.

L’uomo, fra tutti gli esseri viventi, è l’unica creatura che, oltre alla coscienza percettiva, che consente di percepire gli avvenimenti che ci investono, e della quale dispongono anche gli altri animali, in grado proporzionale al loro diverso stadio evolutivo, dispone della coscienza introspettiva, che è la forma più profonda di coscienza, cioè l’autocoscienza o coscienza di sé.

Coscienza, oltre che di sé, anche degli altri; è la coscienza che consente di percepire il Trascendente, di cogliere l’estinguersi della vita e quindi di prefigurare la propria morte. In sostanza, è quel tratto di coscienza che consente di distinguere il giusto dal non giusto, il bene dal male.

E questa capacità di distinzione si realizza attraverso il senso di “responsabilità”. Fin dall’antichità il concetto di “libero arbitrio” è stato oggetto di grande interesse in ambito filosofico.

La domanda essenziale è sempre stata: l’uomo può essere ritenuto responsabile delle proprie azioni, con le conseguenti ricadute sotto il profilo etico e penale?

In altri termini, coscienza e libero arbitrio sono semplicemente funzioni illusorie, poiché ciò che avviene è conseguenza di condizioni predeterminate che si verificano in modo automatico?


Come sostengono i “deterministi”.

Se il quesito avesse risposta affermativa, significherebbe vanificare la capacità di esercitare la propria volontà attraverso il “libero arbitrio”.

Genetica, epigenetica e neuroscienze Negli ultimi anni le conoscenze scientifiche e lo sviluppo tecnologico nel campo della genetica e delle neuroscienze hanno subito un progressivo e forte incremento.

Sul piano genetico, è ormai noto che i geni non sono i soli e assoluti registi delle nostre azioni. La loro funzione è fortemente integrata con il vissuto epigenetico che origina sia dall’interno del nostro stesso organismo sia dalle influenze che noi esercitiamo attraverso l’ambiente esterno, e che ci consentono di attivare o spegnere le attività di determinati geni regolando così la loro funzione.

Ed è questo scenario orchestrale genetico-epigenetico che consente all’uomo di superare la dipendenza deterministica per esprimere in modo libero e responsabile la propria volontà, espressione del “libero arbitrio”.

Quanto agli aspetti neuroscientifici, le indagini effettuate mediante strumenti tecnologici sempre più raffinati hanno contribuito a illuminare non poco il complesso mondo della psiche e il suo funzionamento. E, di conseguenza, hanno contribuito a identificare gli ambiti strutturali la cui compromissione si riflette sia sull’esercizio del libero arbitrio sia sulla funzione della responsabilità.

Il contributo delle conoscenze multidisciplinari in ambito clinico e delle innovazioni strumentali nel settore neuroscientifico
Da queste indagini hanno tratto utilità non solo le conoscenze biologiche, ma anche le scienze forensi, sulle quali tali conoscenze hanno avuto forte impatto. Infatti, le nuove conquiste in questo ambito hanno contribuito a fornire mezzi nuovi e nuovi criteri utili nel processo di indagine dello stato mentale del “reo”, contribuendo a modificare gli aspetti applicativi del complesso ambito del Sistema della Giustizia.

In sostanza, i progressi delle conoscenze multidisciplinari in ambito clinico e delle innovazioni strumentali nel settore neuroscientifico, stanno dando un contributo all’approfondimento del rapporto tra libero arbitrio e responsabilità colpevole.

Capacità di intendere e capacità di volere Il libero arbitrio – afferma lo psicologo e psicoterapeuta Stefano LIONETTI – è ritenuto il fondamento della capacità di intendere e di volere: la capacità di intendere indica l’attitudine dell’individuo a comprendere il significato delle proprie azioni nel contesto in cui agisce, mentre la capacità di volere definisce quanto la persona sia in grado di controllare il proprio comportamento e i propri impulsi.

Ma sappiamo come tali capacità possono essere compromesse da eventi patologici neurodegenerativi o traumatici. In altri termini, come afferma ancora LIONETTI: bisogna decidere se chi ha commesso il fatto ha scelto di farlo in modo “libero” o se, altrimenti non poteva farne a meno, perché non più in grado di autodeterminazione.

In conclusione, il concetto di “responsabilità” ha anche importanti collegamenti con il complesso mondo del binomio mente−cervello umano e i suoi diversi stati di integrità. Si apre così un ampio spazio di dibattito in cui sono coinvolte competenze disciplinari diverse e aperte al dialogo fra i filosofi morali e gli specialisti di materie neuroscientifiche, giuridiche e sociali" .


Il libero arbitrio e le neuroscienze. L’inquadramento scientificodi Riccardo Torta 9 ottobre 2017 docente di Psicologia clinica e Psichiatria - Università di Torino

1. Introduzione " ..Il concetto di libero arbitrio (free will) è stato per secoli confinato alla discussione filosofica e, solamente negli ultimi decenni, è entrato nell’ambito delle neuroscienze. In tale contesto, una forte spinta di interesse è derivata dai pionieristici studi sperimentali di LIBET et al (1983) che hanno sollevato un acceso dibattito sulla neurofisiologia dell’intenzionalità del movimento.

Negli stessi anni, l’approfondimento delle conoscenze sulle basi anatomo-funzionali della psicopatologia ha consentito di calare il concetto di libero arbitrio, e delle sue limitazioni in caso di patologia dei circuiti emozionali, all’interno di molte dimensioni cliniche delle neuroscienze.

Il concetto di libero arbitrio: aspetti clinici e neurofisiologici Le principali componenti necessarie per il libero arbitrio sono
- la capacità di compiere delle scelte,
- la volontarietà dell’azione,
- l’obiettivo da raggiungere
- e la consapevolezza della propria azione (Schultz, 2015).

Sul versante clinico diviene quindi opportuno valutare quali aspetti psicopatologici (impulsività, depressione, temperamento, etc.) possano interferire sulla capacità individuale di esercitare una libera scelta decisionale.

Il libero arbitrio, risultato di un processo inconscio Sul versante neurofisiologico, riguardante la volontarietà del movimento, esiste un ampio dibattito su esperimenti che confutano la possibilità del libero arbitrio.

È dunque fondamentale considerare come i neuroni cerebrali siano spontaneamente attivi, anche in assenza di stimoli od azioni rilevabili: le esperienze mentali (pensieri, immaginazione, memorie) sembrano dunque generarsi anche spontaneamente.

Tale attività inconscia è tuttavia in grado di produrre delle modificazioni neurofisiologiche, che raggiungeranno solo in seguito un livello conscio, e che potranno, o meno, essere poste in atto come movimento: in tal senso il libero arbitrio non sarebbe una illusione, ma il risultato di un processo inconscio.

2. I circuiti cerebrali e le limitazioni psicopatologiche coinvolte nel libero arbitrio.
Fattori influenzanti il libero arbitrio: emozioni, pressione sociale…
Il libero arbitrio è associato con la capacità di operare delle scelte, ma, ovviamente, le scelte possibili sono circoscritte alle opzioni che sono disponibili, quindi limitate
- dallo stato fisico,
- dalle esperienze personali pregresse,
- dal contesto culturale
- e, principalmente, dallo stato emozionale.

Esistono dunque fattori, non del tutto impedenti, ma certamente influenzanti il libero arbitrio, quali ad esempio le emozioni, la pressione sociale, le convenzioni, le norme morali, le convinzioni, i pregiudizi, le superstizioni, etc.

Inoltre il libero arbitrio può essere correlato ad altri fattori bio-psico-sociali quali
- la la predisposizione genetica,
-l’attesa della ricompensa,
- l’evitamento del rischio,
- il timore della punizione (SCHULTZ, 2015).

3. L’attesa della ricompensa La ricompensa è in grado di influenzare i comportamenti e quindi limitare il libero arbitrio, nel senso di favorire la scelta della migliore opzione che garantisca la sopravvivenza.

Tale concetto va calato nel contesto biologico di come funziona la neurobiologia della ricompensa a livello cerebrale.
Influenza della stimolazione dopaminergica e delle dimensioni psicofisiche Il circuito cerebrale della ricompensa comprende varie aree e nuclei (di cui il principale è il nucleo accumbens) che funziona prevalentemente con il neurotrasmettitore dopamina (DA).

La stimolazione dopaminergica influenza le scelte ed i tempi di reazione e, quindi entra, nel meccanismo del libero arbitrio: un segnale di forte ricompensa nei neuroni dopaminergici esercita un’azione sugli obiettivi comportamentali che può inferire sulla scelta di un individuo.

Quando la dopamina viene eccessivamente incrementata, ad esempio farmacologicamente con farmaci pro-dopaminergici (uno dei quali è il pramipexolo, utilizzato nei malati di Parkinson), possono generarsi comportamenti di gioco d’azzardo patologico, nei quali la ricerca esasperata della vincita risulta una strategia che non lascia spazio a scelte di comportamento ponderate.

Esistono svariate dimensioni psicofisiche che sono in grado di interferire con i meccanismi di ricompensa e, quindi, con il libero arbitrio. Fra le principali è possibile ricordare
-l’impulsività,
- la compulsione,
- alcuni tratti di personalità,
- l’ansia e lo stress,
- la depressione dell’umore, specialmente nella sua componente anedonica,
- i comportamenti di dipendenza, etc.

4. L’impulsività Il comportamento impulsivo è caratterizzato da uno scarso controllo di sé, dalla ricerca di sensazioni appaganti, da strategie decisionali rapide, da una disinibizione comportamentale e da una scarsa preoccupazione per le conseguenze dell’azione (DALLEY and ROISER, 2012).

Tale dimensione psicopatologica si riscontra in varie patologie quali
- il disturbo bipolare,
- l’ADHD (deficit di attenzione ed iperattività),
- la malattia di Parkinson, i
- l disturbo borderline di personalità,
- il disturbo del controllo degli impulsi, etc.

I sistemi trasmettitoriali coinvolti sono principalmente
- quello dopaminergico, in particolare nella patologia di Parkinson e nell’ADHD1,
- e quello serotoninergico, soprattutto nei pazienti con impulsività aggressiva, in quelli con deplezione di triptofano, nei soggetti con tentativi suicidari.

La correzione farmacologica dell’impulsività, nei pazienti con ADHD, mira a ripristinare la capacità attentiva ed a ridurre l’iperattività, in modo da consentire di mantenere un obiettivo oltre il breve termine. Paradossalmente, in questi pazienti, è utile l’impiego di farmaci che potenzino il rilascio della dopamina frontale che incrementa la funzione inibitoria cognitiva della corteccia frontale sui comportamenti sottocorticali più istintivi.

È quello che capita nella demenze o nei traumi cranici quando l’incapacità di controllo frontale, per lesione traumatica e/o degenerativa di tali circuiti, disinibisce i comportamenti istintuali (fame, sesso, funzioni fisiologiche, etc.).

I farmaci serotoninergici invece correggono l’impulsività indotta da una riduzione di serotonina, in quanto incrementano la disponibilità di tale trasmettitore che modula i fenomeni emozionali di discontrollo (JUPP and DALLEY, 2014).

Il libero arbitrio nei comportamenti di dipendenza Anche nell’ambito dei comportamenti di dipendenza il libero arbitrio è ridotto dal fatto che fattori di personalità, associati all’impulsività, risultano essere elementi predisponenti ad una decisionalità che opera all’interno di una scelta fra una ricompensa immediata, anche se limitata (la gratificazione derivante dalla sostanza attiva), rispetto ad una ricompensa più importante, ma ritardata (la preservazione della salute).

In altri termini la scelta iniziale di assumere una sostanza, che genera dipendenza, può anche attuarsi in condizioni di libero arbitrio (anche se frequentemente risulta indotta da pressioni relazionali d’ambiente, come nei giovani per alcune sostanze d’abuso), ma nel prosieguo dell’assunzione, quando si sia generata una dipendenza, si instaurano meccanismi, quali il craving (uno dei sintomi della dipendenza, caratterizzato da un intenso e irrefrenabile desiderio di assumere una sostanza, prevalentemente d’abuso) che limitano fortemente la capacità di libera scelta di un individuo. In tale contesto sono certamente coinvolti meccanismi disfunzionali di gratificazione (quali un deficit dei segnali di ricompensa ed una incapacità di una adeguata valutazione a lungo termine delle conseguenze delle proprie scelte) (DONG e POTENZA, 2014).

Fra i tre principali temperamenti ( *2) cioè la ricerca di novità, la dipendenza dalla ricompensa e l’evitamento del danno, soprattutto quest’ultimo rappresenta una limitazione del libero arbitrio, in quanto l’ansia di non esporsi a situazioni di rischio, costringe il soggetto ad optare per scelte comportamentali di cautela.

Temperamento: l’evitamento del danno
Tale temperamento è frequentemente presente nei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo (OCD), con l’obiettivo di evitare potenziali perdite (KANG and Kim, 2009). Tuttavia, in questi soggetti, dati neuropsicologici e di neuroimaging più recenti (GRASSI et al., 2015), hanno riscontrato, una incrementata impulsività, con aspetti decisionali a rischio ed una disfunzione dei circuiti di ricompensa, assimilando in tal senso tali soggetti ad individui con dipendenza comportamentale, in quanto la riduzione dello stress, derivante dalla messa in atto del comportamento compulsivo, agisce di per sé come ricompensa.

Anche in questa situazione è ovvia la riduzione del libero arbitrio. In altri termini l’ansia indotta dall’ossessione (circuiti corticali) e la conseguente necessità di soddisfare l’ossessione mediante la messa in atto di una compulsione (circuiti sottocorticali), limita fortemente l’ambito della libera scelta.

Il timore della punizione è un fattore estremamente rilevante, dopo quello dei meccanismi di ricompensa, nella limitazione emozionale di un libero arbitrio. I circuiti cerebrali che orientano la capacità decisionale all’interno di un timore di punizione sono complessi (amigdala, corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale dorsolaterale destra) e si muovono all’interno di un bilanciamento fra un’assegnazione di appropriata punibilità (controllo emozionale) ed una corretta determinazione dei livelli di responsabilità (controllo esecutivo).

La stimolazione dei circuiti cerebrali regolanti il vissuto di punizione può inibire i circuiti di gratificazione (BURGOS et al., 2017). Il soggetto, nel tentativo di trovare opzioni di fuga dalla presunta punizione, subisce una forte limitazione nella libera scelta, mettendo in atto una scarsa capacità deliberativa e scarsi comportamenti proattivi.

Anche nel corso di un disturbo dell’umore, alcuni aspetti psicopatologici della depressione interferiscono fortemente sulla capacità decisionale di un individuo. L’ipovolizione, il senso di autosvalutazione delle proprie capacità, l’incapacità a provare gratificazione (anedonia), l’inerzia psicomotoria sono tutti elementi che impediscono una scelta adeguata di strategie comportamentali, orientando il paziente sulla scelta negativa (congrua con il suo umore) o facilitando una non-scelta " .

Note
1 ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder), sigla che sta per sindrome da deficit di attenzione e iperattività, è un disturbo dello sviluppo neuro-comportamentale e psicopatologico, caratterizzato da ridotta capacità del mantenimento dell’attenzione, iperattività motoria ed impulsività. Si manifesta nell’infanzia ma, se non curato, può protrarsi nell’età adulta dove, frequentemente, si associa ad altre patologie psichiche. Sul versante farmacologico i principali farmaci utilizzati (metilfenidato, atomoxetina) mirano ad incrementare alcuni neurotrasmetttori cerebrali, in particolare la dopamina, al fine di potenziare la capacità delle aree corticali frontali sul controllo sottocorticale degli impulsi. 2 Per temperamento s’intende, unitamente al carattere, una parte del complesso sistema della personalità: il temperamento rispecchia la componente più biologica, mentre il carattere sarebbe la risultante anche delle influenze ambientali. Le principali dimensioni del temperamento sono il Novelty Seeking (ricerca della novità), caratterizzato da ricerca della novità e degli stimoli; la Reward Dependence (ricerca della dipendenza), con una forte tendenza all’ottenimento di una gratificazione ed al raggiungimento di un’approvazione sociale; l’Harm Avoidance (evitamento del danno), caratterizzato da eccessiva preoccupazione e pessimismo.

Dalle neuroscienze alla neuroetica: per una libertà più umanadi P. Alberto Carrara Coordinatore del Gruppo di Neurobioetica (GdN) Ateneo Pontificio «Regina Apostolorum» – Roma,

1. Introduzione: il contesto " Alla fine del 2014 veniva pubblicato un libretto tascabile di 161 pagine intitolato La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze, edito da Carocci editore. L’autore è Piergiorgio STRATA (1935-), un neurofisiologo d’eccezione, presidente dell’Istituto nazionale di neuroscienze e direttore del prestigioso EBRI, l’European Brain Research Institute, che collaborò nella sua carriera con il premio Nobel per la Medicina John Eccles a Canberra e Chicago e con Rita Levi-Montalcini in Italia ( 1 ) .

Il volume si presenta come un lungo viaggio per indagare la mente e le cause dell’oscurantismo che in passato si è opposto al suo studio: dal dualismo di Cartesio alla scoperta della mente inconscia, fino alle attuali conoscenze sui fondamenti biologici di fenomeni quali la socializzazione, l’amore, l’emarginazione, l’aggressività e il piacere di odiare.

Un viaggio che non trascura l’emergere della coscienza e l’illusione del libero arbitrio: temi di filosofia morale e della mente rivisitati alla luce delle nuove teorie, con le immancabili ricadute sul sistema giudiziario (2).

Un libretto che sostiene l’illusione del libero arbitrio (willusionism). In queste poche righe vi è tutto un condensato di concetti, visioni antropologiche, interpretazioni filosofiche, teologiche, sociologiche, ma anche giuridiche ed etiche che dovrebbero venir esaminate e prese in considerazione da un punto di vista critico.

In un’era neuro-centrica come la nostra, tutto l’umano si trova a doversi confrontare con gli sviluppi e le scoperte delle neuroscienze e le conseguenti applicazioni neuro-tecnologiche.
L’illusione del libero arbitrio. I casi Phineas Gage e il paziente Elliot
Per sostenere il “mito” della libertà individuale e personale, Strata illustra alcuni esempi emblematici nella storia delle neuroscienze. Tra questi viene citato il noto caso di Phineas Gage che nel 1848, a seguito di un incidente mentre stava costruendo una ferrovia nel New England, una sbarra di ferro gli entrò nell’orbita dell’occhio sinistro attraverso la guancia e forò la base del cranio per uscire dalla parte superiore della corteccia orbitofrontale (OFC).

Gage, sopravvissuto all’incidente, cambia di personalità: non era più Gage! Questo caso, rappresenta il modello di alterazione delle personalità e del controllo del comportamento indotto da un esteso danno frontale capace di disinibire i freni corticali rispetto al sistema limbico sottocorticale che media le emozioni e gli istinti (in questo caso una de-regolazione bottom-up).

Un secondo caso celebre è quello denominato e studiato da Antonio Damasio nel 1995: il paziente Elliot. Quest’ultimo, per un danno frontale, manifestava una notevole asocialità e una quasi totale assenza di emozioni ed empatia.

Strata si domanda se orrendi serial killer come il cannibale di Milwaukee (Jeffrey Lionel Dahmer) che uccise in modo atroce almeno 17 persone, potesse risultare non capace di intendere e di volere o, quanto meno, non gli potesse venir ridotta la pena nell’evenienza neuroscientifica di un problema frontale simile a Gage ed Elliot.

Nell’articolo−intervista di Claudio Gallo su «La Stampa» Strata si chiede: «Se si fosse potuto stabilire che Dahmer soffriva di un problema al lobo frontale, come Gage, che non avrebbe potuto agire diversamente, la sua sentenza sarebbe stata diversa?» (3).

Per Strata (che riprende il pensiero di Benjamin Libet) il libero arbitrio sarebbe una sorta di “notaio”, un “veto” interiore che agirebbe una volta che le reali prese di decisione sono state configurate dal nostro cervello (o da una parte di esso).

Tolstoj: necessario rinunciare a un’inesistente libertà e riconoscere una dipendenza che non sentiamo. Sin dai tempi più remoti, il tema della libertà umana ha coinvolto l’interesse dei migliori pensatori. In un modo o nell’altro ci troviamo davanti alla contraddizione e allo scandalo tra due polarità: da una parte, il determinismo assoluto e, dall’altra, l’indeterminismo, il caso.

Sarà proprio lo spazio prodotto da queste due polarità del reale che renderà ragione di quella peculiarità, di quel proprium nell’essere umano che da millenni denominiamo “libero arbitrio” o “libertà della e nella volontà”.

Se la volontà di ogni uomo fosse libera, cioè ognuno potesse agire come gli talenta, tutta la storia sarebbe una serie di casi fortuiti slegati.

Se anche un solo uomo fra milioni di uomini nel corso di un millennio avesse la possibilità di agire liberamente, e cioè, a suo piacere, evidentemente un solo libero atto di quell’uomo, contrario alle leggi, annienterebbe la possibilità dell’esistenza di qualsiasi legge per tutto il genere umano.

Se invece esiste anche una sola legge che governi le azioni degli uomini, non può esistere la libertà dell’arbitrio, poiché la volontà degli uomini deve essere soggetta a questa legge
(4).

Così, Leon TOLSTOJ sintetizzava, nella seconda parte dell’epilogo della sua monumentale opera intitolata Guerra e pace, la conclusione filosofica a cui era giunto: «nel caso presente, è ugualmente necessario rinunciare a un’inesistente libertà e riconoscere una dipendenza che non sentiamo» (5).

Il grande scrittore russo non poteva certamente immaginare che dopo più di un secolo, il suo stesso scetticismo relativo alla libertà umana sarebbe tornato di moda, alla ribalta tecnico-scientifica e mediatica, alimentato, questa volta, dalla “rivoluzione” in campo neuroscientifico. Ecco emergere la problematica in tutta la sua forza: siamo davvero esseri dotati di libertà, oppure automi in balia di uno stretto determinismo neurobiologico? Nel fondo la questione si riassume nella domanda: che cos’è la libertà?
1.1. Neuroscienze Origine e sviluppo delle neuroscienze
Prima di procedere è doveroso chiarire il concetto “neuroscienze”, un neologismo relativamente giovane. Il termine fu coniato all’inizio degli anni Settanta quando Francis Otto Schmitt fondò l’NRP o Neuroscience Research Program (SWAZEY, 1974)6. Leggendo bene l’articolo di Judith P. Swazey, si evince che il NRP prese forma a partire dal 1962 quando Schmitt volle unificare le diverse discipline che studiavano il cervello da prospettive strutturali, funzionali e comportamentali.

Le neuroscienze si possono considerare quella «grande famiglia delle discipline biomediche afferenti alla neurologia, che si propongono di studiare il funzionamento del sistema nervoso; in particolare, del cervello. Accanto alle storiche specializzazioni (neurologia, neurochirurgia, psichiatria, psicologia), oggi vanno acquisendo sempre maggiore importanza nuove discipline − quali la neurogenetica, la neurobiologia, il cosiddetto neuroimaging − che stanno aprendo nuovi scenari di studio e ricerca neppure immaginabili solo pochi anni fa le neuroscienze studiano lo sviluppo, la struttura e la funzione del sistema nervoso» (7).

L’interesse per il cervello è antico quanto l’uomo stesso. Il neuro-centrismo contemporaneo si spiega alla luce della storia stessa della medicina relativa al cervello e al sistema nervoso (tanto centrale, come periferico). Sarebbe utile presentare una breve sintesi della storia delle Neuroscienze. Rimando ad alcuni testi significativi: al volume in lingua spagnola De la neurociencia a la neuroética (2010) (8) e dell’inglese A History of the Brain. From Stone Age surgery to modern neuroscience di Andrew P. WICKENS (2015) (9).

Dagli egizi ai giorni nostri: il cervello è associato strettametne al comportamento Uno dei dati significativi che emerge da questa narrativa storica che dagli antichi egizi arriva ai giorni nostri, è questo: il cervello è associato strettamente al comportamento. Danni cerebrali vengono correlati ad alterazioni di specifiche attività psichiche e viceversa.

Toccare il cervello è toccare la persona umana in uno dei suoi nuclei più significativi e costitutivi (10).

Neuromania e neuro-cultura La storia delle neuroscienze ha contribuito a che si dessero: la decade del cervello (1990-2000), quella della mente (2001-2011), l’anno delle neuroscienze (2012), lo Human Brain Project e The BRAIN Initiative (2013).

Questo progresso neuroscientifico e le scoperte relative al funzionamento e all’applicazione nanotecnologica, sia nell’ambito diagnostico, come in quello terapeutico, sul cervello umano, hanno creato un panorama scientifico e mediatico peculiare nella storia del pensiero che diversi esperti non hanno esitato a ribattezzare come una vera e propria “neuromania” (11).

Accanto a questa è sorta e si sta promuovendo una neuro-cultura che mira a diffondere le scoperte e le nozioni relative alle neuroscienze. Oggi, lo sviluppo delle capacità tecnologiche rende possibile studiare in vivo e visualizzare le aree del nostro cervello osservandone, anche in tempo reale, la loro maggiore o minore attivazione nelle circostanze più svariate. Questo ha prodotto un vero e proprio fiume di studi scientifici in base alla fantasia e al genio di ciascun ricercatore.

Dal voler comprendere le basi neurofisiologiche di attività umane quali la memoria, il linguaggio, la vista, la personalità, etc., si è iniziato a studiare i tratti più caratteristici dell’umano come la libertà.


1.2. Neuroetica Cos’è il cervello? Come funziona? Sono “io qualcosa di più del mio proprio cervello? Le domande aiutano ad addentrarsi nel merito di una disciplina.

Per comprendere cosa sia la neuroetica e di cosa si interessi è utile scorgere alcune delle domande a cui cerca di rispondere, come sottolinea il filosofo spagnolo Enrique BONETE PERALES nel suo volume Neuroética práctica. Una ética desde el cerebro (2010).

Alcune di queste domande sono: Che cos’è il cervello? Come funziona? Qual è il ruolo che svolge nell’esistenza umana? E (qual è il ruolo del cervello) nel processo del morire? Quali sono i vantaggi e gli inconvenienti della diagnosi di morte encefalica?Agiamo liberamente o è l’attività cerebrale che ci impulsa verso una determinata direzione?

Possiamo continuare a parlare di “anima” o questo concetto è stato già reso obsoleto grazie alle ricerche neuroscientifiche? Qual è il grado di coscienza che sperimentano i pazienti in stato vegetativo? Che cosa significa “essere cosciente”? È possibile intervenire direttamente sul cervello allo scopo di curare determinate patologie mentali? È lecito intervenire direttamente sul cervello allo scopo di migliorare le nostre capacità cognitive? È lecito somministrare sensazioni di felicità attraverso la stimolazione elettrica del sistema nervoso centrale?

Dobbiamo impiegare i farmaci che interferiscono con le funzioni cerebrali allo scopo di migliorare le capacità cognitive di soggetti privi di deficienze o di malattie mentali? Hanno qualche responsabilità morale coloro che sono affetti da malattie mentali? Pensiamo ed agiamo moralmente, condizionati dal funzionamento del cervello? In che modo una miglior comprensione delle basi cerebrali della cognizione morale, modificherà il nostro quadro etico-filosofico di riferimento? Gli sviluppi neuroscientifici mineranno le nostre nozioni di razionalità, volontà libera o responsabilità? È possibile organizzare le società alla luce dei progressi neuroscientifici? Sono “io” qualcosa di più del mio proprio cervello? (12)

Tra le domande emerge la nostra tematica: la libertà e viene abbozzato un grande ambito neurobioetico particolarmente dibattuto come è il cosiddetto willusionism. In questo contesto di applicazione all’uomo delle tecnologie neuroscientifiche, come già dal 1970 con l’oncologo Potter si era costituita la “bioetica”, così sorge la disciplina denominata neuroetica o neurobioetica che ha “festeggiato” nel 2017 il suo 15° anniversario dalla “nascita”.

Secondo diversi autori, tanto la bioetica, come la neuroetica affondano parzialmente le loro radici nel contesto interdisciplinare in cui sorgono le neuroscienze come concetto e come realtà all’interno del contesto medico-scientifico.

Origine e sviluppo della neuroetica La narrativa storica della neuroetica inizia sin dagli anni ’40 del secolo scorso. Bisogna ricordare, infatti che le società scientifiche che si occupano del cervello umano si costituirono proprio a partire dalla Federation of EEG and Clinical Neurophysiology, evento celebrato a Londra nel 1947, dall’omologo celebrato a Mosca nel 1958, dalla fondazione dell’International Brain Research Organization (IBRO) nel 1961, auspicata e voluta dall’UNESCO, e dalla nascita della Society for Neuroscience nel 1969 (13).

Queste società si focalizzarono inizialmente sulla promozione scientifica della ricerca sul cervello, riservando un’attenzione marginale alle implicazioni etiche e/o sociali di tali ricerche e applicazioni. Solo a partire dal 1972 la Society for Neuroscience istituì un Comitato di Responsabilità Sociale, il Commitee on Social Responsability, che poi divenne il Social Issues Commitee, che aveva lo scopo di informare tutti i membri della società scientifica e l’opinione pubblica, sulle implicazioni sociali degli studi relativi al sistema nervoso.

Questo comitato risultò di capitale importanza nello stabilire le diverse regolamentazioni etiche sull’impiego di animali da esperimento, nello specifico, primati e non primati. Nel 1983 questo stesso comitato iniziò una serie di tavole rotonde annuali su tematiche sociali, successivamente si iniziarono a trattare temi come: il miglioramento cognitivo, la morte cerebrale, la neuro-tossicità, etc.

Studi di neuro-elettrostimolazione di Delgado Lo scienziato spagnolo José DELGADO, grazie ai suoi studi di neuro-elettrostimolazione, ottenne le prime pagine del New York Times il 17 maggio 1965. Delgado aveva infatti impiantato degli elettrodi nel cervello di un toro da corrida, sulla scia remota delle torpedini di Scribonio Largo (65 d.C.).

Lo stimolo elettrico prodotto e controllato dal ricercatore spagnolo dimostrò, in modo rigoroso e scientifico, che modificazioni a livello elettrico cerebrale potevano modificare la condotta animale. Il toro infatti veniva manipolato nella sua corsa giungendo fino a retrocedere davanti al famigerato drappo rosso (14).

Questi risultati, insieme alle sperimentazioni con LSD (dietilammina dell’acido lisergico) su elefanti (sempre degli anni ’60) ad opera del ricercatore statunitense Louis WEST (15), segnano i primi tentativi seri e scientifici di valutare, dalla prospettiva etica, i progressi e le scoperte neuroscientifiche.

Su questa scia “nacque”, ancora in forma implicita, la neuroetica.
Il neuroeticista partecipata ai comitati etici ospedalieri

Il termine neuroetica appare nella letteratura scientifica anglosassone sin dal 1973. È la professoressa della Scuola di Medicina di Harvard, Anneliese A. PONTIUS che pubblicò per prima un articolo dal titolo: Neuro-ethics of “walking” in the newborn dove, oltre al titolo, il neologismo neuro-ethics appare alla fine del lavoro, nell’ultimo paragrafo, dove, in conclusione si afferma: «a new and neglected area of ethical concern-neuro-ethics» (16).

Il termine neuroetica ritorna nella letteratura scientifica nel novembre del 1989 in un contesto prettamente bioetico riguardante le decisioni sul fine vita. È il neurologo R. E. Cranford che in un articolo scientifico sulla rivista nordamericana Neurologic Clinics, utilizza, per la prima volta, l’accezione “neuroeticista” (neuroethicist), sancendo l’ingresso dei neurologi all’interno dei comitati etici ospedalieri.

Neurofilosofia In ambito filosofico, il neologismo entra in scena per la prima volta nella discussione circa le prospettive filosofiche riguardanti il sé (Self) e il suo legame-rapporto col cervello. Due pubblicazioni risultano di estremo interesse per definire le “radici” della Neuroetica: la prima, è a carico della professoressa e filosofa Patricia Smith CHURCHLAND che nel 1991 pubblicò un articolo intitolato: Our brains, ourselves: reflections on neuroethical questions (17).

La Churchland ha “creato” una vera e propria interpretazione della filosofia in chiave neuroscientifica che ha “battezzato”: Neurofilosofia (18).

2002, anno fondativo della neuroetica Nonostante il concetto neuroetica fosse già ventilato in diversi ambiti del sapere, la “paternità” del neologismo viene attribuita storicamente alla prima definizione “canonica” risalente al maggio 2002. In questa data (13-14 maggio), a San Francisco (USA), si tenne il primo congresso mondiale di esperti intitolato: Neuroethics: mapping the field.

In tale contesto in cui parteciparono oltre 150 esperti in neuroscienze, bioetica, psichiatria e psicologia, filosofia e diritto, William SAFIRE, politologo del New York Times recentemente scomparso, suggerì la seguente definizione contemporanea di neuroetica definendola:

«quella parte della bioetica che si interessa di stabilire ciò che è lecito, cioè, ciò che si può fare, rispetto alla terapia e al miglioramento delle funzioni cerebrali, così come si interessa di valutare le diverse forme di interventi e manipolazioni, spesso preoccupanti, compiuti sul cervello umano» (19).

I testi delle conferenze esposte in questo congresso, organizzato dalla DANA Foundation, dallo Stanford Center for Biomedical Ethics dell’Università di Stanford e dall’Università della California, sono stati raccolti dall’editore Steve J. Marcus nel libro omonimo: Neuroethics: mapping the fiel.

È perciò il 2002 che si considera l’anno fondativo della neuroetica e gli atti delle conferenze di San Francisco segnano la nascita di questa nuova pseudo-disciplina e ne sono l’emblema e il punto di riferimento privilegiato.

2005, coniazione di neurobioetica Il termine neurobioetica, che invece vuol sottolineare la centralità della persona umana in ambito di ricerca neuroscientifica, è stato coniato ed utilizzato per la prima volta nel 2005 dal neuroscienziato James Giordano.

Il 20 marzo del 2009, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, sorse il Gruppo di Neurobioetica (GdN), una realtà costituita da professionisti e studiosi provenienti da diversi ambiti che attraverso una metodologia di approccio pluri e interdisciplinare affrontano sia le questioni etiche delle neuroscienze, come pure le neuroscienze dell’etica (20).

Oggigiorno una vasta letteratura comprende manuali come il primo del 2006 curato da Judy Illes Neuroethics: Defining the Issues in Theory, Practice and Policy (Oxford University Press); una rivista specializzata Neuroethics edita dalla Springer sin dal marzo del 2008 e diretta da Neil Levy; nel 2011 l’Oxford Library of Psychology pubblica un volume monumentale di oltre 900 pagine, contenente 52 capitoli di numerosi autori, a cura di Judy Illes e Barbara J. Sahakian, intitolato The Oxford Handbook of Neuroethics; nel 2015, Jens Clausen e Neil Levy, sono gli editori per la Springer dei tre volumi dell’Handbook of Neuroethics: 1850 pagine, 23 sezioni, 117 capitoli.

Sulla vastissima bibliografia relativa a questo “nuovo” settore di riflessione interdisciplinare, James Giordano, insieme ad altri collaboratori, hanno curando la pubblicazione sulla rivista PEHM (Philosophy, Ethics, and Humanities in Medicine) di un articolo bibliografico in quattro parti (dal 2014 al 2017).

La neuroetica si era già diffusa, per lo meno quanto al concetto stesso, a livello globale. Sembra oggigiorno indiscusso il suo status di nuova e consistente disciplina. In effetti, gli stessi editori dell’Handbook of Neuroethics della Springer, Jens CLAUSEN e Neil LEVY, nella loro introduzione «Che cos’è la neuroetica?» (What Is Neuroethics?), sottolineano che la “neuroetica” e l’importanza delle neuroscienze è un fatto assodato (21).

Quest’evidenza viene corroborata dai dati che sono sotto gli occhi di tutti: oggigiorno The Society of Neuroscience conta circa 42.000 membri, in circolazione vi sono oltre 220 riviste specializzate nel settore delle neuroscienze e ogni anno vengono pubblicati oltre 25.000 articoli riguardanti il cervello22.

Questa “nuova” disciplina teoretico-pratica, viene caratterizzata come


«riflessione sistematica ed informata sulla neuroscienza ed interpretazione della stessa neuroscienza», includendone, oltre alla neuroscienza, «le correlative scienze della mente (la psicologia in tutte le sue molteplici forme, la psichiatria, l’intelligenza artificiale e così via), allo scopo di capire i loro risvolti per l’autocomprensione umana e i pericoli e le prospettive delle loro applicazioni» (
23).

Come ben si afferma, Clausen e Levy propongono di considerare la “neuroetica”, e particolarmente le “neuroscienze dell’etica”, nella loro accezione più estesa possibile, quella che includa la riflessione filosofica delle peculiarità umane quali l’intelletto, la coscienza, la libertà, etc.

Note

1 P. STRATA, La strana coppia. Il rapporto mente−cervello da Cartesio alle neuroscienze, Carocci, Roma 2014

2 Dal sito ufficiale della Carocci editore: http://www.carocci.it

3 C. GALLO, Aiuto, il mio cervello decide al posto mio. Il neurofisiologo Piergiorgio Strata presenta le ultime conoscenze sui meccanismi cerebrali e conclude che il libero arbitrio è un’illusione, «La Stampa», 9 ottobre 2014, [http://www.lastampa.it/2014/10/09/cultura/aiuto-il-mio-cervello-decide-al-posto-mio-xzFLHbddbX9ZBmOm4j4VpJ/pagina.html]

4 L. TOLSTOJ, Guerra e pace, vol. IV, Mondadori, Verona 1957, p. 365

5 IVI, p. 365

6 S. M. AGLIOTI − G. BERLUCCHI, Neurofobia. Chi ha paura del cervello? ,Prefazione, Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 19. Si legga per ulteriori approfondimenti: J. P. SWAZEY, «Forging a neuroscience community: A brief history of the Neurosciences: Paths of Discovery», in F. G. WORDEN − J. P. SWAZEY − G. ADELMAN ( a cura di), The Neurosciences: Paths of Discovery, MIT Press, Cambridge 1974

7 M. GANDOLFINI, I volti della coscienza. Il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza, Cantagalli, Siena 2013, pp. 11-13

8 Per approfondire ulteriormente gli sviluppi storici della ricerca sul cervello, consiglio la lettura della sintesi che si trova al capitolo 1° di questo libro: J. M. GIMÉNEZ AMAYA – S. SÁNCHEZ-MIGALLÓN, De la Neurociencia a la Neuroética. Narrativa científica y reflexión filosófica, Eunsa, Navarra 2010, pp. 17-49

9 Cf. A. P. WICKENS, A History of the Brain: From Stone Age Surgery to Modern Neuroscience, Psychology Press (Taylor & Francis Group), London and New York 2015

10 M. AGLIOTTI – G. BERLUCCHI, Neurofobia. Chi ha paura del cervello?, Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 23

11 P. LEGRENZI – C. UMILTÁ, Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo, Il Mulino, Bologna 2009

12 Cf. E. BONETE PERALES, Neuroética práctica. Una ética desde el cerebro, Desclée, Bilbao 2010, pp. 15-16

13 J. M. GIMÉNEZ AMAYA – S. SÁNCHEZ-MIGALLÓN, De la Neurociencia a la Neuroética. Narrativa científica y reflexión filosófica, Eunsa, Navarra 2010, pp. 64-65

14 Per ulteriori approfondimenti sulle ricerche del professor José Delgado si possono consultare i seguenti articoli scientifici posti in ordine cronologico: Cf. J. M. R. DELGADO − R. B. LIVINGSTON, «Some respiratory, vascular and thermal responses to stimulation of orbital surface of frontal lobe», J. Neurophysiol. 11 (1), 1948, 39-55; Yale J Biol Med. 28 (3-4), Dec-Feb 1955-6, 245–252; J. M. R. DELGADO, «Hidden motor cortex of the cat», Amer. J. Physiol. 170 (3), 1952, 673-681; J. M. R. DELGADO, «Permanent implantations of multilead electrodes in the brain», Yale J. Biol. Med. 24 (5), 1952, 351-358; P. D. MACLEAN − J. M. R. DELGADO, «Electrical and chemical stimulation of frontotemporal portion of limbic system in the waking animal», Electroencephalogr Clin Neurophysiol. 5 (1), Feb 1953, 91-100; V. H. MARK− F. R. ERVIN – W. H. SWEET − J. M. R. DELGADO «Remote telemeter stimulation and recording from implanted temporal lobe electrodes», Confin Neurol. 31 (1), 1969, 86-93

15 L. J. WEST − C. M. PIERCE − W. D. THOMAS, «Lysergic acid diethylamide: its effects on a male Asiatic elephant», Science 138 (7), 1962, 1100-1104

16 A. A. PONTIUS, «Neuro-ethics of “walking” in the newborn», Perceptual and Motor Skills 37 (1), 1973, pp. 235-245

17 P. S. CHURCHLAND, «Our Brains, Ourselves: Reflections on Neuroethical Questions», in D.J. ROY − B.E. WINNE − R.W. OLD (a cura di), Bioscience and Society(Report of the Schering Workshop, Berlin 1990, November 25-30), Wiley and Sons, New York 1991, pp. 77-96

18 P. S. CHURCHLAND, Neurophilosophy: Toward a Unified Science of the Mind-Brain, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 1989; Brain-Wise: Studies in Neurophilosophy, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2002; Braintrust. What Neuroscience Tells Us about Morality, Princeton University Press, 2011 (tradotto in italiano: Neurobiologia della morale, Raffaello Cortina, Milano 2012)

19 W. SAFIRE, «Visions for a new field of “neuroethics”», in S. MARCUS (ed.), Neuroethics: Mapping the Field. Conference Proceedings, Dana Press, New York 2002, pp. 3-9

20 Sito ufficiale del Gruppo di Neurobioetica (GdN) http://neurobioetica.blogspot.it/; https://www.upra.org/ricerca/gruppi-di-ricerca/neurobioetica/

21 Cf. J. CLAUSEN − N. LEVY (ed.), Handbook of Neuroethics, Springer, Dordrecht 2015, 3 volumi, XXIII sezioni, 117 capitoli, pp. 1850; ISBN: 978-94-007-4706-7 (Print) 978-94-007-4707-4 (Online), introduzione v-vii

22IVI, p. vi

23IVI, p. vi 2. Un esperimento mentale: esiste la libertà? Cos’è la responsabilità personale? Glannon, in difesa del compatibilismo, distinzione tra celebrale e mentale Uno dei principali studiosi e divulgatori nell’ambito della neuroetica a livello internazionale è il filosofo canadese Walter Glannon. Due opere possono descrivere il suo approccio alla neurobioetica: Bioethics and the Brain (2007) e Brain, Body, and Mind. Neuroethics with a Human Face (2011). Per illustrare la distinzione tra cerebrale e mentale, Glannon in uno dei suoi scritti fa riferimento alla serie di esperimenti mentali in voga tra i filosofi della mente e che riprendono lo sfondo neuroscientifico e le tematiche del libero arbitrio e della responsabilità personale. Nell’articolo in difesa del compatibilismo On the Revised Principle of Alternate Possibilities (1994) GLANNON riformula e completa, estendendolo, il principio delle possibilità alternative modificato (PAP’) nella sua versione proposta da Harry Frankfurt, introducendo e discutendo proprio una sorta di “esperimento mentale” nel quale viene chiamato in causa il cervello

24. L’esempio non è una mera ipotesi logica, ma una reale possibilità alla luce delle conoscenze sul cervello e della tecnologia. Viene ipotizzata la situazione in cui due individui, Smith e White, io utilizzerò il filosofo Popper e il neuroscienziato Eccles, condividono lo stesso desiderio e la stessa intenzione di commettere un omicidio (nello specifico l’assassinio del Presidente del loro Paese). Uno di essi, Eccles, essendo neurochirurgo e non volendo essere lui stesso l’autore materiale del delitto, procede segretamente, all’insaputa dell’amico, ad impiantare un dispositivo nel cervello di Popper. Tale congegno è in grado di monitorare, ed eventualmente manipolare a piacimento, i processi cerebrali di Smith, specie nel caso quest’ultimo manifestasse qualche segno di cedimento nel portare a compimento l’intenzione di uccidere il Presidente. Si discutono diversi possibili scenari in cui emerge che anche se il cervello è l’organo centrale, tanto nella coordinazione come nell’esecuzione delle funzioni motrici che realizzano l’agire intenzionale umano, tale agire gli si distingue e non gli si identifica. Ad esempio: la manipolazione dei processi cerebrali, attraverso il dispositivo impiantato nel cervello, a prescindere dal tipo di stato mentale intenzionale (favorevole o meno alla realizzazione di una determinata azione), induceva la realizzazione dell’atto. Esperimenti di alterazioni di condotta Le alterazioni della condotta attraverso interventi diretti di stimolazione cerebrale nell’animale (topi, gatti, cani, scimmie e tori), sebbene fossero noti alla comunità scientifica a partire dal 1952, erano poi stati diffusamente pubblicizzati dai mezzi di comunicazione a livello internazionale a partire dal 1965, a seguito degli esperimenti di José Delgado. Linee di casualità mente-cervello: bottom-up e top-down Esperimenti mentali del genere sono utili per scoprire le due direzioni di causalità di cui siamo costituiti, entrambe inter-agenti e inter-dipendenti: dai processi cerebrali all’azione (o non azione) e dagli stati mentali, attraverso la modificazione dei processi cerebrali, all’azione (o non azione). Si potrebbe dire dal bottom-up al top-down. Per semplificare il discorso, due sono le linee di causalità mente-cervello. Nella prima linea di causalità, quella bottom/up, per bottom intendo la costituzione materiale del sistema nervoso (per semplificazione, il cervello), mentre per up comprendo le funzioni mentali. Alterazioni della struttura (morfologia) e della funzione (fisiologia) del sistema nervoso sono in grado di indurre alterazioni delle funzioni mentali. Classici esempi in letteratura sono quelli di Phineas Cage e del paziente Elliot. Di recente, è stato analizzato il caso clinico e umano dell’artista e fotografo Edward Muybridge

25. Nella seconda linea di causalità, quella denominata top/down, per top intendo le funzioni mentali (cognitive, volitive, immaginative, ecc.), mentre per down mi riferisco alla struttura e funzione del sistema nervoso. Esempio emblematico di tale regolazione è il filone inaugurato dall’italiano Angelo Mosso, precursore, con la sua “macchina per misurare le emozioni”, dei principi sottesi alla contemporanea risonanza magnetica funzionale

26. L’immaginare, il pensare, un qualsiasi task cognitivo o uno stimolo emotivo, sono in grado di alterare il flusso ematico cerebrale. Applicazioni in ambito psichiatrico si riportano sin dalla fine degli anni ’90. Non basterebbe una libreria per contenere l’abbondante letteratura che sta affiorando sull’influsso ristrutturante (in negativo; meno in senso positivo) dell’ambiente e dei comportamenti assunti (scelti) a livello cerebrale (basti pensare alle cosiddette “nuove dipendenze”, come quella relativa al GD o Gambling Disorder o “gioco d’azzardo patologico” riportata nel DSM-5; oppure basti considerare gli studi su pazienti psicopatici, sullo sviluppo dei tratti psicopatici in adolescenti, ecc.). Emerge sempre più una consistente letteratura relativa al controllo personale, mediato dalla decodifica cerebrale, di protesi meccaniche, le cosiddette interfacce cervello-macchina

27 e persino quelle mente-mente. Note 24 W. GLANNON, «On the Revised Principle of Alternate Possibilities», Southern Journal of Philosophy 32 (1994), 49-50 25 S. MANJILA et al., «Understanding Edward Muybridge: historical review of behavioral alterations after a 19th-century head injury and their multifactorial influence on human life and culture», Neurosurg Focus 2015; 39 (1): 1-8 26 S. SANDRONE , «Angelo Mosso (1846–1910)», Journal of Neurology 2012; 259 (11): 2513-2514 27 Per non appesantire la bibliografia in questo specifico contesto relativo alla neuroprostetica, riporto semplicemente alcuni degli ultimi e più significativi lavori. C. E. King (et al.), «The feasibility of a brain-computer interface functional electrical stimulation system for the restoration of overground walking after paraplegia», Journal of NeuroEngineering and Rehabilitation 2015; 12: 80-90 3. Per una libertà multidimensionale Il legame della coscienza all’azione Ora, il legame della coscienza all’azione (agency) e, in particolare, alla volontà libera che si esprime nella scelta e che è condizione indispensabile per la responsabilità personale, è messo in luce da questa sintesi di Rita LEVI-MONTALCINI: «la coscienza collega il nostro io con le esperienze degli eventi, in quanto ci consente di comprendere la nostra esistenza come entità pensante, rendendoci responsabili delle nostre azioni»

28. Ecco in rapporto reciproco coscienza, io (Self) e libero arbitrio. Ad una decisione ponderata è sottesa una “catena” di ragionamenti Bisogna chiarire la terminologia. Innanzitutto, la scelta (electio) è l’atto della volontà, cioè della potenza appetitiva (tendenziale) umana che si realizza in un certo movimento dell’uomo verso qualcosa che viene inteso come bene, cioè verso un bene prescelto

29. Il concetto di “prescelta” implica la precedenza di un certo giudizio di raffronto tra alternative, un giudizio di preferenza che anticipa la scelta stessa, anzi, che ne diviene un aspetto3

30. Ecco che la scelta ha come premessa una specie di “consiglio”, cioè un giudizio (o una serie di giudizi-ragionamenti) orientato verso il da farsi, verso l’agire. Questo consiglio è manifestazione dell’autocoscienza. Anche dal punto di vista neuroscientifico è abbastanza evidente che, in primo luogo, a una decisione ponderata è sottesa una “catena” di ragionamenti e, in secondo luogo, che tali giudizi radicano, nella loro possibilità corporea di manifestazione e di processazione (cioè sono integrati), in strutture neuronali, in particolare in reti corticali (cortical networks)

31. L’agire libero umano si dà una stratificazione dal basso verso l’alto (bottom/up) integrata e includente quella coscienziale La volontà libera manifestata nella scelta presenta una gradualità: bottom/up che si può considerare integrativa a quella che emerge per la coscienza. Mi spiego meglio. Come ad ogni stratificazione dal basso verso l’alto (bottom/up) della coscienza corrisponde un certo giudizio, prima a livello della sensibilità (sistema vegetativo) e della percezione: vigilanza (wakefulness) − enterocezione – esterocezione − integrazione (senso comune) − consapevolezza (awareness − understanding of) dell’ambiente (environment) − propriocezione (consapevolezza di sé− awareness – understanding of self), sino al livello integrativo più alto, che potremmo considerare il giudizio “vero e proprio”, quello pieno, proprio perché autoconsapevole, autocosciente, che ci rende “padroni” del nostro agire, meglio, della nostra scelta (consapevolezza cosciente o auto-consapevolezza − conscious awareness o self-awareness − coscienza fenomenica, esplicitabile attraverso il linguaggio), così anche per l’agire libero umano (e per la sua implicazione di responsabilità che sottende) si dà una stratificazione dal basso verso l’alto (bottom up) integrata e includente quella coscienziale. Questo rende ragione dei numerosissimi processi inconsci e del loro influsso nelle scelte intraprese

32. Inoltre, a questo livello si collocano tutti i numerosissimi studi neuroscientifici che da Benjamin Libet ad oggi stanno chiarendo certi processi di preattivazione inconscia del nostro organo cerebrale che preparano, anticipandola, l’esecuzione volontaria di certi movimenti o azioni cognitive che, secondo ciò che è stato chiarito, non possono venir considerate “libere”, poiché non realmente scelte. Qui si aprirebbe un enorme dibattito che non mi è possibile affrontare in maniera esaustiva. Semplicemente ripercorro i grandi postulati e le evidenze empiriche per trarre qualche conclusione. Gli esperimenti di B. Libet, Kornhuber, J-D. Haynes Il dibattito contemporaneo in quest’area è stato ben riassunto da Kerri SMITH e pubblicato sulla rivista Nature qualche anno fa, nel 2011

33. I primi esperimenti che hanno maggiormente influito alla diffusione di una visione neurodeterminista circa l’agire libero dell’uomo furono realizzati da Benjamin LIBET. I risultati di Libet sono stati successivamente pubblicati sulla rivista Behavioral and Brain Sciences nel 1985

34. Il titolo dell’articolo metteva in luce l’esistenza di una «iniziativa cerebrale incosciente» che in qualche modo vincolerebbe la volontà cosciente durante l’azione volontaria. Libet e i suoi collaboratori presero le mosse dalla scoperta di Hans Helmut KORNHUBER e Lüder DEECKE, pubblicata nel 1965, relativa ai Bereitschaftspotential (readiness potentials), i potenziali di preparazione o disposizione (PD): variazioni elettrochimiche corticali che precedono l’esecuzione di un’azione motoria volontaria35. I risultati sostanzialmente ci dicono che esistono dei potenziali corticali di preparazione localizzati nella corteccia motoria secondaria (corteccia premotoria) che precedono di circa 350 millisecondi (ms) la realizzazione cosciente di un movimento volontario (azione). I dati di Libet furono replicati e confermati da HAGGARD e EIMER che li pubblicarono nel 199936. Nel 2008 John-Dylan Haynes, neuroscienziato del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Leipzig in Germania, utilizzando tecniche di neuroimaging (fRMN), realizzò una serie di esperimenti più sofisticati dimostrando che le intenzioni venivano codificate nella corteccia motoria secondaria (frontopolar cortex) fino a sette secondi prima che i partecipanti allo studio prendessero coscienza delle loro stesse decisioni motrici37. Nel 2011 seguirono ulteriori conferme e si affermò che: «questi risultati appoggiano a conclusione che la corteccia premotoria è parte di una rete di regioni cerebrali che danno forma alle decisioni coscienti molto prima che si giunga allo stato di coscienza delle stesse»38. È fuori discussione e bisogna riconoscere che, almeno a prima vista, questi risultati sono sorprendenti. Ciò che ci si aspetterebbe è che l’area della corteccia premotoria non si attivi prima del prendere coscienza della decisione di eseguire un certo movimento. D’altra parte, però, la sequenza temporale sembra indicare che il cervello prepara il movimento prima che diventiamo coscienti di deciderlo. La decisione volontaria emergerebbe gradualmente da meccanismi inconsci Possiamo ben affermare che, come del resto vale per l’ambito coscienziale strettamente implicato, anche la decisione volontaria emergerebbe gradualmente da meccanismi inconsci e sarebbe associata a sostrati cerebrali specifici39. Lungi dal determinarci nella nostra volontà libera, questi meccanismi sono la manifestazione di quell’incarnazione (embodiment) che siamo e che ci costituisce (ci predispone e ci condiziona) e che rappresenta lo stesso spazio per poter essere liberi nel nostro scegliere. Interessanti studi neuroscientifici correlano una maggior consapevolezza in prima persona dei processi interiori che ci muovono ad agire, frutto di un atteggiamento meditativo (meditators), alla capacità di modulare le componenti inconsce di preattivazione neuronale40. Non è forse questo uno dei “segni” evidenti che non siamo automi in balia dell’anarchia del nostro cervello? Le due aree cerebrali significative per la scelta Sarebbe utile, ma non mi è possibile farlo per non estendermi troppo, correlare clinicamente le successive dimensioni dal basso verso l’alto (bottom/up) in cui un danno o una patologia cerebrale, alterando o annullando la manifestazione dei livelli “superiori”, provoca comportamenti (azioni) di responsabilità personale attenuata, se non proprio azzerata (azioni “irresponsabili”). Dagli stati stuporosi di coma vigile (mutismo acinetico), agli stati vegetativi, a quelli di minima coscienza, alle condizioni di sindrome dell’imprigionato (locked-in), alla sindrome del telefono (quella che implica lesioni alla corteccia cingolata anteriore dei lobi frontali), ai fenomeni di visione cieca, allo split-brain, alle diversissime sindromi descritte in letteratura, di cui citerò soltanto l’aprassia (o incapacità di compiere gesti finalizzati e coordinati)41. Parafrasando il neuroscienziato Vilayanur S. RAMACHANDRAN, si può vedere in ogni condizione neuropatologica una sorta di “finestra” sui sostrati neuroanatomici e neurofisiologici che mediano le diverse dimensioni coscienziali e di scelta (libertà). Neuroanatomicamente parlando, sono sostanzialmente due le aree cerebrali significative per la scelta: il giro sopramarginale sinistro che si dirama dal lobulo parietale inferiore, che ci permette di compiere e immaginare (pianificare) diverse linee d’azione (per intenderci è la struttura coinvolta nella nostra capacità di unificarci internamente un’immagine dinamica di azioni previste da compiere e che ci permette di tradurre in azione il nostro pensiero; è l’area implicata, cioè danneggiata, nell’aprassia) e il cingolo anteriore dei lobi frontali, che sottende al desiderio di un’azione gerarchizzata e connessa a certi valori (in dialogo funzionale con le aree corticali prefrontali; danni a quest’area si riscontrano nei pazienti affetti dalla sindrome della mano anarchica, nei quali una mano compie azioni che la persona non vuole realizzare)42. Ora, avendo specificato che l’ambito della libertà è la scelta, quella che ARISTOTELE nell’Etica definiva «un’intellezione appetitiva o un’appetizione intellettiva»43 , risulta chiaro che un paziente aprassico o uno affetto dalla sindrome della mano anarchica, mantengono perfettamente la loro libertà di scelta o della scelta44 (apice della piramide multidimensionale), pur non potendo, per problemi patologici, tradurre la scelta in azione, il primo (aprassico), o traducendo in azione ciò che non corrisponde alla scelta, il secondo (sindrome della mano anarchica). La volontà libera incarnata (embodied-free-will) All’apice di tutta questa stratificazione si trovi la volontà libera incarnata (embodied-free-will) che per emergere ha bisogno di tutte le dimensioni sottostanti e integrate a quelle coscienziali e che, ad ogni dimensione, si integra e si arricchisce con la relazione alle dimensioni mnestiche, affettivo-emozionali, linguistiche, ect. Tale volontà libera incarnata (embodied-free-will) che si manifesta nelle scelte personali, è in grado di agire, a sua volta, alterando l’attività neuronale (top/down). Tralascio di esplicitare questo punto che meriterebbe un approfondimento significativo. Rientrano qui, ad esempio, le cosiddette “nuove dipendenze” (new addictions), quelle “comportamentali” (nonsubstance or “behavioral” addictions), il neurofeedback (NFB) ed altro ancora. Note 28 R. LEVI-MONTALCINI, Abbi il coraggio di conoscere, Bur Rizzoli, Milano 2004, p. 25 29 T. D’AQUINO, Summa Theologiae I-II, q.13, a.1, c 30 T. D’AQUINO, Summa Theologiae I-II, q.13, a.1, c. Tommaso d’Aquino riprende qui Gregorio di Nissa quando afferma che la scelta «per se stessa non è l’appetito, e neppure il solo consiglio, ma la loro combinazione. Come infatti diciamo che l’animale è il composto di anima e corpo, non il corpo o l’anima soltanto, così anche la scelta» (Nemesio, De nat. hom. 33) 31 K. A. PALLE (et al.), «The source of consciousness», Trends in Cognitive Sciences 2014; 18 (8): 388 32 IBID. 33 K. SMITH, «Neuroscience vs philosophy: Taking aim at free will», Nature 2011; 477: 23-25 34 B. LIBET, «Unconscious cerebral initiative and the role of conscious will in voluntary action», The Behavioral and Brain Sciences 1985; 8: 529-566

35 H.H. KORNHUBER− L. DEECKE,«Hirnpotentialänderungen bei Willkürbewegungen und passiven Bewegungen des Menschen: Bereitschaftpotential und reafferente Potentiale», Pflugers Archive für die Gesamte Physiologie des Menschen und der Tiere 1965; 284: 1-17

36 P. HAGGARD − M. EIMER, «On the relation between brain potentials and the awareness of voluntary movements», Exp Brain Res 1999; 126: 128-133

37 C. S. SOON (et al.), «Unconscious determinants of free decisions in human brain», Nat Neurosci 2008; 11: 543-545

38 S. BODE (et al.), «Tracking the unconscious generation of free decisions using ultra-high field» fMRI, PLoS One 2011; 6: e21612, 1-13

39 K. A. PALLER – S. SUZUKI, «The source of consciousness», Trends in Cognitive Sciences 2014; 18: 388

40 H. G. HO (et al.), «Do meditators have higher awareness of their intentions to act?», Cortex 2015; 65: 149-158

41 Basti leggersi il capitolo IX – Una scimmia con l’anima: come s è evoluta l’introspezione del volume: V. S. RAMACHANDRAN, L’uomo che credeva di essere morto. E altri casi clinici sul mistero della natura umana, Mondadori, Milano 2012, pp. 268-312

42 IDEM, L’uomo che credeva di essere morto, Mondadori, Milano 2012, pp. 276.311-312

43 ARISTOTELE, Etica VI, 2

44 È interessante che anche la letteratura scientifica riesca ad intuire questo dato, esprimendolo col concetto di «the relative freedom of choice»: P. HAJICEK, «Free will as relative freedom with conscious component», Conscious Cogn 2009; 18: 103-109 4. Alcune considerazioni conclusive Ho iniziato questo intervento illustrando la posizione di un neurofisiologo rispetto al tema del libero arbitrio, concludo con quella di un filosofo. Che la libertà sia un dato di fatto, cioè una realtà antropologica intrinseca e costitutiva dell’essere umano lo afferma Giovanni Reale; lo ribadì nell’intervista rilasciata il 10 ottobre 2014 su La Stampa replicando, con Giacomo Marramao, alla tesi scettica di Strata

45. Molto probabilmente questa fu l’ultima intervista-commento del filosofo Reale, morto il 15 ottobre 2014 a 83 anni nella sua casa di Luino in provincia di Varese. Uno dei maggiori filosofi contemporanei, esperto in antichità, Reale rispondeva su La Stampa alle provocazioni aperte sulle frontiere tra neuroscienze, filosofia e sistema giuridico (neurodiritto) sollecitate dal volumetto La strana coppia. Il rapporto mente-cervello da Cartesio alle neuroscienze. G. Reale: La libertà, una realtà antropologica intrinseca e costitutiva dell’essere umano Alla domanda «Professor Reale, è possibile? Le acquisizioni dei neuroscienziati mettono in crisi le cattedrali della filosofia e del sistema giudiziario?», il grande “maestro” di pensiero antico (autore di opere come Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, prima edizione del 1983, nuova edizione rivista e ampliata 2013): Ma per carità! Chi ha detto che i risultati raggiunti dalle scienze sono verità incontrovertibili. Un esempio? Mi ricordo che ero allievo al liceo e arrivò un prof di scienze con tre libri sottobraccio. Ognuno di questi dava una definizione diversa di cosa è il calore. Dunque la verità scientifica non è un dogma o una conquista assoluta. Come per la geometria euclidea, è un altro esempio, la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi. È un asserto valido per tutti i tipi di geometrie? Assolutamente no. Ricordiamoci che per Karl Popper la scienza non procede verificando in positivo idee precedenti ma falsificandole. Avanza cioè per paradigmi mutando i quali cambia tutto quello che si è detto. L’intervistatrice, Mirella Serri, lo incalzava con un’altra domanda: «Volontà e libertà sono reperti del passato». Il professor Reale ribadiva: «Dostoevskij, che è anche un grande filosofo, diceva che il bene e il male – lo dimostra ne I Fratelli Karamazov – derivano solo dalla libertà. Durante una conferenza in una sala piena di 600 persone un docente di matematica intervenne e disse che la verità si raggiungeva solo con la matematica e le sue formule. “Ma lei quando litiga o parla con sua moglie usa formule matematiche?”, gli chiesi. Il prof se ne andò indignato e il moderatore, il giornalista Armando Torno, mi spiegò che era appena uscito da una separazione familiare molto dolorosa». La seguente affermazione del professor Giovanni Reale a mio avviso costituisce il leitmotiv per capire ed interpretare, secondo realtà e verità, i dati neuroscientifici relativi alle peculiarità dell’essere umano: «L’uomo non deve essere vittima di quello che costruisce e alla scienza non deve chiedere né poco né troppo»

46. Neurobioetica del libero arbitrio La riflessione neurobioetica sul libero arbitrio diviene, oggigiorno, un “ponte” tra la classica bioetica, la filosofia perenne e le moderne neuroscienze. Questa “neurobioetica del libero arbitrio” ha l’estremo “potere” di ampliare l’orizzonte della speculazione antropologica proprio per il suo tipico approccio interdisciplinare alle sfide poste dalle neuroscienze. La sua tendenza ad una razionalità “aperta” ad integrare tutte le dimensioni dell’umano, inclusa la sua trascendenza e la ricerca del senso del suo essere ed agire, rende ragione di definizioni di “persona umana” che non si collocano nelle abbondanti prospettive riduzionistiche, ma che cercano di coglierne tutte le dimensioni costitutive dell’Homo sapiens. Per dirla secondo il filosofo canadese GLANNON: persons are more than sets of neurons, synapses, and neurotransmitters, and that our actions and normative practices are more than a function of neural mechanisms. In the clinical neurosciences of neurosurgery, psychiatry, and neurology, the success of any intervention in the brain depends not only on whether it modulates brain function but also on whether it benefits a person and improves his or her quality of life. Neuroscience will not offer a very helpful explanation of persons and how they benefit from or are harmed by psychotropic drugs, functional neurosurgery, or neural stem-cell transplantation if it describes them entirely in terms of brain processes rather than as agents with desires, beliefs, emotions, interests, and intentions

47. Un approccio integrativo tra ricerca medica e riflessione filosofica è ciò che si auspica. È sempre più necessario integrare i saperi e le loro applicazioni alla persona umana; persona che si caratterizza sempre, anche quando fragile, malata o prossima alla morte naturale, quale unità-totalizzante di multiple dimensioni biologiche, psicologiche, sociali e spirituali. A. Heschel: ogni generazione possiede la definizione di uomo che si merita Il ridurre la complessità dell’essere umano alla sola sfera materiale assolutizzandola non è indifferente, ha delle conseguenze pratiche sia a livello personale, che sociale. Nel suo splendido libro Chi è l’uomo, Abraham Heschel scriveva: ogni generazione possiede la definizione di uomo che si merita. Tuttavia mi sembra che a noi della nostra generazione sia toccata una sorte peggiore di quanto meritassimo. Nella Germania prenazista veniva spesso citata la seguente enunciazione riguardante l’uomo: il corpo umano contiene una quantità di grasso sufficiente per produrre sette pezzi di sapone, abbastanza ferro per produrre un chiodo di media grandezza, una quantità di fosforo sufficiente per allestire duemila capocchie di fiammiferi, abbastanza zolfo per liberarsi delle proprie pulci. Come descrizione di uno dei tanti aspetti della natura dell’uomo, questa definizione o altre simili possono infatti essere esatte. Ma quando pretendono di esprimere il significato essenziale dell’uomo, esse contribuiscono a liquidare gradualmente la capacità che l’uomo ha di comprendersi. E questa liquidazione può portare all’autoestinzione dell’uomo. Ecco allora che le neuroscienze ci stanno aiutando sempre più ad identificare quella necessaria base organica (neurofisiologica) in grado di mediare, di manifestare, di rendere possibile l’espressione di qualità umane uniche quali la volontà libera. Concordo con AGLIOTI e BERLUCCHI quando affermano che in realtà, se si escludono alcuni eccessi nella divulgazione al grande pubblico, le conquiste delle neuroscienze possono proporre una visione equilibrata, per nulla de-umanizzante, della natura umana, che prenda in giusta considerazione anche le innegabili radici biologiche di carattere complesse e solo apparentemente vietate all’analisi scientifica come la spiritualità

48. L’errore di un certo neuro-determinismo è confondere il mezzo materiale, il cervello con la “vera causa” Sempre più, alla luce dei risultati neuroscientifici, il cervello viene “letto” come “organo relazionale”, necessario, ma non sufficiente, che media le interazioni tra l’organismo (soggetto umano) e l’ambiente. Sebbene la prospettiva delle neuroscienze sia importante, la complessità dell’umano si otterrà solo nella mutua complementarietà con una prospettiva che consideri (e includa) fattori esterni al cervello. Esternalismo ed internalismo del mentale devono venir riconciliati armonicamente secondo un dinamismo di circolarità e mutua interdipendenza. L’errore di un certo neuro-determinismo è confondere il mezzo materiale, il cervello (condizione sine qua non in questa dimensione terrena), con la “vera” causa. Ce lo ricordava già il grande PLATONE che narrando la morte di Socrate affermava: E mi pareva che egli cadesse nel medesimo equivoco di colui che dicesse che Socrate fa tutto ciò che fa con l’intelligenza, ma poi, quando venisse a dire in particolare le cause di ciascuna delle cose che io faccio, dicesse, prima, che io sto seduto qui, perché il mio corpo è fatto di ossa e di nervi, e perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le une dalle altre e i nervi sono capaci di distendersi e di allentarsi e avvolgono le ossa insieme con la carne e la pelle che li ricopre; e, poiché le ossa sono mobili nelle loro giunture, allentandosi e distendendosi i nervi, fanno sì che io sia ora capace di piegare le membra, e per questa causa appunto io ho piegato le membra, e per conseguenza me ne sto ora qui a sedere; e così pure se, volendo spiegare il mio conversare con voi, egli indicasse cause di questo genere, come la voce, l’aria, l’udito, e adducesse altre infinite cause di questo tipo, trascurando di dire le vere cause, e cioè che, poiché gli Ateniesi ritennero meglio condannarmi, per questo anche a me parve meglio star qui a sedere e più giusto stare in carcere a scontare la pena che mi è stata imposta […] chiamare “causa” cose come queste è troppo fuori luogo50. Se uno dicesse che se non avessi queste cose, cioè ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza. Questo vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la causa stessa51. Note 45 M. SERRI, La filosofia non ci sta. “La libertà umana è un dato di fatto”. Giovanni Reale e Giacomo Marramao replicano al neurofisiologo Strata che nega il libero arbitrio, «La Stampa», 10 ottobre 2014 [http://www.lastampa.it/2014/10/10/cultura/la-filosofia-non-ci-sta-la-liber-umana-un-dato-di-fatto-201I0ZvP0r0cHpVWjUuR7L/pagina.html] 46 IBID. 47 W. GLANNON, Brain, Body, and Mind. Neuroethics with a Human Face, Oxford University Press, New York 2011, p. 5 48 S. M. AGLIOTI – G. BERLUCCHI, Neurofobia. Chi ha paura del cervello?, Prefazione, Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 11

49 A. CARRARA, «Walter GLANNON, Brain, Body, and Mind. Neuroethics with a Human Face, Oxford University Press, New York 2011, pp. 225», recensione libro, Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia (vol. 4, n. 1, 2013), http://www.rifp.it/ojs/index.php/rifp 50 PLATONE, Fedone 98c – 99a 51 IBID., 99a – 99b



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