Corso di Religione

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Da Martini a Bergoglio. Verso un Concilio Vaticano III- Walter Brandmüller: Quale modello?
Il sinodo dello scorso ottobre doveva essere sui giovani. E invece nel concluderlo papa Francesco ha detto che “il suo primo frutto” è stato la “sinodalità”. source :http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/ 12 nov 2018/


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Infatti i paragrafi più sorprendenti del documento finale – e anche più contestati, con decine di voti contrari – sono stati proprio quelli sulla “forma sinodale della Chiesa”.

Sorprendenti perché di sinodalità praticamente non s’era mai parlato, né nella fase preparatoria del sinodo, né in aula, né nei gruppi di lavoro. Salvo vederla comparire nel documento finale, alla cui scrittura “L’Osservatore Romano” ha rivelato che ha preso parte anche il papa.

“Un’evidente manipolazione”, l’ha definita l’arcivescovo di Sydney Anthony Fisher, dando voce alla protesta di non pochi padri sinodali per questo modo contraddittorio di imporre un’idea di governo collegiale con un atto d’imperio calato dall’alto.

Ma poi è arrivata “La Civiltà Cattolica”, voce ufficiale di Casa Santa Marta, a confermare che così dev’essere, titolando il suo editoriale a commento del sinodo: “I giovani hanno risvegliato la sinodalità della Chiesa”.

E così il pensiero torna inesorabilmente a quel sinodo del 1999 nel quale il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita come Jorge Mario Bergoglio, tratteggiò il “sogno” di una Chiesa in perenne stato sinodale, elencò una serie di “nodi disciplinari e dottrinali” che dovevano essere affrontati collegialmente e concluse che per tali questioni “neppure un sinodo potrebbe essere sufficiente” ma fosse necessario “uno strumento collegiale più universale e autorevole”, in sostanza un nuovo concilio ecumenico, pronto a “ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità” che è stato il Vaticano II.

Tra le questioni elencate da Martini c’erano proprio quelle che oggi sono al centro del pontificato di Francesco:
- “la posizione della donna nella Chiesa”,
- “la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali”,
- “la sessualità”,
- “la disciplina del matrimonio”,
- “la prassi penitenziale”,
- “i rapporti ecumenici con le Chiese sorelle”,
- “il rapporto tra leggi civili e leggi morali”.

E come Martini anche Francesco batte e ribatte sullo “stile” con cui la Chiesa dovrebbe affrontare tali questioni. Uno “stile sinodale” permanente, ossia “un modo di essere e lavorare insieme, giovani e anziani, nell’ascolto e nel discernimento, per giungere a scelte pastorali rispondenti alla realtà”.

Questo per quanto riguarda la vita ordinaria della Chiesa, a tutti i livelli.

Ma poi la sinodalità è invocata anche come forma di governo gerarchico della Chiesa universale, di cui sono espressione i sinodi propriamente detti – non per nulla chiamati “dei vescovi” – e i concili ecumenici.

Oggi l’idea di un nuovo concilio ecumenico è coltivata da pochi. Ferve di più, incoraggiata da Francesco, la discussione su come far evolvere non solo i sinodi, sia locali che universali, da consultivi a deliberativi, ma anche le conferenze episcopali, decentrando e moltiplicando i poteri e dotandole anche di “qualche autentica autorità dottrinale” (“Evangelii gaudium” 32),

Ma non è da escludere che l’ipotesi di un nuovo concilio veda presto crescere i sostenitori. E allora perché non attrezzarsi e ristudiare che cosa sono stati i concili nella storia della Chiesa e che cosa possono continuare ad essere in futuro?

Il cardinale Walter Brandmüller, autorevole storico della Chiesa e presidente del pontificio comitato di scienze storiche dal 1998 al 2009, ha tenuto proprio su questo argomento il 12 ottobre scorso a Roma una conferenza, riprodotta integralmente in quest’altra pagina di Settimo Cielo: Che cosa significa storia dei concili e a qual fine la si studia

Eccone qui di seguito due assaggi. Il primo riguarda la superiorità del concilio sul papa affermata dal decreto di Costanza “Haec sancta” del 1415 e rivendicata oggi da non pochi teologi.

Il secondo riguarda l’eventualità di un futuro nuovo concilio e la sua messa in pratica, con un numero quasi doppio di vescovi rispetto al Vaticano II.

Buona lettura!

COSTANZA, OVVERO LA SUPERIORITÀ DEL CONCILIO SUL PAPA
Sin dal principio il decreto di Costanza “Haec sancta” del 1415 è stato oggetto di accesi dibattiti tra quanti sostenevano la superiorità del concilio sul papa, e i loro oppositori.

Di recente è stato il giubileo del concilio di Costanza nel 1964 a riaccendere la discussione.

Il problema considerato particolarmente pressante era come conciliare il decreto di Costanza “Haec sancta” – che non solo Hans Küng, Paul de Vooght e altri, all’epoca al seguito di Karl August Fink, celebrarono come “magna carta” del conciliarismo, ovvero l'anteposizione del concilio al papa –  con il dogma del 1870 sul primato giurisdizionale e l’infallibilità dottrinale del papa.

In questo caso un concilio, un dogma, non ne contraddiceva forse un altro in un’importante questione di fede?

All’epoca, dunque, non poche erudite penne teologiche, tra cui anche quella di un eminentissimo dogmatico di Friburgo, si misero in moto compiendo, con notevole dispendio di acume, tentativi di armonizzazione, di un'audacia talvolta quasi acrobatica.

Eppure… sarebbe bastata un po' di storia per riconoscere l'insussistenza del problema: Il "concilio" che nell’aprile 1415 aveva formulato il decreto “Haec sancta” – la pietra d’inciampo – era infatti tutt’altro che un concilio universale; fu piuttosto un’assemblea di sostenitori di Giovanni XXIII. L'adunanza di Costanza divenne un concilio universale solo quando ad essa si unirono i sostenitori degli altri due "papi scismatici" nel luglio 1415 e nell’autunno 1417.

Quanto deciso nel 1415 a Costanza era privo di autorità sia canonica sia magisteriale. E infatti quando il neoeletto papa Martino V approvò i decreti decisi negli anni 1415-1417, escluse consapevolmente “Haec sancta”.

COME CONVOCARE UN FUTURO CONCILIO, CON UN NUMERO STERMINATO DI VESCOVI
Negli ultimi decenni si è sentito ripetutamente parlare di un concilio “Vaticano III”. Secondo alcuni dovrebbe correggere gli sviluppi sbagliati avviati dal Vaticano II, mentre secondo altri dovrebbe completare le riforme allora richieste.

Deve – e dunque può – esserci ancora una volta un concilio universale, ecumenico in futuro?

La risposta a tale domanda dipende essenzialmente da come ci si dovrebbe immaginare un simile concilio “gigante", perché tale sarebbe.

Se oggi venisse convocato un concilio, i vescovi che vi avrebbero un posto e una voce sarebbero – secondo la situazione nel 2016 – 5237. Durante il Vaticano II i vescovi partecipanti furono circa 3044. Basta uno sguardo a questi numeri per capire che un concilio di taglio classico dovrebbe fallire già per questo. Ma anche supponendo che sia possibile risolvere le immense difficoltà logistiche ed economiche, ci sono alcune semplici considerazioni logiche di tipo sociologico e socio-psichico che fanno apparire irrealizzabile una tale impresa gigantesca. Un numero così alto di partecipanti al concilio, che per la maggior parte non si conoscono tra loro, sarebbe una massa facilmente manovrabile nelle mani di un gruppo deciso, consapevole del proprio potere. Le conseguenze sono fin troppo facili da immaginare.

La domanda è dunque come, in quali forme e strutture, i successori degli apostoli possono esercitare in maniera collegiale il loro ministero di maestri e pastori della Chiesa universale nelle già citate circostanze, in un modo che corrisponda ai requisiti sia teologici sia pratici-pastorali.

Nella ricerca di eventuali esempi storici, lo sguardo cade anzitutto sul concilio di Vienne del 1311-1312, al quale parteciparono 20 cardinali e 122 vescovi. La particolarità sta nel come si arrivò a tali numeri:. Sono conservate due liste degli invitati, di cui una papale e una regia. Chi non era stato invitato poteva andarvi, ma non era obbligato a farlo. In tal modo il concilio poté rimanere di dimensioni contenute, anche se i criteri per la scelta degli invitati – mettendo a confronto le due liste – non erano stati privi di difficoltà. Per prevenire problemi del genere, la scelta delle persone da invitare dovrebbe sottostare a criteri oggettivi, istituzionali.

Oggi e domani, però, un processo sinodale graduale potrebbe rendere infondate le obiezioni. Si potrebbe prendere a esempio Martino V, che nella fase preparatoria del concilio di Pavia-Siena aveva dato l’indicazione – comunque seguita da pochi – di preparare il concilio universale con dei sinodi provinciali. In modo analogo, anche il Vaticano I era stato preceduto da una serie di sinodi provinciali –  cfr. la “Collectio Lacensis” –, che in una forma o nell’altra prepararono i decreti del 1870.

Così, nelle varie parti del mondo, ossia nelle diverse aree geografiche, si potrebbero tenere dei concili particolari per discutere, nella fase di preparazione del concilio universale, i temi previsti per lo stesso. I risultati di tali concili particolari potrebbero essere presentati, discussi e affrontati in modo definitivo, eventualmente già sotto forma di bozze di decreti, durante il concilio.

I partecipanti al concilio verrebbero scelti dai concili particolari che lo precedono e inviati al concilio universale con delega per rappresentare le loro Chiese particolari. Così potrebbe essere definito a ragione “universalem Ecclesiam repraesentans” e agire come tale.

Questo modello consentirebbe non solo di preparare un concilio ecumenico con largo anticipo, ma anche di svolgerlo con una durata e un numero di partecipanti limitati. Perché allora non guardare indietro al primo concilio universale, ovvero a quello di Nicea del 325, entrato nella storia come il concilio dei 318 padri (318 come i “servi fidati” di Abramo in Genesi 14, 14)? Il “Credo” da loro formulato è lo stesso “Credo” proclamato ancora oggi da milioni di cattolici in tutto il mondo la domenica e nelle feste. E così questo primo concilio generale di appena 318 vescovi è tuttora un punto di cristallizzazione in cui verità ed errore si scindono.


(L’esigenza di far precedere sinodi e concili universali da momenti sinodali nelle varie Chiese locali è sottolineata anche nell’ampio documento su “La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa” pubblicato il 2 marzo 2018 dalla commissione teologica internazionale).

Che cosa significa storia dei concili e a qual fine la si studia Concilio di Walter Brandmüller 12 ott 2018

Appena trentenne – e già famoso come autore de “I masnadieri” – Friedrich Schiller fu nominato professore di storia all’università di Jena. Ora però, pensando al suo portafoglio, doveva anche riempire l’aula di studenti. Tuttavia, visti i loro interessi doveva competere con materie assai più redditizie come la giurisprudenza e anche la medicina, quindi annunciò così la sua prolusione: "Che cosa significa storia universale e a qual fine la si studia".

In una competizione analoga con le discipline relative alla pratica – ovvero la teologia pastorale, ecc. – oggi anche la teologia storica, la storia della Chiesa, deve sforzarsi di attirare l’interesse della gioventù accademica. Così, cinquant’anni dopo l’inizio della nostra impresa comune ritorniamo a domandare: "Che cosa significa storia dei concili e a qual fine la si studia?".

I -Che cosa significa quindi "storia dei concili"?
1) La nostra prima domanda è: che cos’è un concilio?

Il concilio – o anche sinodo – è l’assemblea di quanti detengono i poteri magisteriale e pastorale nella Chiesa, al fine dell’esercizio collegiale di tali poteri conferiti in origine da Cristo ai suoi apostoli. Si parla di concilio universale o ecumenico quando tutti i vescovi della Chiesa universale – per quanti essi siano – sono invitati a parteciparvi e, presieduti dal vescovo di Roma, svolgono la loro funzione di insegnanti e pastori della Chiesa e le loro decisioni vengono confermate dal papa. Il concilio particolare si svolge quando si riuniscono i vescovi di un raggruppamento di Chiese particolari – vale a dire una provincia ecclesiastica, più province ecclesiastiche, raggruppamenti metropolitani – sotto la presidenza del metropolita, del patriarca, ecc.

Le loro decisioni hanno poi vigore di legge per i raggruppamenti delle Chiese particolari interessate. Il “sinodo dei vescovi” istituito da Paolo VI è invece – al di là del nome – un mero organismo consultivo privo di qualsiasi autorità dottrinale o pastorale-legislativa.

2) A questa definizione del termine si aggiunge poi l’aspetto decisivo.

Il diritto di partecipazione e di voto in un sinodo – di qualunque tipo esso sia – si poggia sul sacramento dell'ordine e più precisamente sulla ricezione della consacrazione episcopale da parte dei padri sinodali: “ concilium episcoporum est
Il ministero magisteriale e pastorale è stato trasmesso ai partecipanti attraverso il sacramento dell’ordinazione episcopale. Così il sinodo, il concilio, possiede un carattere quasi sacramentale. Ciò significa che – in modo analogo ai sacramenti quali il battesimo, ecc. – le decisioni sono la forma o la manifestazione visibile, storica, dell’azione divina.

Ne erano già convinti gli apostoli a Gerusalemme. Quanto appena detto vale per il concilio universale o ecumenico, mentre i concili particolari non hanno questa stessa prerogativa. E ora passiamo al modo scientifico, storico-critico, di trattare il fenomeno storico che è il concilio.

A tale riguardo è opportuno ricordare un principio scolastico che, al di là del contesto della teologia morale (Tommaso d’Aquino, Quaestiones disp. De malo 2, 4) ha una valenza universale: “actus specificatur ab obiecto”, vale a dire, nel nostro caso, che l’”actus” dell'elaborazione storica è determinato, nella sua peculiarità, dall’oggetto. Questo, a sua volta, significa che il mio “actus” del riconoscere storico deve corrispondere all’oggetto da riconoscere: non posso pretendere di esplorare con i metodi della linguistica gli eventi che portano alla formazione di un tornado!

3) Applicato, nel nostro caso, al concilio, ciò significa che

se lo storico dei concili vuole comprendere la struttura complessa dell’oggetto della sua ricerca deve tenere presente sia la sua natura storica sia quella teologica.
Questo vale per la storia della Chiesa in generale, se alla base poniamo il concetto cattolico o anche ortodosso di Chiesa. Tale concetto da un lato prende atto del fatto che la Chiesa come comunità di persone sottostà alle norme sociologiche ecc., senza però dimenticare, dall'altro lato, che questa Chiesa è il modo in cui il Cristo risorto presente nel mondo in ogni momento della storia rivolge la sua opera di redenzione a ogni generazione di persone. È proprio questo che intendiamo quando parliamo di carattere incarnatorio della Chiesa.

Riferito al nostro tema, significa che da un lato il concilio va inteso come un'adunanza di detentori di uffici ecclesiastici che, per quanto riguarda le strutture e le procedure, come anche i meccanismi socio-psicologici che vi agiscono, è senz’altro paragonabile a un parlamento o anche a un tribunale; dall’altro lato però non può essere davvero compreso se non con le categorie adeguate. Questo è possibile soltanto se si tiene conto anche della dimensione teologica del concilio, così come espressa nella formula classica di Atti degli Apostoli 15, 28: "Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi …".

È a questa comprensione di sé del concilio che occorre rendere giustizia quando si parla del modo in cui esaminare e scrivere la storia conciliare.

II
1) Una volta risolta la questione euristica, anche lo storico del concilio si pone le collaudate domande: "quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando".
A queste occorre rispondere utilizzando tutto l’armamentario del metodo storico-critico. In tal modo si prepara la materia prima a partire dalla quale va ricostruita la storia di un concilio. Si tratta quindi di estrarre dalle fonti ciò che dicono sul concilio preso in esame. Come diceva Hubert Jedin, le nostre fonti non sono altoparlanti. In effetti, non di rado sono addirittura riluttanti. Elenchi di nomi, conti, protocolli notarili, atti, trattati, lettere ecc.

È dunque importante riuscire a farle parlare, e questo ponendo al materiale le domande suggerite sia dalle sue peculiarità, sia dal nostro interesse conoscitivo. Tali domande risultano dalla natura dell’oggetto da esaminare, quindi del concilio, ovvero della sua agenda. Viene così introdotto un concetto fondamentale, cioè quello dell'"interesse guida della conoscenza". A coniare questa espressione è stato Jürgen Habermas nella sua opera “Conoscenza e interesse”. Ed è proprio questo “interesse guida della conoscenza” a far porre allo storico della Chiesa le domande giuste alle sue fonti.

2) Anzitutto questa.

Secondo la convinzione dogmatica cattolica le decisioni dottrinali definitive di un concilio generale hanno – come già osservato – l'attributo dell’infallibilità, vale a dire la libertà dall’errore e quindi un carattere vincolante e definitivo.
Dinanzi a tale prerogativa assume la massima importanza chiederci quali dei concili tenuti nel corso della storia sono stati universali, ecumenici. A questa domanda non c’è però una risposta dottrinalmente vincolante, e nemmeno una risposta che poggi sul consenso scientifico. Riuscire a produrre un tale consenso è pertanto prioritario per lo studio della storia dei concili. Quanto ciò sia difficile e quanto poco finora si sia riusciti a farlo lo ha dimostrato in modo convincente Hermann Josef Sieben con le sue ricerche sulla storia dell’idea conciliare.

E quanto siamo ancora lontani da un risultato plausibile lo prova, in modo addirittura sensazionale, lo sforzo più recente degli Oecumenicorum generaliumque Conciliorum decreta del famoso istituto bolognese. In questi volumi – ove la qualità dei testi riprodotti è senz’altro riconosciuta – di fatto viene proposto un pot-pourri di concili, nel quale non si riescono a individuare nemmeno lontanamente i criteri seguiti per la scelta – sempre che ce ne siano stati – e quindi neppure quali si riferiscono ai concili generali o a quelli ecumenici (dove sta qui la differenza?).

Di fatto, sul carattere ecumenico di alcuni concili si sta dibattendo, e non occorre che io stia qui a elencare tutti i campi di battaglia. Per di più, nel frattempo sono stati formulati – ad esempio da Sieben –, ovvero sono emersi dalle ricerche storiche, alcuni criteri che devono essere rispettati se si vuole parlare di un concilio veramente ecumenico. Lasciando dunque da parte le rispettive circostanze concrete dei concili, emergono i seguenti criteri per l'ecumenicità di un concilio: convocazione dell’intero episcopato, formulazione delle domande della Chiesa universale e conferma da parte del papa.

"Ogni altra caratteristica dell’ecumenicità che qualcuno può aver formulato in qualsiasi momento è più o meno condizionata dal tempo o secondaria”. Ora, tocca alla ricerca storica scoprire, nel caso del singolo concilio, se questo corrisponde o meno ai criteri citati. Per quanto riguarda il concilio di Pisa del 1409 la questione è ancora controversa. Quale dei due papi scismatici lo avrebbe potuto convocare?

La convocazione da parte di un collegio privo di capo, messo insieme dai frammenti di due collegi cardinalizi avversari, poteva compensare la mancanza di un papa legittimo? E poi: l’astensione dell’intera obbedienza di Benedetto XIII non metteva forse in dubbio questa ecumenicità? Ciò che serve qui non è tanto la ricerca quanto la convinzione, poiché gli storici o i teologi che hanno un’immagine della Chiesa dalle tinte conciliari riescono ancora a strappare qualcosa al concilio di Pisa del 1409, e anche a quello del 1511.

È fuori dubbio che qui le idee preconcette, ovvero le decisioni, hanno una certa importanza. Occorre perciò una scienza obiettiva, che tenga conto di quanto ricavato in maniera critica dalle fonti.

3) Altre domande decisive si pongono poi quando si tratta della corretta interpretazione dei decreti conciliari.

Permettetemi di dimostrarlo con il decreto di Costanza “Haec sancta” del 1415, che mi è particolarmente familiare. Sin dal principio, e successivamente nel contesto del tentato concilio a Pisa nel 1511, poi al tempo del gallicanesimo e fino ad oggi, esso è stato oggetto di accesi dibattiti tra quanti sostenevano la superiorità del concilio sul papa, e i loro oppositori. Di nuovo è Hermann Josef Sieben ad avere illustrato questi dibattiti in ogni dettaglio.

In particolare è stato il giubileo del concilio di Costanza nel 1964 a riaccendere la discussione, nel corso della quale emerse chiaramente la necessità di una solida conoscenza storica. Il problema allora considerato particolarmente pressante era come conciliare il decreto di Costanza “Haec sancta” – che non solo Hans Küng, Paul de Vooght e altri, all’epoca al seguito di Karl August Fink, celebrarono come “magna carta” del conciliarismo, ovvero l'anteposizione del concilio al papa – con il dogma del 1870 sul primato giurisdizionale e l’infallibilità dottrinale del papa. In questo caso un concilio, un dogma, non ne contraddiceva forse un altro in un’importante questione di fede?

All’epoca, dunque, non poche erudite penne teologiche, tra cui anche quella di un eminentissimo dogmatico di Friburgo, si misero in moto compiendo, con notevole dispendio di acume, tentativi di armonizzazione, di un'audacia talvolta quasi acrobatica. Eppure… sarebbe bastata un po' di storia per riconoscere l'insussistenza del problema: Il "concilio" che nell’aprile 1415 aveva formulato il decreto “Haec sancta” – la pietra d’inciampo – era infatti tutt’altro che un concilio universale; fu piuttosto un’assemblea di sostenitori di Giovanni XXIII.

L'adunanza di Costanza divenne un concilio universale solo quando ad essa si unirono i sostenitori degli altri due "papi scismatici" nel luglio 1415 e nell’autunno 1417. Quanto deciso nel 1415 a Costanza era privo di autorità sia canonica sia magisteriale. E infatti quando il neoeletto papa Martino V approvò i decreti decisi negli anni 1415-1417, escluse consapevolmente “Haec sancta”. Sono dunque queste le domande – e sono particolari per ogni concilio – che si pongono allo storico e al teologo. A esse se ne aggiungono altre, alle quali occorre dare una risposta per una comprensione completa dell’istituzione che è il concilio.

4) Infine

un concilio – il suo svolgimento, come anche i suoi principali protagonisti e poi i decreti – va considerato non solo in sé, ma nel suo essere inserito in un contesto storico.
Solo in quel contesto, su quello sfondo, le persone e gli eventi assumono contorni e diventano tangibili. Inoltre, soltanto così s'illumina l’orizzonte ermeneutico, davanti al quale alla fine è possibile comprendere i decreti, ecc. di un concilio. Un esempio di ciò lo offre il concilio Lateranense IV del 1215 con il suo decreto “Firmiter”, che rappresenta una professione di fede. Un lettore superficiale non vi troverà altro che delle ovvietà cattoliche.

Da una lettura storico-critica, invece, questo testo emergerà come una risposta, richiesta dalle circostanze, all’eresia dei catari che minaccia i fondamenti dalla fede e della Chiesa, senza che questi vengano mai citati né confutati nei particolari. Non sono citate nemmeno le singole eresie dei catari. Ciò che si attua, invece, è il rifiuto contenutistico dell’eresia attraverso la formulazione esplicita della verità cattolica ad essa contraria. Con il decreto “Firmiter” a Innocenzo III è riuscito un piccolo capolavoro nell’arte della formulazione teologica. In modo analogo, anche le affermazioni, ovvero gli anatemi del concilio di Trento sul sacramento del matrimonio vengono riconosciuti nel loro vero significato, cioè nel loro fine, solo se esaminati sullo sfondo del doppio matrimonio di Filippo d’Assia, ammesso da Lutero e da Melantone, e degli scandali matrimoniali di Enrico VIII d’Inghilterra.

A ciò si aggiunge che anche le parole, i termini, hanno la loro storia, che nel corso del tempo subiscono un cambiamento di significato e per questo possono essere compresi solo nel loro contesto storico. Cionondimeno, alcuni rappresentanti della teologia sistematica ritengono di potersi accontentare di una interpretazione grammaticale-linguistica dei testi conciliari, così come riportati nel Denziger , arrivando in tal modo a grottesche interpretazioni errate.

A metodiche interpretazioni errate si giunge però anche attraverso lo spostamento dell’”interesse guida della conoscenza”, come ha rilevato per esempio Werner Maleczek esaminando un convegno tenuto a Reichenau sui concili del XV secolo: "I due termini [fede e pietà] nelle relazioni e nei successivi dibattiti sono stati merce rara". A tale proposito ha osservato: "Nella bolla di questi concili è scritto ‘Sancta Synodus’, e questo è più che una mera convenzionalità tradizionale". Il concilio è, appunto, una grandezza teologica, un evento sacro, di fatto.

Perciò egli critica, giustamente, che a interessare sia spesso altro: “Concili come borsa delle idee, punto d’incontro e mercato di idee, concili come strumenti per processi di diffusione, domande su centro e periferia, istituzioni e persone, nazioni…”.

In effetti, il concilio è una grandezza teologica e pertanto andrebbe esplorato e mostrato dai punti di vista teologici. Le strutture, gli ordini del giorno, i protagonisti, come anche i contenuti, lo svolgimento e i risultati del dibattito teologico vanno dunque rappresentati, misurandoli sulla base di questa esigenza.

Soprattutto, però, il concilio deve essere visto come uno straordinario evento liturgico, quindi volto all’adorazione di Dio, come testimoniano in modo eccellente già gli “Ordines de celebrando concilium” visigoti.

III
È indubbio che nell’illustrare un concilio anche gli elementi periferici, la cornice, possono essere utili alla comprensione dell’insieme. Tuttavia, il concilio è di fatto "Chiesa che si sta autorealizzando" e quindi va visto anzitutto e prima di tutto alla luce dell’ecclesiologia, la quale è una disciplina teologica. Ovviamente la storia dei concili è anche storia e come tale vuole essere raccontata.

Non c’è quindi nulla da obiettare quando singoli aspetti del fenomeno "concilio" vengono trattati in maniera più analitica. Solo che ciò è molto lontano dall’essere storia dei concili. Con questo sezionamento, alla stregua di un medico legale, del fenomeno concilio, si perde la visione d’insieme; ne nasce uno studio tecnico, il cui linguaggio tecnico non di rado lo rende inaccessibile al lettore.

Per scrivere la storia non è necessario esibire il nobile destriero del metodo storico con tutte le sue andature e figure d’alta scuola. Perché Ranke, Jansen, e Pastor con le loro opere, e di recente anche Clark con il suo “I sonnambuli”, hanno raggiunto tirature tanto alte? Perché hanno raccontato la storia. La vera storiografia – anche quando si tratta di concili – è, appunto, racconto. Racconto che ovviamente poggia sull’analisi critica e l’interpretazione delle fonti, ma senza che questi lavori preparatori debbano per forza essere spiegati “in extenso”.

La grande influenza degli “Annales” ha senz’altro allargato lo spettro dei metodi, ma non ha fatto del bene alla scienza storica. Un riflesso di questo sviluppo lo si vede anche nel fatto che nella storia dei concili mancano tuttora ricostruzioni monografiche dei grandi concili, sebbene proprio per questi esistano sia edizioni delle fonti sia lavori preparatori monografici in abbondanza. In sintesi, una rappresentazione completa dell’evento "concilio" che non trascuri il contesto e lo sfondo, esamini in modo critico le fonti e colleghi l’aspetto teologico con i dati storici: sarebbe questa la risposta alla prima delle domande di Friedrich Schiller, ossia "che cosa significa storia”; storia nel nostro caso non "universale", ma dei concili.

IV
Ora, però, al professore di Jena chiediamo anche "a quale fine si studia la storia dei concili".

E le ragioni sono tante, di cui la prima è perché il concilio è un evento non comune al quale partecipano numerose persone di spiccata importanza. Già questo basta a spiegare l'interesse storico generale per l'oggetto "concilio". Ciò vale, ad esempio, ancora una volta per il concilio di Costanza che, al di là della sua vera importanza per la storia della Chiesa, è stato il convegno più grande del Medio Evo.

Un’analoga importanza storica la riveste il concilio di Firenze, nella misura in cui è stato un incontro unico, ricco di conseguenze per la storia culturale tra l’Occidente latino-romano e l’Oriente bizantino-orientale. Il concilio Vaticano II, invece, merita già solo come evento mediatico la massima attenzione dal punto di vista delle scienze della comunicazione. In generale anche le scienze politiche si interessano al fenomeno concilio quale istituzione per la presa di decisioni democratiche. E mi fermo qui.

Tutte le prospettive dalle quali si può contemplare l’istituzione "concilio" riguardano solo la sua facciata, e non la sua vera natura, che è teologica. Questo tuttavia significa che nella rappresentazione e nell'apprezzamento storico di un concilio le categorie teologiche non hanno l'unico ruolo, ma comunque il ruolo principale.

Qui, ancor prima dei temi, dei dibattiti e dei concili, entra in gioco il concilio stesso come istituzione. Ordine del giorno, regolamento interno, organismi dell’assemblea e la loro collaborazione o i loro antagonismi – in essi si riflette la comprensione ecclesiologica di sé dei padri conciliari – hanno una propria forza espressiva.

L’esercizio comune, collegiale del ministero magisteriale e pastorale da parte dei vescovi riuniti sotto la presidenza del papa – è così che abbiamo definito il concilio, e più precisamente il concilio ecumenico – significa anzitutto dare, dinanzi alle sfide della situazione concreta della Chiesa, una risposta autentica alle questioni attuali.
Pensiamo per esempio alle dispute ariane, al pericolo dell’eresia catara che cresceva di nascosto, o alle minacce esistenziali alla fede causate dall’allontanamento di massa nell’Europa del XVI secolo. In questo processo, i concili della Chiesa antica, per esempio, nelle loro decisioni hanno dato grande importanza a fare espresso riferimento, all’inizio degli atti conciliari, al Simbolo-Credo formulato dai concili precedenti, come è avvenuto in modo particolarmente dettagliato nel concilio di Calcedonia nel 451.

È dunque questa la base su cui poggiavano i chiarimenti, gli approfondimenti, le applicazioni della tradizione alla situazione concreta alla quale il concilio doveva reagire, prodotti dal concilio in seduta. Da tale modo di procedere emerge chiaramente la vera natura del concilio: visto dalla prospettiva istituzionale è un organismo, visto nella sua funzione è la realizzazione della “parádosis-traditio”.

Il concilio riceve, prende in consegna la fede dei padri, per poi trasmetterla spiegata, approfondita, ecc., secondo le esigenze del momento.
Il concilio è tradizione nella realizzazione. Pertanto era ed è impensabile che un concilio posse contraddire un concilio precedente. Questo processo del ricevere e trasmettere rispondendo alla situazione del momento – “paralèpsis” e “paràdosis” – non è solo la funzione principale di un concilio. In esso la Chiesa realizza anche la sua natura di organo della rivelazione divina e della salvezza che continua ad agire nella storia. Il compito teologico centrale dell’analisi storica dei concili è precisamente quello di esaminare e rappresentare proprio tale processo della “paradosis” applicando il metodo storico e teologico.

Perciò è imprescindibile gettare luce sul contesto storico come sfondo ermeneutico dal quale sono nati i testi conciliari e in direzione del quale sono stati formulati. In questo modo, i presupposti, gli sfondi e le intenzioni delle affermazioni dei decreti, ecc., dei singoli concili, come anche il loro eventuale significato per il presente, possono essere davvero compresi. È dunque questo il “fine” per cui “si studia la storia dei concili".

V - Del presente si è parlato. Ma parliamo anche del futuro dell’istituzione "concilio".
Di fatto, negli ultimi decenni si è sentito ripetutamente parlare di un concilio “Vaticano III”.

Secondo alcuni dovrebbe correggere gli sviluppi sbagliati avviati dal Vaticano II, mentre secondo altri dovrebbe completare le riforme allora richieste. Deve – e dunque può – esserci ancora una volta un concilio universale, ecumenico in futuro?

La risposta a tale domanda dipende essenzialmente da come ci si dovrebbe immaginare un simile concilio “gigante", perché tale sarebbe. Se oggi venisse convocato un concilio, i vescovi che vi avrebbero un posto e una voce sarebbero – secondo la situazione nel 2016- 5237 ( presenti).

Durante il Vaticano II i vescovi partecipanti furono circa 3044. Basta uno sguardo a questi numeri per capire che un concilio di taglio classico dovrebbe fallire già per questo. Ma anche supponendo che sia possibile risolvere le immense difficoltà logistiche ed economiche, ci sono alcune semplici considerazioni logiche di tipo sociologico e socio-psichico che fanno apparire irrealizzabile una tale impresa gigantesca.

Un numero così alto di partecipanti al concilio, che per la maggior parte non si conoscono tra loro, sarebbe una massa facilmente manovrabile nelle mani di un gruppo deciso, consapevole del proprio potere. Le conseguenze sono fin troppo facili da immaginare.

La domanda è dunque come, in quali forme e strutture, i successori degli apostoli possono esercitare in maniera collegiale il loro ministero di maestri e pastori della Chiesa universale nelle già citate circostanze, in un modo che corrisponda ai requisiti sia teologici sia pratici-pastorali.

Nella ricerca di eventuali esempi storici, lo sguardo cade anzitutto sul concilio di Vienne del 1311-1312, al quale parteciparono 20 cardinali e 122 vescovi. La particolarità sta nel come si arrivò a tali numeri:. Sono conservate due liste degli invitati, di cui una papale e una regia. Chi non era stato invitato poteva andarvi, ma non era obbligato a farlo. In tal modo il concilio poté rimanere di dimensioni contenute, anche se i criteri per la scelta degli invitati – mettendo a confronto le due liste – non erano stati privi di difficoltà.

Per prevenire problemi del genere, la scelta delle persone da invitare dovrebbe sottostare a criteri oggettivi, istituzionali. Oggi e domani, però, un processo sinodale graduale potrebbe rendere infondate le obiezioni. Si potrebbe prendere a esempio Martino V, che nella fase preparatoria del concilio di Pavia-Siena aveva dato l’indicazione – comunque seguita da pochi – di preparare il concilio universale con dei sinodi provinciali. In modo analogo, anche il Vaticano I era stato preceduto da una serie di sinodi provinciali – cfr. la “Collectio Lacensis” –, che in una forma o nell’altra prepararono i decreti del 1870.

Così, nelle varie parti del mondo, ossia nelle diverse aree geografiche, si potrebbero tenere dei concili particolari per discutere, nella fase di preparazione del concilio universale, i temi previsti per lo stesso. I risultati di tali concili particolari potrebbero essere presentati, discussi e affrontati in modo definitivo, eventualmente già sotto forma di bozze di decreti, durante il concilio. I partecipanti al concilio verrebbero scelti dai concili particolari che lo precedono e inviati al concilio universale con delega per rappresentare le loro Chiese particolari.

Così potrebbe essere definito a ragione “universalem Ecclesiam repraesentans” e agire come tale. Questo modello consentirebbe non solo di preparare un concilio ecumenico con largo anticipo, ma anche di svolgerlo con una durata e un numero di partecipanti limitati. Perché allora non guardare indietro al primo concilio universale, ovvero a quello di Nicea del 325, entrato nella storia come il concilio dei 318 padri (318 come i “servi fidati” di Abramo in Genesi 14, 14)?

Il Credo da loro formulato è lo stesso Credo proclamato ancora oggi da milioni di cattolici in tutto il mondo la domenica e nelle feste. E così questo primo concilio generale di appena 318 vescovi è tuttora un punto di cristallizzazione in cui verità ed errore si scindono.

Roma, 12 ottobre 2018



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