Corso di Religione

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Libertà di culto e formalismo spiritualistico. E' la Carità che salva.



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Oltre quale soglia la libertà di culto degenera nell’arbitrio di un formalismo spiritualistico?
L’interrogativo è diventato d’obbligo, ai tempi del COVID-19. La risposta non è per nulla ovvia. I liturgisti ci insegnano che la forma è sostanza.

source :ilregno.it 2020 - di Duilio Albarello , presbitero diocesano, insegna Teologia fondamentale e antropologia teologica a Fossano ed è docente alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e al biennio di specializzazione in Teologia morale a Torino. Tra le sue pubblicazioni La grazia suppone la cultura (Queriniana, Brescia 2018).


Le modalità effettive con cui il rito è praticato non sono affatto indifferenti affinché si realizzi autenticamente la mediazione  simbolica della realtà celebrata. Nella liturgia eucaristica ciò emerge con tutta evidenza.

Per sua natura, essa non è una rappresentazione intellettuale, bensì mette in contatto in molti modi i corpi proprio nell’orizzonte della comunione con il corpo di Cristo. Se si sottrae all’eucaristia questa dinamica del «corpo a corpo», la si svuota del suo nucleo fondamentale, e ciò che ne rimane è solo un pallido ectoplasma. Eppure, è proprio questo nucleo fondamentale a costituire un problema, nella situazione epidemica in cui ci troviamo.

Domande difficili per tempi complicati

È vero che l’eucaristia fa la Chiesa, ma non bisogna dimenticare la verità reciproca, ossia è la Chiesa che fa l’eucaristia. La Chiesa, d’alto canto, non è un’entità astratta, bensì la con-vocazione di uomini e donne in carne e ossa.

I cattolici non abitano in un mondo a parte, bensì condividono il mondo di tutti. E il mondo qui e ora è alle prese con un’emergenza sanitaria senza paragoni da un secolo a oggi.

Sarebbe davvero il culmine del paradosso se i cattolici, radunandosi con l’intento di celebrare la Vita, finissero in effetti per comunicarsi la morte e diffonderla nel contesto in cui abitano.

Si dice – certo con buone ragioni – che la Chiesa non può fare a meno della celebrazione eucaristica, in quanto ne va della sua identità teologale e della sua forza testimoniale.

Dunque, varrebbe la pena di scendere ai dovuti compromessi per rendere la forma compatibile con le esigenze di sicurezza, pur di salvaguardare anche in tale situazione eccezionale la libertà dell’accesso intatto alla sostanza.

Nondimeno è inevitabile domandarsi: quale sostanza di comunione con Dio e con gli altri è in grado di esprimere la forma di un’assemblea selezionata, composta da monadi che indossano mascherine e guanti, ben distanziate le une dalle altre per timore del contagio, come dentro un supermercato o un museo qualsiasi?

Davvero può «fare» la Chiesa come corpo di Cristo un’eucaristia celebrata in maniera tale, per cui la forma finisce inevitabilmente di tradirne la sostanza?

È lecito insomma celebrare a ogni costo, anche a prezzo di compiere un atto liturgico canonicamente valido, ma ecclesialmente inefficace?

Concezione del sacramento e stile di Chiesa


La questione è niente affatto accademica o marginale.

Il rischio serio è quello di tornare indietro – dopo cinquant’anni di riforma conciliare – a una concezione del sacramento come rito che funziona comunque sia, in quanto dotato di un automatismo soprannaturalistico.
Il primo segnale di tale regressione è stata a mio avviso l’eccessiva facilità con cui, quando l’emergenza pandemica ne ha di fatto reso impossibile la celebrazione nella sua modalità pubblica, è parso subito che la soluzione più ovvia fosse quella di continuare a riproporre l’eucaristia, concentrandone però l’azione nel solo ministro ordinato, rendendo così la presenza dell’assemblea una variabile indifferente, magari rimpiazzabile senza troppo imbarazzo dal suo simulacro virtuale.

Ora, affacciandosi timidamente la fase di un progressivo allentamento delle restrizioni, con altrettanta facilità si presume di far rientrare l’assemblea dei fedeli dalla finestra, dopo averla lasciata fuori dalla porta o relegata nell’infosfera.

Tuttavia, come si notava all’inizio, l’operazione non si preannuncia per niente scontata, perché
non basta un raggruppamento purchessia per essere nelle condizioni di affermare che lì è proprio il popolo di Dio a venire radunato. Da questo punto di vista il dramma della pandemia è stato a suo modo una «re-velatio», un toglimento del velo, che ha messo allo scoperto un limite strutturale della nostra realtà ecclesiale.

Si invoca, anzi addirittura si «esige» la libertà di culto, senza però discernere adeguatamente quale comunità sia il soggetto di questa libertà e quale culto sia a misura dell’Evangelo di Gesù. È nientemeno che uno stile complessivo di Chiesa che si trova posto in questione. Potrebbe essere una crisi di ri-nascita, ma nulla garantisce che l’occasione favorevole sarà effettivamente colta.


Dopo l’epidemia di COVID-19 che cosa sarà di noi? Della fede e della speranza? Si comincia a cercare risposte, papa Francesco se lo chiede ogni giorno  e chiede ai suoi collaboratori di aiutarlo a capire.source : ilregno.it di Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità dell’innovazione all’Università degli studi di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).

La notte dell’emergenza

Alcuni punti fermi: stiamo ancora vivendo il tempo dell’emergenza, trovare in questo tempo le costanti che ci permettono di vedere il futuro è un azzardo, perché l’emergenza non può diventare la norma, diversamente facciamo solo una profezia auto-avverante, e non è una buona idea.

Durante la notte è quasi impossibile fare discernimento, si rischia di scambiare per fantasma Gesù stesso.

È poi del tutto evidente che la tecnologia ci ha tradito. Non ha previsto nulla di quanto accade, non ci aiuta per ora a risolvere i problemi, la sicumera tecnologica e il possesso del creato sono andati in briciole in 100 giorni.

Si rivela come la sapienza della Genesi continua a essere attuale: aggrapparsi all’albero della conoscenza non ci mette al riparo dal nostro peccato, al contrario lo genera.

La pandemia lo mette sotto i nostri occhi ogni giorno, ogni volta che un vigile multa una persona che è in giro e non dovrebbe esserci, pur sapendolo benissimo.

La struttura di peccato che ci abita è più forte dell’evidenza di qualunque verità.

La carità che salva

Che cosa ne sarà della fede e della speranza? Sarà la carità a salvarle, l’unica che rimane per sempre. La frase secondo la quale i poveri ci debbono essere maestri, Leitmotif del pontificato attuale, è la chiave di questa volta.

La pandemia ha spazzato via l’elemento portante della nostra struttura personalistica: la prossimità. La prossemica è diventata tossemica. E con essa sparisce anche la nostra vita sacramentale. La liturgodemia digitale mi pare lo dimostri. Siamo in affanno liturgico. Qualcuno propone di fare passi arditi in avanti esplorando l’infosfera con nuovi occhi. Non è necessario, anzi penso sia scorretto. L’immateriale non ha che rappresentazioni della corporeità, non la sostituisce.

Nell’infosfera vivono informazioni, saperi, sembianti, ma non corpi, e la risurrezione finale dei corpi ci ribadisce che non c’è salvezza senza corporeità.

Nel digitale corre la parola, e ciò è bene, è utile, è importante. Ma non basta. Necessario ma non sufficiente. La soluzione è altrove.

Gesù stesso ci indica la via: «I poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre» (Mt 14,8). Ci siamo:
pensavamo di avere Gesù per sempre, di averlo in pugno nei nostri tabernacoli e nelle nostre eucaristie, il coronavirus ce l’ha portato via, l’ha portato via dal popolo lasciandolo solo al resto sacerdotale. Non abbiamo più il corpo fondamentale, il Prossimo in ragione del quale è possibile ogni prossimità. La fonte e il culmine della nostra vita ( la liturgia n.d.r.) .

Anche qui fughe in avanti o indietro per recuperarlo, stracciando il Vaticano II e recuperando eremitaggi e teologie annesse. Anziché scomporci, pensando che i nostri 100 giorni siano più lunghi di quei mille anni che agli occhi del Signore sono come il giorno di ieri che è passato, è sufficiente, già ora, guardare al corpo di Cristo che ancora ci è rimasto, quello che non ci sarà mai tolto: i poveri.

Quelli ci sono rimasti, anzi aumentano e bussano alla porta, anche a quella più serrata delle nostre chiese vuote. Loro ci restituiscono la prossimità, ci impongono di ritrovarla, accettarla, sconfiggerne la paura.

Loro possono essere regola per pensare il nostro futuro, mettendo insieme fede e vita secondo verità.
L’ambivalenza dell’infosfera


Siamo nel mondo, rimaniamo dell’altro mondo e non di questo.

Siamo chiamati a incarnarci in questa cultura, per trasfigurarla dal di dentro, non a farci modellare da essa perdendo tutto per un piatto di lenticchie che sfami il nostro bisogno eucaristico Declino il punto rispetto a un aspetto della cultura digitale: l’infosfera non è per tutti e non è di tutti.

Il digitale è un ambiente, non è un luogo. Come ogni ambiente ha un codice d’ingresso, il digitale che oggi frequentiamo è un luogo esclusivo di cui non siamo proprietari ma semplici utenti, e utenti selezionati e soprattutto selezionabili.

L’idea di farne uno spazio sacro semplicemente esclude i poveri. Possiamo pensare come cattolica una liturgia che escluda i poveri?

Il cristianesimo non può avere codici, è l’eresia gnostica. L’unico codice ammissibile è il nostro DNA, quello che Cristo ha scelto di assumere facendone un codice di salvezza.

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