Corso di Religione

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Coronavirus. Ma la Chiesa soffre anche il contagio della vuota retorica.

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Ricevo e pubblico. L’autore, Pietro De Marco, ben noto ai lettori di Settimo Cielo, filosofo e storico di formazione, ha insegnato sociologia della religione nell’Università di Firenze e nella Facoltà teologica dell’Italia centrale.

LA PESTE DELLA BANALITÀ di Pietro De Marco

Nella congiuntura mondiale della pandemia in corso non vi è traccia di un intervento della Chiesa “mater et magistra” che sia all’altezza della sua universale maternità e ammaestramento. Lo si è osservato anche grazie, in Italia, a interventi di diverso accento come quelli di Marcello Veneziani, di Massimo Introvigne, di Gianfranco Brunelli de “Il Regno”, di Enzo Bianchi del monastero di Bose.

Anni di pia chiacchiera ecclesiale su lievito, evangelizzazione e profezia inciampano platealmente nell’ostacolo imprevisto di una epidemia che, immediatamente, ha drammatizzato e verticalizzato tutto, tra vita e morte.

Questa incapacità di parola è anzi aggravata, contro ogni speranza, dalla ideologia di una Chiesa come “minoranza profetica”, inevitabilmente utopizzante, debole surrogato di una chiesa “militans”.

Anche la commossa preghiera dell’arcivescovo Mario Delpini tra le guglie del duomo di Milano è apparsa senza volontà di autorevolezza – sulla cattedra di Ambrogio! –, a partire dal modo minore, quasi privato, con cui il prelato si è presentato alle telecamere e al mondo, invece che con idonei abiti liturgici. Capisco che bastano tonaca dimessa e zucchetto per esordire con “O mia bela Madunina” invece che con “Recordare Domine testamenti tui et dic Angelo percutienti: Cesset manus tua” [“Dì al tuo angelo devastatore: Fermati”, da 2 Samuele 24,16, introito alla messa “pro vitanda mortalitate vel tempore pestilentiae”].

Ma quello che più conta è che l’invocazione dell’arcivescovo di Milano è stata dominata, come quasi ovunque ormai nella Chiesa, da raccomandazioni relazionali, di buona etichetta cristiana, ad essere gentili, generosi, ospitali, non da visioni fondamentali, storico-salvifiche, e solo debolmente da Dio come interlocutore. La stessa invocazione a Maria, più praticata dai vescovi, ha talora il sapore di una concessione al popolare che portiamo in noi, una cosa del cuore più che una convinzione dell’intelletto. Ma il culto pubblico a Dio, anche attraverso Maria, è “logikòs”.

Non ci si venga a dire che questo è il nuovo, irreversibile stile della Chiesa. Questo stile rivela piuttosto una drammatica paura, anzitutto nel mondo ecclesiastico, della testimonianza della “mater et magistra” come è sempre stata praticata nella tradizione della Chiesa; oltre ad essere mancanza di fede nella preghiera votiva, nelle solenni domande di intercessione.

Chi è stato finora capace di verticalità? Dov’è la franchezza di alzare parole di pentimento e penitenza, quando addirittura la Quaresima ne impone il quotidiano esercizio? Questo si è fatto sicuramente da parte di tanti umili, capaci di chiedere la protezione divina, l’intercessione di Maria e dei santi, assieme alla richiesta di perdono. Si è fatto negli ordini religiosi rimasti uguali a se stessi, nei monasteri di clausura che resistono.

Certo, in ritardo, anche papa Francesco ha fatto qualcosa, che però non basta a indicare agli uomini come vedersi sotto la inconoscibile ma sempre provvidente volontà di Dio. In effetti, nella sua intervista a “la Repubblica” del 18 marzo vi è un solo cenno, per quanto importante: “Ho chiesto al Signore di fermare l’epidemia”, poiché l’altro spunto: “Tutti sono figli di Dio e guardati da Lui”, si diluisce nel surrogato troppo umano delle “buone cose in cui crede [anche chi non crede in Dio]” e dell’“amore delle persone che ha intorno”.

La contemporanea meditazione del cardinale Camillo Ruini a TG2 Post è più ricca ed esplicita: “Dobbiamo credere […] che non siamo soli, […] perché […] il cristiano sa che la morte non ha l’ultima parola. Bisogna dirlo, […] quando si parla di centinaia di morti.[…] È per questo che il Cristo risorto è la nostra grande speranza”.

E più avanti aggiunge alla comune esortazione alla riscoperta degli affetti quotidiani: “Nella stessa linea va la riscoperta del nostro rapporto con il Signore”; e con un pensiero particolare alla solitudine dei morenti nelle terapie intensive: “Speriamo che le persone che si trovano lì […] dicano loro una parola buona, che attraverso di loro sentano che non sono abbandonati. E soprattutto vorrei pregare il Signore che faccia sentire a loro che Lui è vicino e li aspetta come il Padre della parabola aspettava il figliol prodigo”.

Ma il pensiero continua ad andare a una diffusa, percepibile, ritrosia a pregare. Il cristiano che si è immerso nella “vita” o nel nulla della mistica, o nella invisibilità, non può avere né le parole della preghiera né a chi rivolgerle.

E d’altronde cosa è diventato il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, che un tempo si opponeva alla fredda analisi teologica?


Quel Dio è diventato una sorta di idealità, che il cristiano moderno si preoccupa di ripulire dalle “macchie” del Giudizio, dell’ira e della punizione, per farne un’entità dolciastra. Dunque: “Dio non c’entra”. Per di più ci si illude che tenere Dio fuori dalle nostre tragedie storiche sia, oltre che rispettoso, un’ottima apologetica.

Non è mai stato così. La relazione tra Dio e la sofferenza degli uomini è una parte eminente della riflessione religiosa, dai tragici antichi ai maggiori pensatori cristiani. Saperlo ci mantiene al livello del mistero dell’uomo; altrimenti tutto scivola verso il futile.

E poi, chi mai invocherà nel bisogno un Dio che “non c’entra”? E difatti non lo si invoca. Si aprano invece i Salmi dell’angoscia, della lamentazione, della prova. Si proclami ad alta voce il Salmo 88:

“Signore Dio della mia salvezza,
davanti a te grido giorno e notte. […]
Io sono colmo di sventure,
la mia vita è vicina alla tomba.
Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa. […]
Mi hai gettato nella fossa profonda,
nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Pesa su di me il tuo sdegno
e con tutti i tuoi flutti mi sommergi. […]
Sono prigioniero senza scampo,
si consumano i miei occhi nel patire. […]
Sopra di me è passata la tua ira”.


Per la verità, non è molto che il Signore ha punito i cristiani, i cattolici, con la nuova lebbra della banalità. “Affondo nel fango e non ho sostegno”, grida il Salmo 69. A qualcuno piace questa debolezza, e alla preghiera di salvezza oppone un “cupio dissolvi” che confonde con l’umiliazione di Cristo. Ma l’arco, o il ponte, che dalla sofferenza conduce al “Domine exaudi orationem meam / et clamor meus ad te veniat” (“e ti giunga il mio grido”, Salmo 101, 2) esige volontà di essere, contro l’abbandono nichilistico, quindi di individuare e giudicare il male.

Abbiamo già sperimentato, nei decenni, che una Chiesa che si proponga come “supplemento d’anima” (essa è molto di più, anzi non è questo) non possa evitare la deriva. Il riferimento alla persona, se non è fondato nella rivelazione divina e non vi trova il suo orizzonte di significato, si riduce a un fragile e retorico presupposto umanistico. E non è vero quello che troppo spesso si dice, che “noi amiamo Dio nei fratelli”, poiché senza l’adempimento della prima parte (“Amerai il Signore Dio tuo”, Matteo 22, Marco 12), il primo e massimo comandamento, la seconda (“e il prossimo tuo come te stesso”) produrrà forme necessariamente troppo umane, illusorie o improprie. Per tutto vale l’indimenticabile inizio del salmo 127:

“Se il Signore non costruisce la casa
invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città
invano veglia il custode”.


Non può sfuggire che l’obiettivo di “rinnovare la società” sostituisce oggi, in termini moralistici e indeterminati, quell’ideale laicale della “consecratio mundi“ che, con i suoi limiti, conservava nell’età del Concilio Vaticano II una qualche continuità e coerenza con il momento salvifico-sacramentale e con l’universalità della Chiesa come Città di Dio in terra.

Una vera, biblica minoranza profetica è una realtà in dialettica col Popolo di Dio esteso all’ecumene. Mai il Popolo di Dio, nemmeno come resto d’Israele, coincide con la cerchia del profeta. La Chiesa cattolica, la ecclesiosfera cattolica, non può coincidere con la setta, ovvero col piccolo gruppo degli eletti, ora piuttosto “salvatori” che salvati. Mille minoranze profetiche, anche quelle desiderabili, non sono la “Catholica”, che è costituita potenzialmente dalla maggioranza degli uomini (in conformità alla “missio”), tenuti assieme nella comunione del Corpo mistico.

Solo il sapersi corresponsabili, nella Chiesa, della infinità degli uomini comuni, anzitutto dei battezzati, può dare parole al clero e alla gerarchia. Le parole sono quelle della storia sacra, millenaria. Oggi debbono essere richiesta di aiuto e atti di penitenza, fondati nel Dio che crea ed eleva. Le parole dell’utopia, orgogliosamente fondate nel mito del futuro, nel non-ancora-esistente che solo dà senso, si esauriscono presto e miseramente.

La grande peste contemporanea insegna che dovremmo liberarci dagli orpelli della retorica ecclesiale che ci soffoca, “in capite et in membris”. Essa non ha né ali né profondità di sguardo; è vistosamente incapace di altro che non sia un eloquio consolatorio e benevolente. Per esibire parole del genere non era certo necessario che l’amore di Dio si rivelasse nel dolore e nella potenza cosmica che, comunque, celebreremo a Pasqua.

Là dove Pietro De Marco scrive che il culto cristiano a Dio non può essere solo “una cosa del cuore” ma è “logikòs”, cita san Paolo nel capitolo 12 della Lettera ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il vostro culto spirituale”. L’originale greco è “logikè latrèia”, in latino “rationabile obsequium”, e così nel canone romano della messa. Una magnifica, imperdibile esegesi biblica e liturgica di questa formula è nell’udienza pubblica tenuta da Benedetto XVI il 7 gennaio del 2009: San Paolo. Il culto spirituale

Allo stimolante intervento di Pietro De Marco nel precedente post ha prontamente reagito Roberto Pertici, docente di storia contemporanea all’università di Bergamo e specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa. Con queste arricchenti riflessioni.

Altro che coronavirus, questa è una svolta della storia. Che trascina con sé la Chiesadi Roberto Pertici

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Caro Magister,

lo scritto di Pietro De Marco, come sempre, mi ha illuminato. Questa volta è anche più terso del solito.

Ma – su questo mi interrogo da anni – non riusciamo ancora a capire:
1) come la Chiesa sia giunta alla situazione da lui descritta;
2) se e come sia possibile invertire la rotta.

Io non credo utile spiegare il tutto col motivo del “cedimento dottrinale”, come si fa da parte tradizionalista incolpando il modernismo, il Concilio Vaticano II, ecc., e come mi sembra che qui adombri anche De Marco.

Mi vado sempre più convincendo che la Chiesa, certo, non è del mondo, ma vive “nel” mondo; e quindi che la sua vita risenta, più di quanto non si ammetta di solito, dei processi più generali della società contemporanea (come, in un caso particolare, ho scritto sul patriottismo dei preti italiani).

Insomma, è necessario guardare a questi processi più generali, al cui interno si inseriscono le vicende ecclesiastiche.

Allora: che cosa è accaduto nel mondo, nella società occidentale “in primis” ma non solo, dopo il 1945?

Quanto ha inciso questo contesto in via di rapidissimo cambiamento nella cultura diffusa nelle gerarchie, nella base sociale delle parrocchie, nello svuotamento dei seminari, nel mutamento della morale sessuale, nelle relazioni fra le persone, nella crisi del principio di autorità, nella fine della trascendenza?

Su questi aspetti la cultura storica (ma non solo) qualcosa ha detto: basta prendere un libro di alta sintesi come “Il secolo breve” di Eric Hobsbawm e leggere le sue pagine su “The Golden Age” e i suoi effetti sociali e culturali, per rendersene conto.

Non a caso lo storico inglese sottolinea, senza alcun compiacimento, anzi con una qualche preoccupazione – lui marxista e comunista! –, che le prime “vittime” di questa immensa trasformazione sono state l’istituzione familiare e le Chiese, non solo quella cattolica.

Il passaggio – a livello di mentalità diffusa e di senso comune, oltre che nell’alta cultura – da una prevalente concezione olistico-gerarchica del mondo a una concezione individualistico-egalitaria – passaggio che ebbe un prologo nel 1945-1960 e una piena attuazione poi – poneva per forza enormi problemi alla Chiesa cattolica, che dall’apostolo Paolo alla “Mystici Corporis” basava la sua ecclesiologia proprio su quella precedente visione. Insomma, come diceva Seneca, “ducunt volentem fata, nolentem trahunt”, il fato conduce chi vuol farsi guidare e trascina chi non vuole, anche la Chiesa!

Per questo, l’inversione di tendenza non potrà avvenire solo all’interno della Chiesa (e con quali forze, poi, se i preti ormai ragionano nel modo descritto benissimo da De Marco?), ma con un cambio globale di paradigma, come è avvenuto dopo il 1945 e altre volte nella storia.

La Chiesa, semmai, può dare il suo contributo a questo cambio di paradigma. A ben vedere, questo era il progetto di Benedetto XVI, nel suo invito ai non credenti a vivere “veluti si Deus daretur”, come se Dio ci fosse, per costruire una sorta di fronte comune contro le forze della “società liquida” (tanto per usare un’immagine logora).

Per questo i teorici della “rivoluzione individualistica” hanno avvertito il magistero di papa Benedetto come un grande pericolo e lo hanno combattuto strenuamente, assecondati, o comunque non strenuamente ostacolati – si deve dire – dal grosso della gerarchia e dell’intellettualità cattolica.

Grazie e saluti cordiali.
Roberto Pertici


Alla nota di Pietro De Marco (“le professeur”) è giunta anche quest’altra reazione, da parte di un sacerdote dell’arcidiocesi di Lione,  Pierre Vignon , di cui Settimo Cielo ha già avuto occasione di parlare, a proposito della vicenda giudiziaria del cardinale Philippe Barbarin.

“AVEC MA RESPECTUOSE IMPERTINENCE…”

Pierre Vignon

Cher Dottore Magister,

pouvez-vous faire suivre à votre professeur tragicomique à la noix, de la part d'un membre du clergé “vide et rhétorique”, qu’il devrait savoir, avec son degré supposé de science, que la religion n'est pas le lieu de transfert de ses angoisses?

Puisqu'il désire conserver la mentalité d'un homme du Moyen-âge, je lui conseille vivement d'organiser dans sa région des processions de flagellants.

Quand un laïc trouve que son Église est défaillante, il faut faire face à la pénurie en se prenant en main.

Je lui conseille aussi de demander, outre votre soutien à défaut de votre participation – car je pense qu'il vous reste un peu de bon sens pratique à défaut de sens ecclésial – d'obtenir la participation des cardinaux Burke et Sarah, avec leurs grandes queues et tous leurs bijoux, afin de les offrir en victimes expiatoires au courroux de leur divinité.


Vous trouverez à raison que je vous manque de respect, mais peut-on agir autrement quand on lit la réponse du professeur que vous relayez dans le monde entier?


C’est en fait un devoir de charité, car il faut bien à un moment que quelqu'un vous dise que vous devez retourner contre vous le fouet dont vous ne cessez pas de vous servir contre l'Eglise telle qu'elle est aujourd'hui.

Certes nos évêques ne sont pas des lumières mais, à tout prendre, ils éclairent mieux que les propositions des obscurantistes angoissés et stressés.

Avec ma respectueuse impertinence – car vous valez mieux que cette dernière publication –, sachez que bien que je fasse partie de ce clergé “nul, vide et rhétorique”, je prie à votre intention, celle du professeur que je fustige et celle aussi de tous les vôtres.

Père Pierre Vignon

P. S. – On n'est pas obligé, si on ne se fait pas tuer par l'épidémie, de se faire tuer par le ridicule.
Traduzione a cura di corsodireligione.it



Caro Dottor Magister,

potrebbe dire al suo finto tragicomico professore , da parte di un membro del clero "vuoto e retorico", che dovrebbe sapere, visto il suo presunto grado elevato di scienza, che la religione non è il luogo giusto per il transfert delle sue ansie?

Poiché desidera conservare la mentalità di un uomo del Medioevo, gli consiglio vivamente di organizzare nella sua regione processioni di flagellanti.

Quando un laico scopre che la sua Chiesa è carente , deve porsi con responsabilità di fronte alla carenza.

Gli consiglio anche di chiedere, aldilà del vostro sostegno e in mancanza della vostra partecipazione - perché penso vi rimanga ancora un po 'di buon senso pratico nonostante l' assenza di senso ecclesiale - di ottenere la partecipazione dei Cardinali Burke e Sarah, con i loro grandi codazzi e tutti i loro gioielli, per offrirli come vittime di espiazione all'ira della loro divinità.

Toverete - a ragione- che vi manco di rispetto, ma si può forse agire diversamente quando si legge una risposta come quella del professore che voi diffondete in tutto il mondo?

E' veramente un dovere di carità, perché a un certo punto qualcuno deve pur dirvi che la frusta che non smettete di usare contro la Chiesa di oggi , domani si rivolterà verso di voi .


Alcunii nostri vescovi non sono certo grandi luci ma tutto sommato brillano molto di più delle proposte di questi oscurantisti ansiosi e stressati.


Con la mia rispettosa impertinenza - perché valete di più di quest'ultima vostra pubblicazione - sappiate che sebbene io faccia parte di quel clero “insignificante, vuoto e retorico”, prego per voi , per il professore che fustigo e per tutti voi


Padre Pierre Vignon

P. S. - Non siamo obbligati , anche se non veniamo uccisi dall'epidemia, di farci ammazzare dal ridicolo.

 


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