di Riccardo Cascioli0 8-04-2015 lanuovabq.it
«Non c’è dubbio che l’Isis debba essere fermato,
per salvare i cristiani mediorientali dal genocidio e
per evitare che la violenza si estenda ulteriormente».
Monsignor Silvano Tomasi,
Osservatore Permanente
della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra, che raggiungiamo al
telefono mentre è in missione a New York, è molto chiaro. La gravità della
situazione non ammette incertezze o titubanze, e ne è una testimonianza
il crescendo di interventi di Papa Francesco a favore dei cristiani perseguitati.
Le stesse parole
del Papa degli ultimi giorni lasciano intendere che si veda ormai ineluttabile
la necessità di un intervento armato per fermare le milizie islamiste.
Anche monsignor Tomasi, che da anni si batte alle Nazioni Unite per sensibilizzare
sulla persecuzione dei cristiani, nelle ultime settimane ha fatto sentire
più forte la voce. E qualche risultato
sembra averlo ottenuto.
Monsignor Tomasi, sembra che anche nelle sedi internazionali
si cominci a realizzare che c’è una “emergenza cristiani”.
Indubbiamente qualcosa di nuovo c’è. A forza di pestare i
piedi si è arrivati a poter parlare esplicitamente di cristiani come
gruppo perseguitato. Due settimane fa qui a Ginevra siamo riusciti
a far passare una risoluzione a difesa dei cristiani, ed è la prima
volta che succede. Finora non si era mai voluto nominare specificamente
i cristiani ma molto più genericamente i “gruppi perseguitati”. Invece
questa volta la risoluzione presentata dalla Santa Sede insieme a Russia
e Libano parlava espressamente di cristiani ed è stata adottata con
il voto di una settantina di Paesi. La Francia, nell’aderire, ha addirittura
proposto una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU su questo argomento
e il 27 marzo il Patriarca di Babilonia dei Caldei, monsignor Louis
Sako al Consiglio di Sicurezza ha fatto un discorso molto chiaro. Mi
sembra che a questo punto si sia almeno riusciti nell’obiettivo di
portare un’attenzione specifica sui cristiani, obiettivo di attacchi
sistematici.
Anche in Vaticano sembra esserci una consapevolezza diversa.
Solo pochi mesi fa saltava agli occhi la diversità tra la posizione
molto allarmata e decisa dei patriarchi del Medio Oriente, che
chiedevano anche un intervento militare immediato a difesa delle
comunità cristiane, e la posizione molto prudente che si esprimeva
a Roma. Ora anche gli interventi di papa Francesco, per insistenza
e intensità, si sono avvicinati a quelli dei patriarchi mediorientali.
Da una parte c’è una situazione sul terreno che continua a
evolvere e per i cristiani la situazione peggiora continuamente, dall’altra
c’è stato anche un cammino nella Chiesa. Lo scorso anno abbiamo fatto
due incontri a Ginevra con i Patriarchi del Medio Oriente per sensibilizzare
la comunità internazionale. Qualcosa si è mosso e queste posizioni
hanno certamente influenzato anche la Segreteria di Stato; poi il Papa
ha convocato una riunione dei nunzi apostolici in Medio Oriente, tre
giorni insieme (dal 2 al 4 ottobre 2014, ndr) da cui sono uscite alcune
raccomandazioni per il Papa stesso. E poi c’è la sensibilità di papa
Francesco che ha sentito la voce dei vescovi locali, di Siria e Iraq,
che parlano chiaro e suggeriscono le posizioni da prendere. Ecco, questo
grido è stato raccolto dal Papa che lo ha fatto proprio e ora lo vive
in modo molto personale.
Un passo dunque è stato fatto, quello di aver almeno posto
con chiarezza il punto che bisogna fare qualcosa per difendere
i cristiani in Medio Oriente. Ma che cosa si può fare concretamente
e chi lo fa? Anche lei ha cominciato a parlare sempre più esplicitamente
di uso della forza.
Certamente bisogna fermare l’Isis. Si deve fare di tutto per
non usare la violenza, però a questo punto non si può escludere l’uso
della forza. Bisogna essere chiari sul fatto che c’è in corso un tentativo
di genocidio secondo la definizione contenuta nella Convenzione
internazionale per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948),
per cui si parla di genocidio quando c’è l’intenzione di distruggere
– in tutto o in parte - un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
È chiaro che l’Isis vuole eliminare i cristiani, e allora in questo
caso se lo Stato non riesce a proteggere i suoi cittadini c’è il dovere
della comunità internazionale a proteggere l’innocente. Il martirio
si può anche accettare liberamente, ma non lo si può imporre, la comunità
internazionale ha il dovere di difendere i diritti delle vittime attraverso
gli strumenti di cui si è dotata: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
l’Assemblea generale e così via.
Lei ha fatto cenno a tentare anzitutto con metodi non violenti.
Ma a questo punto quali sono realisticamente i margini diplomatici?
Non si può certo sperare in una disponibilità dell’Isis al negoziato.
Certo. Ma una soluzione non violenta sta nel fare terra bruciata
intorno all’Isis, tagliare qualsiasi sostegno politico, militare ed
economico: togliere l’appoggio politico, bloccare il traffico d’armi,
evitare di comprare da loro il petrolio anche se a prezzi stracciati.
Se tutto questo non funziona allora come extrema ratio anche
la forza può essere usata. Come ha detto papa Francesco, bisogna fermare
la mano dell’aggressore ingiusto, e la questione è urgente per due
motivi.
Quali?
Anzitutto la situazione sul terreno: l’Isis avanza, la situazione
peggiora e i cristiani continuano a essere ammazzati. Inoltre non dobbiamo
sottovalutare il fatto che non abbiamo davanti semplicemente un gruppo
di terroristi, ma una forza militare che controlla un territorio. Più
questa situazione perdura, più diventa una giustificazione, una ispirazione
e un aiuto pratico per altri gruppi che provocano altri focolai di
violenza nel mondo, che giurano fedeltà a questo Isis e cominciano
ad ammazzare cristiani. E stiamo già vedendo questi sviluppi. Quindi
questo Califfato va assolutamente fermato. Certo, anche l’intervento
militare deve avere dei criteri chiari, come li ha definiti Giovanni
Paolo II: non deve creare danni ancora maggiori, deve essere limitato
nel tempo, e godere di un consenso generale, che sia cioè in vista
del bene comune e non di interessi particolari contro altri interessi.
Un intervento militare dunque. Ma chi lo fa? La coalizione
anti-Isis che è già operativa sta facendo finta di fare la guerra.
In realtà gli interessi contrapposti dei tanti paesi in gioco paralizza
qualsiasi tentativo di intervento efficace. E così l’Isis ha buon
gioco ad avanzare.
È vero, la situazione è complessa, ci sono praticamente tre
guerre diverse che si stanno combattendo allo stesso tempo: la prima
è tra Stati Uniti e Russia per l’influenza sul Medio Oriente, con i
rapporti privilegiati rispettivamente con Israele e con la Siria di
Assad; poi c’è la guerra tra sunniti e sciiti, Arabia Saudita e Qatar
da una parte e Iran e Hezbollah in Libano dall’altra; infine c’è la
guerra interna in Siria tra il presidente Assad e l’opposizione. Portare
attorno a un tavolo tutti questi interessi è ovviamente molto difficile,
organizzare una risposta collettiva a difesa dei cristiani sarebbe
un’impresa. Oggi le piste che si sta provando a battere sono essenzialmente
due: da una parte il rafforzamento dell’esercito iracheno in modo che
riesca a prendere il controllo del suo territorio, dall’altra lo stop
all’espansione dell’Isis. Ma a questo scopo non si può prescindere
dal fatto che per essere efficace l’azione contro il Califfato deve
avere in prima fila i paesi interessati: la Giordania, la Turchia,
l’Iraq, l’Iran, la Siria, in modo che la partecipazione del mondo occidentale
non sia vista come un’invasione.
A questo proposito, ha colpito nel messaggio Urbi et Orbi
del Papa il riferimento molto positivo all’accordo con l’Iran per
il nucleare. Va inteso anche come segnale della necessità di coinvolgere
l’Iran in un negoziato sul Medio Oriente?
La presenza dell’Iran ai negoziati per la Siria è indispensabile.
È il più grande paese del Medio Oriente, ha una tradizione diversa
da quella sunnita, è pars maior del conflitto mediorientale
nel conflitto tra sunniti e sciti. Un accordo senza l’Iran è impensabile.
Ma c’è anche una seconda ragione riguardo la soddisfazione per l’accordo
sul nucleare. A breve riprenderanno i negoziati sul Trattato di non
proliferazione nucleare. La posizione della Santa Sede è per l’eliminazione
di tutte le armi nucleari. Coinvolgere un paese importante come l’Iran
significa rafforzare il cammino in questa direzione.
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