Corso di Religione
corriere.it 24 marzo 2015 | 13:08 © RIPRODUZIONE
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Una lettura in salita fin dal titolo, Amore senza fine, amore senza fini (Il Mulino), ma utile come promette il sottotitolo, Appunti di storia su chiese matrimoni e famiglie.
Alberto Melloni è uno storico e guarda al conflitto di civiltà sul
matrimonio con la passione di chi non si rifiuta a nessuna battaglia, ma anche
con il distacco di chi è allenato a «guardare le cose sul lungo periodo». Com’è
nella sua vocazione di studioso militante che non ha mai dissimulato, l’autore
ordisce il richiamo al passato in funzione di due moniti
che rivolge ai nostalgici del «regime di cristianità» e all’ala marciante
del «regime di modernità».
Due avvertenze legate dal corollario che è necessario
«ripensare» in toto le «relazioni d’amore», se abbiamo ancora interesse alla
segnalazione sociale della loro intenzione a durare. Il monito rivolto ai
nostalgici è di cessare dall’inseguire con intenzione di battaglia «ogni
discussione sui fini dell’amore o la fine dell’amore» (qui spuntano le parole
del titolo del libretto) e di dedicarsi con nuovo impegno a proporre l’ideale
della fedeltà con libero affidamento alla capacità di accoglienza dei singoli
che può anche essere piena — oggi come sempre — se così la donano «la fedeltà
di Dio» e le risorse dell’umano, ma che non può essere in alcun modo comandata,
o vincolata a norme che l’umanità del terzo millennio respinge d’istinto.
Ai militanti della modernità lo
storico propone un monito speculare:
non basta rovesciare l’ordine dei fattori e delle fasi del «matrimonio
tridentino» (cioè della tradizione cattolica, che è ancora quello normato
dal Concilio di Trento) per uscire dal suo recinto e fondare su nuove basi
il riconoscimento pubblico del «legame più irresistibile e più fragile».
Per prima oggi viene la «consumazione»
del rapporto, cui segue la convivenza e infine il figlio,
dopo l’arrivo del quale si va allo «sposalizio solenne»
che imita in tutto quello tridentino, tranne nel fatto che arriva per ultimo,
mentre allora veniva per primo e legittimava il resto. Melloni chiama alla
necessità di «pensare la sponsalità fuori dal regime di cristianità»: le
Chiese lo dovrebbero fare prendendo atto che quel regime non
esiste più («siamo indietro di duecento anni» disse infine
il cardinale Martini), i loro antagonisti avvertendo che il mero rovesciamento
delle formule rischia di perpetuare le antiche subordinazioni: del matrimonium al patrimonium,
della donna , all’uomo.
Il compito sarebbe urgente soprattutto per i
cristiani, perché l’azzeramento dei vincoli che caratterizza il regime
di modernità «presto o tardi consentirà a tutti di sposarsi o di esonerarsi
dal matrimonio e di non avere o aver figli in un modo o nell’altro»;
e sarà inutile fatica attardarsi a riproporre regole che erano più
civilistiche (romane, feudali, napoleoniche) che evangeliche. Il momento
anzi fornirebbe alle Chiese «una nuova e singolare
opportunità di pensare la più umana delle situazioni e la più intrinsecamente
disastrosa a partire dal Vangelo di Gesù». Quel Vangelo non sacralizzava la famiglia,
relativizzava anzi il matrimonio, dando la precedenza all’unità della
famiglia umana; condannava sia l’adulterio sia coloro che mettevano
a morte l’adultera, non dettava una propria formula di sposalizio e
accettava il matrimonio «così come usava».
Qui i rimandi dello storico sono alle
parole di Gesù in difesa dell’adultera e alle altre che pongono come
primo dovere dei discepoli quello d’amare in Dio l’intera umanità:
«Chiunque ha lasciato casa, fratelli, sorelle, padre,
madre, moglie, figli e campi per amore del mio nome, ne riceverà il centuplo».
Il
capitolo «Quanto conta un Sinodo» — che tratta della doppia assemblea
sinodale sulla famiglia convocata da Papa Bergoglio — è quello di maggiore
presa sul presente e sfocia in questa chiusa chiarificatrice: «Se
la Chiesa di Roma trova l’umile audacia di dipanare la matassa della relazione (sponsale, ndr), accettando con serenità la temporaneità delle proprie
risposte e custodendo invece il fulcro delle domande cui risponde,
se esce dalla prigione dorata del suo diritto, se dice con il linguaggio
dell’Evangelo che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente
di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore, allora anche il
discorso pubblico sui diritti delle famiglie potrà giovarsene con esiti
molto più radicali di quelli intravisti dal semplice antiproibizionismo
dell’erotico lato sensu».
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