Sommario
Lo " stato islamico", fallimento annunciato (?) .
Un anno con il Califfo e la domanda sulla vita cristiana
di Piero Gheddo 05-06-2015 lanuovabq.it
Nel luglio 2014 nasceva in Irak l’Isis (Stato islamico
di Siria e Irak) che ben presto si è definito Is
(Stato islamico) con ambizioni
di diffusione a livello mondiale, come infatti sta avvenendo.
Nell’Occidente
cristiano, specie nell’Unione europea compresa la nostra Italia, si
è letto la presenza dell’Is solo come la «guerra
santa dell’islam contro i cristiani». Ma c’è anche un’altra lettura più realistica:
l’Is (o Califfato) è il tentativo disperato di portare i popoli islamici
alla rinascita dalla decadenza attuale, ritornando alle radici dell’islam
come vissuto da Maometto e dai primi Califfi (cioè successori di Maometto).
Il sicuro fallimento di questo progetto sta portando
a guerre intestine tra fazioni e popoli islamici, imponendo le uniche soluzioni logiche
per salvare i valori dell’islam e permettere ai popoli islamici di
entrare nel mondo moderno:
-
leggere il Corano in modo critico,
-
accettare
la separazione fra islam e politica
-
e la Carta
dei diritti dell’uomo (e della donna) proclamata
dall’Onu nel 1948, che i Paesi a maggioranza
islamica ancora non hanno accettato, ecc.
L’Is è anzitutto un conflitto
interno fra musulmani, non una guerra contro l’Occidente, anche se i
cristiani ne sono le vittime.
Perché “sicuro fallimento” del Califfato?
Anzitutto perché oggi nessun
musulmano vorrebbe vivere in uno Stato islamico. L’Is si impone solo
con la violenza e chi è costretto a viverci dentro, appena può scappa.
Inoltre è visibile a tutti che non c’è alcun Paese islamico, che possa
rappresentare un modello di Paese in cui si vorrebbe vivere.
Il confronto
fra Paesi cristiani e Paesi islamici è umiliante per questi ultimi:
in politica, libertà, cultura, giustizia sociale, istruzione, rapporto
uomo-donna, solidarietà con gli ultimi e i poveri, ecc. i cristiani
hanno creato Paesi molto più vivibili che non i Paesi islamici.
Anche
nei Paesi ricchissimi per il petrolio, la minoranza che ha in mano
le ricchezze petrolifere non è interessata a uno sviluppo umano integrale
del suo popolo. Nel 2004 l’ho visto in Brunei, il Sultanato islamico
nel Borneo (grande come la Liguria) dove il Pime ha lavorato nel 1856-1862
(poi Propaganda Fide ci ha mandati ad Hong Kong): spese pazze del Sultano
e delle classi dirigenti e migliaia di lavoratori stranieri in gran
parte anch’essi musulmani (indonesiani, bengalesi, malaysiani) che
dicevano:
«Qui siamo trattati quasi come schiavi e nei nostri Paesi
i poveri sono aiutati dai cristiani, non da questi ricchissimi musulmani».
Il Bangladesh è un Paese quasi totalmente islamico, con un popolo
finora tollerante anche verso la piccola minoranza cristiana. Oggi
non è più così. Padre Franco Cagnasso (già superiore generale del Pime,
tornato in missione nel 2001) ha pubblicato su Missionline (20 marzo
2015) una breve testimonianza intitolata “Odio”, nella quale lamenta
la continua lotta fratricida tra le varie fazioni politiche e religiose
che rovinano l’economia e la stabilità politica del Paese:
«I commenti
alla situazione politica del Bangladesh si fanno
sempre più scoraggiati e laconici. Non si sa più che dire, e non si
può neppur più ripetere che “così non si va avanti a lungo” perché
ormai si va avanti da 2 mesi esatti (5 gennaio – 5 marzo) e non ci
sono cenni che la faccenda si risolva. Fra le poche osservazioni che ho raccolto, ecco quella
di un medico di Dhaka: “Apparentemente stiamo attraversando una delle
molte, abituali fasi di crisi cui il Bangladesh è abituato. Ma c’è
qualcosa di diverso, questa volta la lotta è diventata più cattiva,
si sta seminando odio a piene mani. Nei villaggi, ma anche in città,
la lotta politica non distruggeva i rapporti umani, a volte anche di
amicizia fra membri di partiti avversari. Ora però le bottiglie incendiarie
che rovinano la gente vanno ben oltre le scazzottature cui eravamo
abituati. Il tessuto sociale si sta sfilacciando, e chissà come si
potrà ricostruire”».
L’odio religioso fra sunniti e sciiti porta alla ribalta le
due potenze islamiche dell’Arabia Saudita e dell’Iran, sempre più coinvolte nella
lotta fra le varie fazioni politiche e religiose da loro dipendenti.
Così avviene in Yemen con l’intervento militare dell’Arabia Saudita
e anche in Bahrein dove la rivolta degli sciiti è stata schiacciata
dall’esercito Saudita, in Libano dove gli Hezbollah sono un braccio
militare degli sciiti libanesi, in Siria fra alauiti e sunniti, in
Irak dove gli sciiti sono più numerosi, ma i sunniti hanno sempre avuto
il potere politico e adesso lo stanno perdendo.
Il 15 maggio scorso,
il fondatore del Califfato Al Baghdadi ha dichiarato che l’islam «è
una religione della guerra» ed ha chiesto a «ogni musulmano di ogni
luogo di attuare la hijrah (emigrazione) verso lo Stato islamico o
di combattere nel proprio Paese, ovunque esso sia» e di attuare la
«guerra santa» (jihad) per passare da un islam di pace a uno di guerra,
imitando Maometto e la sua Egira (nel 622 d.C.), perché «l’islam
non è mai stato una religione della pace. L’islam è una religione della
lotta». L’Egira segna l’inizio dell’era islamica, quando Maometto,
capo religioso, diventa capo militare, converte le tribù arabiche all’islam
e inizia le guerre di conquista che estendono le terre e i popoli dell’islam
portandolo al tempo del suo massimo splendore.
Di fronte a situazioni come queste, noi cristiani
cosa possiamo fare? Tre cose.
1) Anzitutto escludere nei confronti dell’islam e dei musulmani
ogni atteggiamento bellico; un conto è difendere un Paese o un popolo
da un ingiusto aggressore, un altro è pensare che le guerre dell’Occidente
(come quelle in Irak, in Afghanistan, in Libia) possano risolvere il
problema dell’islam salafita, cioè estremista. La guerra la vincerebbero
sicuramente i musulmani, per il solo fatto che loro sono popoli giovani,
noi siamo popoli vecchi.
2) Papa Francesco, parlando nel gennaio scorso
al Pisai (Pontificio Istituto di Studi arabi e
d’islamistica), ha detto:
«Mai come ora» si avverte la necessità del dialogo con i musulmani,
«perché l'antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l'educazione
alla scoperta e all'accettazione della differenza come ricchezza e
fecondità».
Ciò richiede un atteggiamento di «ascolto» per essere capaci
di capire i valori dei quali l'altro è portatore e di conseguenza «un'adeguata
formazione affinché, saldi nella propria identità, si possa crescere
nella conoscenza reciproca»; ma esige anche di «non cadere nei lacci
di un sincretismo conciliante e, alla fine, vuoto e foriero di un totalitarismo
senza valori».
È il cosiddetto «dialogo della vita», cioè l’incontro
fraterno fra popoli islamici e cristiani, che ha come motivazione fondamentale
non la politica o l’economia, ma la religione.
3) Per incontrare e dialogare con l’islam l’Europa deve capire che
l’islam ci stimola a ritornare alle nostre radici cristiane, non solo,
ma ad una vita cristiana, La nostra società, tutta tesa al progresso
economico-scientifico-tecnico e all’avere sempre di più, è cieca di
fronte ai fatti culturali e religiosi: tutto è ricondotto all’economia,
alla scienza-tecnica e alla politica, della religione non si parla
quasi mai!
Oggi questi popoli profondamente religiosi sia pure in un
modo condannabile (perché hanno un concetto di Dio opposto al nostro,
che «Dio è Amore») ci richiamano alla realtà. Ci vedono come popoli
praticamente atei, popoli senz’anima da riportare a Dio anche con la
violenza.
Giovanni XXIII, il “Papa Buono” di Sotto il Monte, nell’enciclica
Mater et Magistra (nn. 47 e 69) va alla radice della nostra crisi di
civiltà con parole molto dure per lui, che era conosciuto come “il
Papa buono”:
«L’aspetto più sinistramente tipico dell’epoca
moderna», scrive, «sta nell’assurdo
di voler ricomporre un ordine temporale solido e fecondo prescindendo
da Dio, unico fondamento nel quale soltanto può reggersi; e di voler
celebrare la grandezza dell’uomo disseccando la fonte da cui quella
grandezza scaturisce e della quale si alimenta».
Il primo ministro inglese Tony Blair, parlando al Parlamento europeo
all’inizio degli anni 2000 ha detto: «L’Occidente deve difendere i
nostri valori… Abbiamo creato una civiltà senz’anima, dove ritrovare
quest’anima se non tornando al Vangelo che ha fatto grande l’Occidente?».
"L'Isis è un cancro che deve essere fermato"di Marta Petrosillo 05-06-2015 lanuovabq.it
«Ai cristiani è stato chiesto di scegliere tra
convertirsi, pagare la jizya o emigrare. Non vi era una quarta scelta.
È chiaro che siamo di fronte ad una persecuzione».
Così ha dichiarato
l’arcivescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Matti Warda,
intervenuto ieri ad un convegno organizzato dalla fondazione
pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Dall’inizio dell’avanzata dello Stato Islamico nella diocesi di
monsignor Warda sono arrivati circa 120mila i cristiani rifugiati
in Kurdistan, per lo più divisi tra il capoluogo Erbil e Duhok,
città a una quarantina di chilometri a Nord di Mosul. La maggior
parte dei cristiani è giunta nell’agosto 2014 dopo la conquista
da parte di Isis della Piana di Ninive. Accanto a loro, sono giunti
anche yazidi e musulmani.
Gli sfollati interni in Iraq sono più
di due milioni e molti di loro hanno scelto di riparare in Kurdistan.
Monsignor Warda ricorda i primi drammatici momenti: «Non avevamo
la possibilità di dare alloggio a migliaia di famiglie, ma fortunatamente
ci siamo riusciti grazie al sostegno di realtà come Aiuto alla
Chiesa che soffre, che ha donato il 60% degli aiuti ricevuti dalla
mia diocesi, e la Conferenza episcopale italiana».
Nei primi mesi, i rifugiati hanno vissuto nelle tende, nelle scuole,
negli edifici abbandonati. Oggi tutti i cristiani hanno un alloggio
dignitoso. Il sostegno economico ricevuto permette alla Chiesa
di pagare l’affitto di una cinquantina di appartamenti per le famiglie
con più difficoltà. Altre vivono in strutture prefabbricate. Monsignor
Warda racconta delle 50 richieste d’aiuto che ancora riceve ogni
giorno e di come il suo telefono non cessi mai di squillare, anche
a notte fonda.
«La Chiesa cerca di restituire ai fedeli la fiducia e tenere unita
la comunità cristiana». Ma nonostante gli sforzi, molte famiglie
sono già emigrate. Circa 8mila cristiani hanno preferito trasferirsi
in Libano, Turchia, Giordania, oppure in Europa e in America. «Purtroppo
la loro vita all’estero non è migliore. Il visto turistico che
hanno utilizzato per fuggire, non permette loro di lavorare e negli
ultimi quattro mesi alcuni sono tornati in Iraq».
L’afflusso dei rifugiati ha avuto gravi conseguenze sulla locale
comunità cristiana, composta in parte dalle 6mila famiglie che
dal 2003 al 2014 si erano trasferite in Kurdistan per «sfuggire
alle persecuzioni anticristiane in atto a Bagdad, Mosul e Kirkuk».
Monsignor Warda sottolinea come il dramma dei cristiani abbia radici
ben più antiche dell’ultima crisi. «All’inizio della guerra eravamo
un milione e 300mila, oggi siamo meno di 400mila». In questi anni
sono stati uccisi più di 1700 cristiani, «anche se l’attenzione
del mondo si è destata soltanto dopo l’avanzata dello Stato Islamico.
E in seguito all’attentato a Charlie Hebdo tutti hanno compreso
che Isis è un fenomeno globale e non limitato al solo Medio Oriente».
Guardando al futuro del suo paese, monsignor Warda individua tre
passi da compiere. Innanzitutto è necessario che la comunità internazionale
eserciti pressioni sul governo iracheno affinché «trovi delle soluzioni
concrete e risolva le divisioni interne, anziché alimentarle».
Oltre al lavoro di riconciliazione, il presule ritiene pressoché
imprescindibile un intervento militare. «Isis è un cancro e deve
essere fermato». Infine si deve porre un freno anche alla persecuzione
cristiana. «A volte più che vittime siamo considerate danni collaterali».
Riguardo al livello di sicurezza, monsignor Warda spiega come
lo Stato Islamico sia davvero vicino al Kurdistan. La situazione
sembra essere sotto controllo ma non si possono escludere futuri
attacchi. «La notizia della conquista di Ramadi, ad esempio, ci
ha davvero colti di sorpresa». Il vescovo pone l’attenzione sulla
necessità di mettere in sicurezza le aree sottratte ad Isis.
Anche
qualora Mosul e la Piana di Ninive fossero liberati immediatamente,
i rifugiati dovrebbero attendere almeno un anno prima di poter
ritornare nelle proprie case. «È inoltre indispensabile un investimento
nella ricostruzione e lo sviluppo delle città e dei villaggi riconquistati.
Tikrit è stata liberata, ma è ancora deserta perché è distrutta
e nessuno vuole viverci. E se non è stata ricostruita una città
sunnita, come possiamo sperare che lo sarà un villaggio cristiano
come Qaraqosh?».
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