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Is e al-Qaeda, la concorrenza del terrorismo |
fonte : avvenire.it © riproduzione riservata Visti da lontano, i movimenti jihadisti sembrano tutti uguali: praticano il terrore indiscriminato, non distinguendo fra soldati, civili, donne e bambini inermi. Colpiscono con brutale ferocia tanto gli odiati "crociati", ossia gli occidentali e i loro alleati (come i giapponesi), quanto il nemico interno, vale a dire sciiti e altre minoranze, attivisti liberali, insomma tutti coloro che si oppongono alla loro visione radicale. Non c’è gruppo jihadista che non lanci minacce roboanti e inviti alla conversione e tutti usano il terrore – in particolare le ricadute mediatiche del terrore – come strumento di auto-affermazione. Eppure, visti da vicino, emergono le differenze e, soprattutto, le loro rivalità. Perché, al pari dei prodotti commerciali, nell’età della comunicazione globale, anche i gruppi terroristici devono fare i conti con le leggi del mercato e della pubblicità. Per rafforzarsi, attirando finanziamenti e volontari del jihad, questi movimenti cercano di imporsi mediaticamente sui rivali, proponendosi come "premium brand" sullo scaffale del terrore islamista. Queste rivalità e queste differenze di impostazione si vedono nettamente comparando le due maggiori formazioni jihadiste: la storica al-Qaeda, che ha portato alla ribalta il concetto di jihad globale, e il più recente Stato islamico (Dawlat al-Islamiyya), noto con la sigla di Is. Sotto la guida di Osama Benladen, al-Qaeda ha irrimediabilmente cambiato la storia del nuovo secolo con gli attentati del settembre 2001. Ma, allo stesso tempo, ha finito con il mutare se stessa: la reazione statunitense e occidentale ha scompaginato l’organizzazione e imposto una profonda revisione della sua struttura. Con i suoi capi storici uccisi o ridotti a una silenziosa latitanza, al-Qaeda si è decentralizzata, a favore di una struttura più informale e orizzontale. Tuttavia, lo scoppio della guerra civile in Siria e la ripresa del conflitto tra musulmani in Iraq hanno rilanciato il movimento, conosciuto ora come Stato islamico. Il suo leader, al-Baghdadi, sembra aver ben imparato dagli errori dei predecessori, come dimostrato dai suoi successi militari e mediatici dello scorso anno. L’Is – rispetto ad al-Qaeda – ha realizzato una politica che potremmo definire "glocal" (sia locale sia globale): pur predicando il jihad planetario, si è infatti dedicato con grande attenzione alla creazione di una rete di consenso circoscritto, nelle zone sunnite fra Siria e Iraq. Ha rafforzato le proprie capacità militari – grazie a spregiudicate alleanze con elementi ex ba’thisti, ossia lontanissimi dalla sua visione islamista – cercando nel contempo di apparire come una forza di governo credibile nelle zone "liberate", ove ha creato una polizia religiosa e forme di amministrazione statuale. L’annuncio di un nuovo califfato serve proprio a rafforzare le credenziali di Is quale modello politico veramente islamico e lontano dalle contaminazioni dello stato nazionale di derivazione europea. Proprio per via di questo suo focus contro gli sciiti e le altre minoranze musulmane, Is ha goduto – se non di un vero appoggio – per lo meno di un atteggiamento ambiguo da parte della potenze sunnite in Medio Oriente (Arabia Saudita e Turchia in primis). Ma proprio il suo successo ha finito con l’erodere i suoi margini d’azione. L’Arabia Saudita – stretta fra Is al nord e al-Qaeda in Yemen – ha avviato ormai da tempo una più decisa azione anti-jihadista, tanto a livello dottrinale-politico, quanto militare. Una scelta che sarà certo portata avanti dalla nuova dirigenza dopo la morte del re Abdallah. E la Turchia, forzata dagli alleati Nato, ha stretto i controlli lungo le proprie "autostrade del jihad", la via privilegiata dei jihadisti europei per andare e tornare dalle zone di guerra. Ma anche al-Qaeda ha reagito, cercando nuova visibilità con l’attivismo delle sue tante cellule locali, mentre evidenzia le incongruenze dottrinali e ideologiche di Is. |
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