di Anna Bono 13-04-2015 lanuovabq.it
Colto, determinato, spietato: ecco il jihadista modello
Che cosa induce uomini e donne in tutto il mondo
a votarsi al jihad, la guerra santa?
La povertà, è la risposta più frequente: la mancanza di prospettive di giovani
senza futuro. Ma invece molti terroristi non provengono dalle periferie del
mondo, reclutati tra i disperati. Non è certo il caso della mente dell’attacco
degli al Shabaab somali del 2 aprile al campus universitario di Garissa,
in Kenya. Si chiama Mohamed Kuno, è un
kenyano di origine somala di circa 30 anni, marito e padre. Fino al 2007 è
stato preside di una madrassa, una scuola di Corano, proprio a Garissa. Poi
si è unito ai jihadisti somali e da allora ha organizzato diversi attentati
in Somalia e in Kenya. Addestra in particolare le donne suicide. Si dice che
abbia usato come bombe umane anche una delle sue mogli e una figlia.
Uno dei terroristi di Garissa, ucciso dalle unità speciali,
è un ragazzo kenyano laureato in legge all’università di Nairobi.
Ha raggiunto gli al Shabaab in Somalia nel 2013 subito dopo la laurea.
Era figlio di un funzionario governativo. La sua famiglia lo aveva
fatto studiare in una delle migliori scuole private del paese. Era
un ottimo studente, dicono di lui, e lo attendeva una brillante carriera
di avvocato. Nei mesi scorsi aveva tentato di unirsi all’Isis, ma non
era riuscito a lasciare il Kenya perché il suo passaporto non era in
regola.
Cinque persone sono state arrestate perché sospettate di aver
collaborato all’organizzazione dell’attacco del 2 aprile.
Di una si conosce l’identità. È un ragazzo, Rashid Charles Mberesero,
cittadino del vicino Tanzania. Ha 21 anni. Anche lui era uno studente
modello. Sua madre ha raccontato che aveva superato gli esami di scuola
secondaria a pieni voti. La famiglia pensava che stesse per iscriversi
alla facoltà di medicina. Ora è rinchiuso nelle carceri kenyane mentre
si indaga sul suo ruolo nella strage di Garissa. Non era un reietto,
senza futuro e senza speranze, neanche Jamal Kiyemba, l’uomo di 36
anni arrestato in Uganda per concorso nell’omicidio del procuratore
capo della divisione crimini di guerra e antiterrorismo Joan Kagezi,
uccisa nella capitale Kampala il 30 marzo, mentre rappresentava la
pubblica accusa nel processo a 13 jihadisti al Shabaab accusati dell’attentato
a un bar compiuto nel 2010 che ha provocato 76 vittime.
Jamal, di nazionalità
ugandese, nel 1993 all’età di 14 anni, è andato a vivere in Gran Bretagna
dove ha studiato farmacia presso l’università di Leicester e dove,
a 20 anni, si è convertito all’Islam. Trasferitosi in Pakistan due
anni dopo, nel 2002 è stato arrestato per legami con al Qaeda e portato
a Guantanamo. È stato liberato nel 2006, risarcito con quasi un milione
e mezzo di dollari – è uno dei detenuti che avrebbero ammesso di essere
terroristi sotto tortura – e trasferito dalle autorità statunitensi
nel suo paese di origine dopo che il governo britannico ha più volte
rifiutato di lasciarlo tornare in Inghilterra.
Qualunque sia la loro storia e la loro estrazione sociale, c’è
qualcosa che accomuna i terroristi dopo la loro scelta jihadista.
A spiegarlo nel suo libro,
Il grande Califfato (Neri Pozza,
2015), è Domenico Quirico: qualcuno che li conosce a fondo per averli
osservati sia da professionista, inviato speciale nelle regioni flagellate
dal jihad – dalla Cecenia al Niger, dall’Algeria al Mali – sia da ostaggio,
catturato in Siria nel 2013, per 152 giorni prigioniero di Jabhat al
Nusra. La prima caratteristica di quelli che Quirico chiama i «guerrieri
di Dio senza rimorsi», individuata nei giorni della prigionia, è l’irrilevanza
ormai per tutti di ciò che sono stati prima di diventare jihadisti.
Nazionalità, mestiere, famiglia, posizione sociale: nulla più conta.«Ci
sono quelli che non ricordano neppure più il mestiere. (…) Il loro
mestiere ormai è unico, ha piallato le loro biografie, smussato gli
angoli, ricondotto tutto a una tragica uniformità. Sono i soldati di
Dio, il loro mestiere è la guerra, solo questi sono i loro ricordi,
la loro vita fuori di qui sembra sia stata aspirata in un sacco e gettata
via».
La loro seconda caratteristica è di essere diventati dei professionisti
del jihad: non dei combattenti che immaginano il tempo in
cui la guerra sarà finita, che anelano a tornare alla vita civile,
con le famiglie, un lavoro, gli svaghi consueti, ma persone che vivono
nella guerra e per la guerra, per sempre, senza altro futuro che la
lotta a oltranza: «uomini semplici ulteriormente semplificati, con
istinti primordiali acuiti dalla forza degli eventi: istinto di conservazione,
fede, gioia della preghiera, sensazione di essere dalla parte giusta
del mondo, odio per l’impuro». Poi, da giornalista, Quirico nel suo
libro delinea, rievocando eventi, personaggi, luoghi conosciuti nell’arco
di due decenni, il lineamenti del Grande Califfato, nel tempo e nello
spazio: nel tempo, a partire dalla Cecenia, nel 1995; e nello spazio,
perché il Califfato comprende adesso territori in tutta l’Africa sahariana
e nella fascia sottostante, da un oceano all’altro: dalla Mauritania
alla Somalia, dalla Nigeria al Kenya.
«Quel che mi ha convinto della realtà del progetto del Califfato»,
scrive Quirico, «non sono state le parole del califfo di Mosul,
le sue minacce. È la constatazione che io ho già attraversato i territori
del califfato, dall’Africa al Medio Oriente. Sono lì, un tassello dopo
l’altro, vietati a noi occidentali. (..) La scomparsa di spazi immensi
del mondo dalla nostra testimonianza diretta e dal nostro racconto:
questa è la prova, (…) territori in cui milioni di uomini ogni giorno
rendono obbedienza al califfato, applicano e subiscono le sue regole
implacabili».
Da qualche giorno, con due nuove adesioni, il “Grande Califfato”
è diventato ancora più grande. Il 10 aprile alcune agenzie
di stampa tra cui Misna hanno battuto la notizia che i talebani pakistani
di Bajaur hanno riconosciuto come Califfo al Baghdadi, il fondatore
dell'Isis. L'11 aprile l'agenzia di stampa Reuter ha confermato che
una cittadina della Bosnia, Gornja Maoca, situata a un'ora di volo
soltanto da Vienna, ha giurato fedeltà all'Isis e ha innalzato le nere
bandiere del Califfato.
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