Corso di Religione
di Stefano Magni 23-03-2015
lanuovabq.it
Afghanistan, vittima della legge nera
Kabul, si è celebrato ieri un funerale in cui, a portare il feretro,
contrariamente alla tradizione, è un gruppo di donne, alcune delle
quali non portano il velo e nessuna in burqa. Solitamente sono
solo uomini che portano il feretro, indipendentemente da chi sia
il caro estinto e le donne restano in disparte. Ma questo non è
un funerale qualunque. Nella bara c’è il corpo di Farkhunda, una
donna che è stata linciata dalla folla e bruciata sul greto del
fiume Kabul, accusata sommariamente di dissacrazione e distruzione
di una copia del Corano. Una sentenza capitale per blasfemia, eseguita
dalla folla e non dallo Stato, come spesso avviene nel vicino Pakistan.
La notizia vera è la reazione delle donne di Kabul,
a voler ben vedere. Sotto il
regime talebano alle donne non era neppure permesso
uscire di casa se non accompagnate da un maschio di famiglia, non potevano
neppure essere visitate direttamente da un medico, non potevano mostrare
il volto, né un solo centimetro di pelle, né lavorare, né studiare. Questa
forma totale di segregazione tuttora rimane in molte regioni dell’Afghanistan,
specie nel Sud e nell’Est, sia nelle regioni controllate dalla guerriglia
talebana, sia in quella in cui a farla da padrone sono corti islamiche
e consigli degli anziani che applicano la shariah e le leggi tradizionali.
Un funerale tutto al femminile, per celebrare l’ingiusta morte di una donna,
è dunque un gesto di protesta clamoroso.
Un comitato popolare, promosso dagli
stessi attivisti presenti al funerale, ha posto una taglia di 5000
dollari (Usa) per chi consegna i colpevoli alla polizia. Il presidente
Ashraf Ghani ha disposto la costituzione di una commissione di indagine
di alto livello formata da giuristi, studiosi dell'islam, esponenti
di movimenti femministi e giornalisti. A loro ha affidato la responsabilità
di “indagare sull'incidente in modo appropriato e tenendo presenti
le leggi afghane, presentando quindi il suo rapporto al palazzo presidenziale”.
Tuttavia, la sua non è una condanna al delitto religioso. Non condanna
il fatto in sé: uccidere un uomo per blasfemia è legge anche in Afghanistan.
Ghani si limita, semmai, a condannare il modo di far giustizia: “Nessuno
può trasformarsi in un giudice e punire i cittadini con un comportamento
ripugnante e arbitrario contrario alla Legge islamica e alla giustizia”.
Il secondo aspetto di questa drammatica vicenda,
infatti, è proprio la legge sulla
blasfemia. Nel 2008 Sayed Parwez Kambaksh, giornalista,
era stato condannato a morte per aver “diffamato l’islam”. La prova era
una sua confessione estorta sotto tortura, secondo la difesa. Il giornalista
venne comunque graziato ed esiliato per volontà dell’allora presidente
Hamid Karzai. Nel 2003 c’era un precedente di una duplice condanna capitale
per altri due giornalisti, che però erano riusciti a fuggire prima della
sentenza. E poi va ricordato il caso di Abdul Rahman, l’uomo arrestato
e condannato a morte per oltraggio all'islam,
non perché blasfemo, questa volta, ma perché
si era convertito al cristianesimo pubblicamente. “Che la gente lo faccia
a pezzi” aveva sentenziato una corte islamica. Fortunatamente il caso venne
giudicato da un tribunale civile e grazie alla pressione diplomatica del
nostro governo, Rahman venne scarcerato (sulla base di vizi di forma) e
trasferito in Italia.
Farkhunda è stata meno fortunata delle precedenti vittime
della legge nera. Lei
non ha neppure potuto difendersi in un processo. Braccata
da una folla inferocita
fuori dalla moschea Shah-Du-Shamshaira, nella capitale afgana, è stata
letteralmente “fatta a pezzi” dalla gente, a colpi di pietre, mattoni e
bastonate, il suo corpo è stato trascinato fino alla riva del fiume Kabul
e dato alle fiamme. Mentre si compiva questo atto di “giustizia religiosa
sommaria” i passanti curiosavano e filmavano con i cellulari, tecnologia
all’ultimo grido per diffondere un messaggio arcaico e brutale. La polizia,
presente sulla scena,
si è limitata ad assistere al linciaggio e al rogo, come mostrano anche
diverse fotografie scattate da testimoni. Poi gli agenti hanno disperso
la folla, ma a delitto già avvenuto.
Ora il governo promette indagini, come abbiamo
visto, ma intanto una donna è
stata condannata a morte senza processo sotto il naso
delle autorità della capitale. L’accusa di blasfemia era, tra l'altro,
anche infondata: “Farkhunda era completamente innocente”, dice il generale
Mohammad Zahir, incaricato delle indagini dal Ministero dell’Interno.
In un primo momento, a delitto appena avvenuto, i genitori della ragazza
avevano dichiarato che fosse affetta da una malattia mentale che la rendeva
incapace di intendere e di volere. Solo dopo un giorno si è saputo, da
altri parenti, amici e colleghi della donna, che studiava per diventare
insegnante, che Farkhunda non fosse affatto malata, ma semmai "troppo" emancipata.
I genitori hanno parlato di malattia mentale per paura di
subire loro stessi rappresaglie,
a riprova del clima di terrore che grava su Kabul, sulla
più sicura delle città afgane.
Il caso di Farkhunda ci riguarda da vicino, molto
più di quanto non pensiamo. Infatti,
i codici della giustizia afgana sono stati riformati
sotto la supervisione dell’Italia, la polizia afgana, che ha assistito
impassibile al linciaggio, è addestrata dai nostri carabinieri nell’ambito
del programma Eupol e sempre l’Italia ha speso 1 milione e mezzo di euro,
dal 2011 ad oggi, per il programma di “Miglioramento della sicurezza, dei
diritti e dei servizi di assistenza legale per la popolazione afghana”,
fra cui, come leggiamo nel sito della Farnesina un programma specifico
contro la violenza sulle donne: “la creazione di una unità specializzata
nella difesa delle donne vittime di violenza, la Violence Against Women
(Vaw) Unit, già istituita presso la procura di Kabul”.
Sarebbe ingiusto affermare che nulla è cambiato dai
tempi dei talebani e che il nostro
sforzo è stato totalmente inutile. Passi avanti
sono stati fatti, anche nel cambiamento della mentalità, come dimostra
quel feretro portato da donne a volto scoperto. Giusto per citare un dato
significativo, dopo la fine della missione Isaf, frequentano le scuole
9 milioni di scolari e studenti, il 40% dei quali sono ragazze. Ai tempi
dei talebani, fino al 2001, erano solo 800mila di scolari e gli studenti,
potevano andare solo nelle madrasse talebane. E le donne non potevano neppure
avvicinarsi ai libri.
Il problema, però, è nel contenuto, più che nella forma.
Possono essere riformate le istituzioni,
ripristinati tribunali civili, riaddestrata la polizia,
istruita una larga fetta della popolazione, ma
non cambierà radicalmente nulla se nella società afgana vige la convinzione
che un blasfemo (o un apostata) deve essere condannato a morte. E che,
se il (presunto) blasfemo in questione è di sesso femminile, non merita
neppure un processo. Nemmeno una riforma profonda delle istituzioni afgane
può porre fine a questo sopruso, perché la legge nera sulla
blasfemia è nel cuore della società islamica
dell’Asia meridionale, in Pakistan, così come in Afghanistan. Finché non
ci sarà una riforma nella coscienza, finché non vi sarà una rivoluzione
culturale, finché non si affermerà l’idea che una vita umana è sacra e
una persona gode di diritti inalienabili, l’Afghanistan, con i talebani
o con un governo democraticamente eletto, continuerà a restare un cuore
di tenebra nel cuore dell’Asia.
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