Corso di Religione

RELIGIONI IN DIALOGO

CARCERE E PERDONO
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“Trinitari” e “mercedari”: dare la vita per il riscatto [pubblicato su Confronti 9/2018] di Luigi Sandri (redazione Confronti)

Quando Gesù, nel capitolo XXV di Matteo, descrive come sarà il giudizio finale, tra le azioni belle che considererà come compiute verso di Lui, e che porteranno alla beatitudine eterna, vi è appunto quella di essere andati a trovare un carcerato che, precisa il Maestro aprendo uno squarcio di vertiginosa altezza spirituale, sarà come essere andati a trovare Lui; e, per chi non lo ha fatto, sarà come avere ignorato il carcerato Gesù, un’omissione che comporterà un severissimo supplizio.

Se il Vangelo, corroborato dalla successiva riflessione della comunità matteana, ha conservato quell’accenno di Gesù a una delle categorie sociali allora più reiette, significa che è insita nel dna del Cristianesimo una particolare e profonda attenzione verso i carcerati – che, ai tempi di Cristo, erano trattati malissimo; le prigioni, di solito, erano umide, fetide e superaffollate; i romani in Palestina, e altri poteri, non avevano e visite di controllo… della Croce rossa!

Partendo dalle parole di Gesù – «Avevo fame…, avevo sete…» – a poco a poco si compilò un elenco, facile da apprendere a memoria, delle sei opere di misericordia corporale:
1) dar da mangiare agli affamati;
2) dar da bere agli assetati;
3) vestire gli ignudi;
4) alloggiare i pellegrini;
5) visitare gli infermi;
6) visitare i carcerati.

Solo all’alba del secondo millennio si aggiunse poi una settima “opera”, non esplicitata dal Vangelo:
7) seppellire i morti.

Iniziano ad apparire, in miniature e dipinti, illustrate da grandi artisti, le “sette opere di misericordia corporale” (ad esse si affiancheranno le sette opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, ammonire i peccatori, perdonare le offese…).

Tradotte in pratica, queste indicazioni hanno portato alcuni vescovi, o monaci, a organizzare iniziative assistenziali, a volte di grande impatto, per soccorrere i più miseri. Ad esempio, Basilio il Grande (teologo famoso, autore di regole monastiche che ebbero largo seguito in Oriente, vescovo di Cesarea, in Cappadocia, ove morì nel 379) fece costruire, per i poveri, una cittadella della carità con locande, ospizi, lebbrosario, che il popolo chiamò Basiliade.

I TRINITARI, CHE RISCATTARONO CERVANTES

Per attuare in modo più profondo l’indicazione di Gesù a proposito dei carcerati, si affacciò qua e là l’ipotesi del riscatto: cioè, pagare per liberare un prigioniero. L’idea è già in Lattanzio – retore, teologo, precettore di un figlio di Costantino – : «Grande opera di misericordia è riscattare i prigionieri al nemico». Poi è ripresa da sant’Agostino (†430): «Fa elemosina chi dà da mangiare all’affamato, chi riscatta il prigioniero…».

L’ipotesi, eroica ma dapprima carsica, nel Medio Evo divenne, infine, il carisma e il programma di ordini religiosi fondati appunto per riscattare i cristiani caduti prigionieri di saraceni, barbareschi, pirati che infestavano il Mediterraneo. Una storia bella, spesso dimenticata, della quale diamo alcuni cenni.

Docente di teologia all’Università di Parigi, il provenzale Jean de Matha si fa prete verso i quarant’anni. Poco dopo – racconterà – nel 1198 ha una visione che lo spinge, con quattro discepoli, tra cui Felice di Valois, a fondare l’Ordine della Santissima Trinità per la liberazione degli schiavi; suo motto sarà: Gloria, tibi, Trinitas, et captivis libertas (Gloria a te, Trinità, e libertà ai prigionieri). Papa Innocenzo III lo approvò subito. I monaci “trinitari” si organizzano per raccogliere le ingenti somme necessarie per il riscatto dei prigionieri. Quanto ottenuto, doveva essere diviso in tre parti: una per sostenere la comunità, una per l’assistenza agli ammalati, e una per i riscatti.

I religiosi erano tenuti a recitare insieme l’ufficio divino e a vivere in modo austero. Sorsero poi confraternite, diffuse tra le parrocchie, per aiutare i “trinitari” in un’opera che, allora, era sentitissima dalla gente. E, infatti, l’ordine si propagò rapidamente in Europa e in Asia minore, tanto che nel 1240 contava più di seicento case, con cinquemila membri.

Nel secolo XVI i trinitari andarono in crisi, e il loro numero si ridusse drasticamente. Altri danni li ebbero dalle soppressioni degli ordini religiosi effettuate da alcune potenze europee nei due secoli successivi. Pur ridimensionati, hanno poi resistito fino ai nostri giorni; dopo il Concilio Vaticano II, naturalmente, hanno dovuto affrontare un profondo cambiamento di prospettive: oggi si occupano delle nuove forme di schiavitù (prostituzione, alcolismo, tossicodipendenza); ma non dimenticano il loro grande passato. Padre Domingo de la Asunción, un religioso spagnolo, compulsando molti archivi aveva tentato di documentare la storia dei riscatti; ma nel 1936 fu ucciso durante la guerra civile spagnola, e tutto il materiale da lui raccolto andò perduto. Un caso, però, è stato accertato: quello di Miguel de Cervantes, futuro autore del Don Quijote de la Mancha. Catturato da un pirata albanese e venduto sul mercato di Algeri nel 1575, sarà riscattato cinque anni dopo dal “trinitario” spagnolo fra Juan Gil.

SE UN “MERCEDARIO” È CROCIFISSO

Pietro Nolasco – nato in Linguadoca verso il 1180, e poi stabilitosi a Barcellona – fu impressionato da incombenti e tragici fatti di cronaca. Gli arabi (e berberi) musulmani, che dal 711 avevano via via occupato la penisola iberica, nel secolo XIII erano giunti all’apice del loro potere nelle Spagne e in Africa mediterranea: spesso catturavano spagnoli, li vendevano come schiavi nei paesi arabi dove per lo più venivano indotti all’abiura della fede cristiana per aderire all’islam.

Nel 1218 confortato, disse, da una visione della Vergine, il Nolasco decise dunque di fondare un istituto religioso per la redenzione dei cristiani fatti schiavi dai musulmani; e, siccome la cappella del suo convento era dedicata a Nostra Signora della Mercede, “mecedari” si chiameranno i suoi discepoli. La loro peculiarità fu che, oltre i tre voti consueti – di povertà, castità e obbedienza – ne facevano un quarto che, in caso estremo, li impegnava a sostituire con la loro persona i prigionieri in pericolo di rinnegare la fede. Gregorio IX, nel 1235, approvò l’Ordine.

Ci fu un momento in cui – avendo scopi simili – i “mercedari” pensarono di unirsi ai “trinitari”; ma poi non se ne fece nulla Poiché, per liberare spagnoli fatti schiavi dagli arabi, era necessario ricorrere alle armi, all’inizio l’ordine ebbe un carattere militare, ed era guidato da laici: ma, un secolo dopo, e non senza contrasti, la carica di maestro generale passò a un sacerdote. I “mercedari”, in Spagna, Francia, Italia organizzarono in modo capillare la raccolta di fondi, per pagare appunto i riscatti. E molti, scambiatisi con un prigioniero in mano araba, morirono senza rivedere la libertà.

Uno dei primi discepoli del Nolasco fu Raimondo Nonat (estratto vivo dalla pancia della madre morta), che compì imprese memorabili: nel 1224 a Valencia, allora in mano musulmana, riscattò duecentotrentatré schiavi spagnoli; poi ad Algeri ne riscattò centoquaranta e, in un altro viaggio, centocinquanta. Infine, sempre in Algeria, si offrì come ostaggio al posto di un prigioniero; ma – dato che in prigione continuava a convertire musulmani – si racconta che le guardie, per impedirglielo, forarono le sue labbra e le chiusero con un lucchetto. Infine fu riscattato dal suo stesso ordine. Morirà, sfinito, nel 1240, a trentasei anni.

Un altro fu l’inglese Serapion Scott, che il Nolasco volle maestro dei novizi: raggiunse, infine, Algeri per la “redenzione” di alcuni schiavi; ma, siccome la somma pattuita non arrivò in tempo, i suoi carcerieri lo inchiodarono a una croce e così morì.

Nel 1474 si fissarono a Modica, in Sicilia, qui dedicandosi soprattutto alla “redenzione” di pugliesi, calabresi e siciliani fatti schiavi dai turchi; e, in seguito all’impresa di Cristoforo Colombo, nei Caraibi. Dopo il Concilio di Trento l’Ordine si spaccò in due, e nacque il ramo dei “mercedari scalzi”. La rivoluzione francese rischiò di far scomparire l’Ordine che, però, a poco a poco, si ricostituì.

Nei tempi più recenti, in seguito al Vaticano II ha aggiornato le sue costituzioni ora dedicandosi alla “nuove schiavitù”, ai detenuti ed ex detenuti, e ai cristiani che, in certi paesi, sono perseguitati. Ma quella loro storia antica, intrisa di coraggio e di Vangelo, non può essere ignorata.


Il carcere può cambiare? [pubblicato su Confronti 9/2018] di Maria Pia Giuffrida (Presidente dell’Associazione Spondé Onlus, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria)

Il carcere può cambiare? È una domanda, questa, a cui ho cercato di dare una risposta dal lontano 1979, anno in cui entravo nell’Amministrazione penitenziaria. È una domanda a cui si tenta solitamente di rispondere su diversi piani. Vediamone alcuni.

I “PIANI” DEL SISTEMA PENITENZIARIO

Il piano normativo ha visto il sistema penitenziario ostaggio del pendolarismo politico in un irragionevole rincorrersi di norme diverse e divergenti che hanno spesso tradito lo spirito della riforma e il dettato costituzionale. Norme dettate spesso dalle ideologie prevalenti e ancor più spesso scritte senza alcuna coerenza rispetto all’impianto generale dell’ordinamento penitenziario e alle direttive internazionali che sono e restano cogenti per gli Stati membri dell’Unione europea. Sembra che il legislatore non conosca il sistema dell’esecuzione delle pene intra ed extra murario e lanci delle “innovazioni” che non tengono conto della reale applicabilità delle norme stesse che si inseriscono pertanto a fatica tra altre.

Il piano organizzativo del sistema penitenziario non può non essere considerato un tratto fondamentale del sistema, una variabile che condiziona pesantemente le possibilità di cambiamento: la rigidità organizzativa del sistema è autoreferenziale e subordinata alle esigenze delle categorie professionali. La vita quotidiana degli Istituti penitenziari – in particolare – è scandita dai turni di servizio della polizia penitenziaria.

Le attività “trattamentali” sono spesso stritolate dalle logiche della burocrazia e delle turnazioni, di un insieme di “regole penitenziarie” spesso incomprensibili o inutili. Uguale rigidità si riscontra paradossalmente anche nel sistema dell’esecuzione penale esterna, che sul territorio dovrebbe operare e che invece è sovente incastrato nei rassicuranti adempimenti e riti burocratici e doveri d’ufficio.

Il piano delle risorse economiche ci ha fatto assistere al depauperamento dei diversi capitoli di spesa, con momenti di ossigenazione mai sufficienti a garantire il funzionamento del sistema e la gestione delle strutture e della popolazione detenuta. Su tale argomento varrebbe sicuramente la pena di approfondimenti complessi su diversi aspetti di cui cito soltanto l’edilizia penitenziaria, le spese di mantenimento dei detenuti, il lavoro penitenziario, le attività trattamentali. Va citata la situazione critica delle risorse per il sistema extramurario.

Il piano delle risorse umane ha visto, in particolare nell’ultimo decennio, un mancato investimento qualitativo e quantitativo sui quadri dirigenziali (dirigenti di Istituto e di Uepe), un impoverimento generazionale degli organici degli operatori del trattamento (educatori e assistenti sociali), un ricambio degli operatori di polizia penitenziaria di tutti i gradi e livelli funzionali. Sembra che l’attenzione dell’amministrazione sia stata spesso più rivolta alle politiche del personale che alla gestione dei compiti istituzionali legati all’attuazione del dettato normativo nella sua interezza, determinando peraltro una spaccatura tra le diverse categorie diversamente toccate da riforme e da ricadute economiche.

È di tutta evidenza la scarsa importanza che viene attribuita al trattamento penitenziario rispetto al sistema della sicurezza e del controllo, poli che dovrebbero sinergicamente integrarsi rispetto alla finalità costituzionale della pena. Il personale al di là di quanto sopra detto vive peraltro una elevata situazione di burnout cui non si porta rimedio in alcun modo incentivando e sottolineando quasi l’inevitabilità di tale stato di continua frustrazione, legato a una continua mancanza o avvertita mancanza di riconoscimento di dignità da parte di tutti gli operatori. In realtà si dovrebbe parlare più che di burnout di una perdita complessiva e diffusa di significato del proprio lavoro, di “ignoranza” di ritorno sull’ordinamento penitenziario che fa vivere la quotidianità come adempimento svuotato di qualsiasi contenuto valoriale.

È diffuso un sentimento di inevitabilità che ha portato sempre più gli operatori ad atteggiamenti di rinuncia. Questo è vero in particolare per gli operatori del trattamento (educatori ed assistenti sociali) che teorizzano ormai spesso l’impossibilità di dar seguito alla norma penitenziaria; questo è vero per la maggior parte dei direttori/dirigenti che ormai presi dalla corsa alla managerialità, hanno completamente perso di vista l’importanza del loro ruolo di impulso, di coordinamento e di garanzia della legalità nell’esecuzione della pena. Va inoltre detto che spesso con  “managerialità” si appiattisce  unicamente sul piano di una maggiore retribuzione a cui non fa sempre seguito un’effettiva capacità di gestione innovativa.

Per quanto riguarda il sistema della popolazione in esecuzione di pena in condizione detentiva o in misura alternativa le statistiche sono sempre allarmanti.
Le percentuali di stranieri (che peraltro non accedono ai benefici per carenze personali) sono elevate, le condizioni di vita dei detenuti sono oggetto di denunce, gli spazi detentivi spesso in contrasto con i diritti umani, gli spazi di socialità spesso inesistenti, la sorveglianza dinamica accusa il colpo delle difficoltà gestionali e degli incalzanti ribaltamenti delle logiche politiche, le offerte trattamentali sono sparute e spesso coincidenti solo con offerte di intrattenimento.

NO ALL’INFANTILIZZAZIONE DEL DETENUTO

Quello che balza all’occhio è l’ozio “involontario”, la passivizzazione e l’infantilizzazione della persona detenuta, la paura e la disperazione che sfociano spesso in atti di autolesionismo, il silenzio e il rumore, i piccoli e grandi spazi di potere, i privilegi e i provvedimenti disciplinari: l’irragionevolezza in altri termini di un sistema che contiene e “insegna” un “buon comportamento penitenziario”, quel comportamento che eviti episodi che possano diventare oggetto di provvedimenti disciplinari di diverso peso, ovvero quel buon comportamento che favorisca l’ottenimento dei benefici di legge.

Si tratta di una sorta di incentivazione quotidiana alla strumentalizzazione in un mondo che ha creato innumerevoli rituali burocratici e massificanti attraverso cui far scorrere “il tempo della pena” di persone, di uomini e donne, affidate al sistema dell’esecuzione della pena detentiva o in misura alternativa. Sempre più si parla di progetti che non riguardano la dimensione soggettiva dell’osservazione e del trattamento, argomenti questi ultimi che vengono trattati da taluni con un atteggiamento di “sufficienza” quasi fossero residuali. Il diritto del condannato ad un trattamento individualizzato, punto cardine della riforma del 1975, sembrerebbe dimenticato se non si facesse riferimento alla competenza di singoli operatori delle varie categorie professionali. In altri termini il sistema non funziona e ciò che va avanti nasce dall’impegno di singoli, dalla competenza professionale e dalla tenacia di alcune persone che in carcere lavorano o che con il carcere collaborano.

Dinanzi alle problematiche brevemente accennate come rispondere dunque riguardo ad una possibilità di cambiamento? Il senso di impotenza è immediatamente percettibile e comunica un senso di inevitabilità che non è minimamente scalfito da dibattiti colti e da interventi settoriali: intervenire su uno solo dei piani – come spesso accade – non risolve praticamente nulla, non riesce a cambiare questo monolitico sistema.

LA RESPONSABILITÀ

Queste riflessioni appariranno certamente severe e distruttive ma portano a mettere a fuoco il piano fondamentale su cui è necessario – a mio parere – intervenire: la responsabilità. Il tema della responsabilità ci porta a “cambiare occhiali” e riconsiderare il piano culturale, il sistema dei valori, la riscoperta di significato e di senso, la centralità dell’uomo, la ri-valorizzazione delle relazioni.

«Responsabilità – ci dice Salvatore Natoli  – [viene dal termine greco, ndr] sponsìo che vuol dire propriamente promessa, impegno: suo sinonimo è prestatio che vuol dire rendersi garante di qualcuno o qualcosa. Responsabile è, dunque, colui che spondet pro aliquo, si fa mallevadore di qualcun altro. La responsabilità è, allora, una presa in carico: essa obbliga a una risposta… C’è responsabilità solo in quanto c’è relazione». E ancora «nelle società contemporanee avanzate […] le colpe maggiori non riguardano tanto quel che si fa, ma quel che non si fa: il peccato corrente è l’omissione. Non assumersi responsabilità è il modo migliore per non sentirsi mai colpevoli».
Si tratta di assumere su di sé, continua Natoli, il «diuturno impegno perché si realizzi un mondo più giusto […] le società contemporanee diverranno società responsabili solo quando abbandoneranno la pratica diffusa dell’omissione, che le esonera formalmente dagli obblighi e permette loro la falsa coscienza: quella di sentirsi innocenti».

Responsabilità dunque dell’amministrazione penitenziaria e per essa di tutti gli operatori che devono assumere su di sé il coraggio di sviluppare “il dover fare trattamento”, di non ridurre il loro ruolo ad aspetti formali, burocratici e auto garantisti, il coraggio di dare senso al proprio lavoro in linea con la Costituzione del nostro Paese e all’Ordinamento penitenziario e di dare rinnovato significato alle parole. Le nostre parole sono spesso bozzoli vuoti – ci dice Carofiglio,  «Dobbiamo restituire loro senso, consistenza, colore, suono, odore. E per far questo dobbiamo farle a pezzi e poi ricostruirle. (Le parole hanno) il potere di produrre trasformazioni, è necessario smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti». Il mondo del carcere è un mondo “inerte” che vive una vita fatta di regole (e parole) spesso irragionevoli o inutili, dove la ricerca di senso si ferma sul ciglio della propria tranquillità, sul confine dell’auto garanzia. Per cambiare dobbiamo ritrovare il senso, i significati. Per assolvere al compito che la norma ci dà dobbiamo trovare le parole e il coraggio di entrare in relazione con l’altro che a noi è affidato: con l’uomo detenuto che deve assumere su di sé il senso della sua responsabilità.

Lasciare che il detenuto viva (pur tenendo un comportamento regolare) l’ozio quotidiano significa non aver assunto su di sé la responsabilità degli operatori di “fare trattamento” cosicché il soggetto possa attuare un positivo reinserimento sociale.

PER UNA CONVERSIONE CULTURALE DEGLI OPERATORI

Ma oggi questo obiettivo è già amplificato. L’art. 27 (e l’art. speculare 118) del Regolamento di esecuzione ci aiuta ad uscire da una dimensione autoreferenziale e reo-centrica della pena e del trattamento rieducativo, e dal focus sulla responsabilità retrospettiva sul reato che ha rotto una norma, ci fa entrare in una prospettiva pro attiva e relazionale in cui assume valore la responsabilità verso l’altro, verso la vittima, verso la collettività.

La Direttiva di Strasburgo 2012/29/UE  ci dice che «Il reato non è solo un torto alla società ma anche una violazione dei diritti individuali delle vittime» e ci impone di uscire da una logica esclusivamente retributiva e trattamentale-rieducativa per metterci in un’ottica relazionale dove assume valore la persona vittima e la verità storica dei fatti che l’hanno colpita.
Responsabilità dunque del soggetto in esecuzione di pena non solo verso la norma ma anche e soprattutto verso la vittima.

La conversione culturale degli operatori penitenziari è dunque fondamentale: non si tratta più di “contenere”, osservare ai fini della valutazione di un buon comportamento (o meno), non si tratta più soltanto di “aiutare” il detenuto – attraverso un percorso trattamentale – di rientrare nell’ambito socio-familiare di appartenenza: si tratta di sentirsi “responsabili” dell’opera di sostegno di ciascun detenuto verso l’assunzione di una responsabilità individuale e il riconoscimento di una responsabilità sociale e collettiva, si tratta di ricollocare la vittima di reato al centro di ogni riflessione, si tratta di andare oltre la norma infranta verso il danno “irreparabile” provocato nell’esistenza di altri soggetti.

Non si può – ritornando a Natoli – “omettere” nulla, non si può sentirsi in pace con se stessi se non si assume la responsabilità verso l’altro, se non si accoglie la scommessa di un profondo cambiamento.


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