Corso di Religione

Donna - pag. 1
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ISLAM
La donna nell'Islam
         


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L'atteggiamento dell'islam riguardo la donna.
di TARIQ RAMADAN - ( musulmano-docente universitario di legge coranica ad Oxford )

L'istruzione femminile " ..C'è una discriminazione tra l'istruzione data ai ragazzi e quella data alle ragazze?

Nelle scuole coraniche che ho visitato in Marocco, dove ho effettivamente scoperto ragazzini ripetere il Corano per impararlo a memoria, le ragazze sono ugualmente ammesse?

In molti paesi musulmani - ma direi che non è per il fatto che sono musulmani che accadono queste cose - la percentuale di alfabetizzazione delle donne è molto inferiore a quella degli uomini.

Dal punto di vista islamico è chiaramente inaccettabile. I testi fondamentali dell'islam non possono suffragare in nulla questo stato di fatto, tanto essi sono espliciti sulla necessità di istruire le donne. L'istruzione, il sapere, l'intelligenza fanno parte dell'identità della musulmana e del musulmano.

Il Profeta dell'islam è molto chiaro a questo proposito: La ricerca del sapere è un obbligo per ogni musulmano ed ogni musulmana. Inoltre ha affermato che colui o colei che educherà sua figlia allo stesso modo che suo figlio, sarà protetto dal castigo dell'altra vita.

Le tradizioni che confermano ciò sono numerose e rientrano tutte nell'idea globale, per l'uomo come per la donna, che un sapere vasto è la condizione per una fede profonda.Il testo coranico è chiaro: Coloro tra i servitori di Dio che Lo temono di più (nel senso di timore reverenziale) sono i sapienti. L'uomo e la donna devono seguire lo stesso cammino di conoscenza rispetto al Creatore.

L'istruzione è fondatrice dell'identità musulmana ed il miglior esempio è proprio la moglie di Muhammad, Aisha, che ha trasmesso molte tradizioni, istruito tante generazioni e che, durante la sua vita, è rimasta un punto di riferimento in materia di conoscenza religiosa.

Resta il fatto che, tra questo insegnamento fondamentale e la realtà delle società islamiche oggi, il divario è immenso. l modello sociale ed educativo proposto dall'Arabia Saudita o il modello educativo messo in piedi dai talibani sono in opposizione con i principi dell'islam perché entrambi negano alle donne l'accesso alla conoscenza, mentre questo è un diritto inalienabile: bisogna denunciare questi sistemi arcaici.

Il matrimonio poligamico

Molto spesso la poligamia e' stata associata, nell'immaginario occidentale, ad un'espressione di perversita' sociale e di lascivia, mentre lo studio del testo coranico dimostra che essa e' la prima forma di sicurezza sociale e di protezione nei confronti di vedove ed orfani che, in mancanza del welfare state, rischiavano di morire di fame.

Il testo coranico parla chiaro:

"E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani che vi sono affidati, sposate allora due o tre o quattro delle donne che vi piacciono, ma se temete di essere ingiusti allora sia una sola". (Corano 4: 3).

La poligamia dunque e' permessa, ma e' ricca di condizioni non meno esplicite.

Gli scolari ( teologi) musulmani quasi all'unanimita' affermano che l'orientamento generale dell'insegnamento islamico tende alla monogamia, e, difatti, nel mondo musulmano la poligamia rappresenta l'eccezione piu'che la regola.

Bisogna ancora una volta sottolineare il fatto che il credente e' responsabile dei suoi atti di fronte a Dio, e che percio' nessuna azione che possa fare deliberatamente del male ad una persona e' tollerata.

Il musulmano crede fermamente che, un giorno, dovra' dare conto delle sue azioni a Dio e, quindi, resta sempre in equilibrio tra l'intenzione sincera di fare il proprio meglio e la possibilita' di non appesantire inutilmente la vita quotidiana con regole insormontabili.

La poligamia è una pratica davvero antica.


La Bibbia ( ebraica ) non condanna di certo la poligami, in quanto i Profeti erano loro stessi poligami: il Re Salomone affermò di avere 700 mogli e 300 concubine (1 Re 11,3); Re Davide affermò di avere molte mogli e concubine (2 Sam. 5,13) La sola restrizione alla poligamia biblica è il bando nel prendere la sorella di una moglie come rivale della stessa (Lev. 18,18). I consigli nel Talmud sono di prendere al massimo 4 mogli.

In nessun brano, nel Nuovo Testamento, vi è un esplicito comandamento che dice che il matrimonio deve essere monogamo e nessun comandamento che proibisce la poligamia. Inoltre, Gesù nei Vangeli, non ha mai dato contro alla poligami della socità giudea di quel tempo.

Padre Hillman (Jeffrey H. Togay - "Adultery" Encyclopaedia Judaica vol. 2 col. 313) non approvò per nulla il fatto che la Chiesa a Roma abbia bandito la poligamia, in accordo con la cultura greco-romana (che prescriveva solo una moglie legale, ma tollerava concubinaggio e prostituzione).

La chiese africane cristiane, tuttora, ricordano che la messa al bando della poligamia si tratta solo di una tradizione culturale e non di una ingiunzione cristiana e tuttora, la considerano così.


La poligamia dell'uomo nel Corano è consentita, nelle misure e nei termini di amore, di affettività e mantenimento economico descritti dallo stesso Libro e permette a molte donne di salvarsi (anche in termini economici) da gravi situazioni famigliari.

Vi sono comunque diverse interpretazioni date al seguente versetto del Corano:

"... E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro fra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono (schiave legalmente possedute), ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti...." (Corano An-nisa'e 4,3)

Perchè la poligamia nell'Islam è permessa?


Semplicemente perchè ci sono luoghi e tempi in cui ci sono comprensive ed inconfutabili ragioni per la poligamia.

L'Islam è una religione universale per tutti i luoghi e per tutti i tempi per cui non si possono trascurare queste ragioni inconfutabili. In gran parte delle società umane il numero di donne supera di molto quello degli uomini.

Negli Stati Uniti d'America, ci sono, almeno, 8 milioni di donne in più rispetto agli uomini. In un paese come la Guinea ci sono 122 donne per ogni 100 uomini. In Tanzania ci sono 95 uomini per ogni 100 donne. (Lesley Hazleton "Israeli Women - The Reality Behind the Mysths 1977)

L'uomo, contrariamente a quanto generalmente si pensa in occidente, ha molti doveri nei confronti delle proprie mogli: il dovere di amarle tutte in egual misura, di mantenerle economicamente tutte in egual misura (4,34), di essere dolce, gentile, permissivo, comprensivo, tollerante, rispettoso verso il loro patrimonio personale, di condurle verso la fede per portarle in Paradiso con lui.

L'uomo deve chiedere sempre il permesso delle mogli alle quali è già sposato per prenderne un'altra.

La poligamia, quindi, (fino ad un massimo di 4 mogli), è consentita, ma, in pratica, secondo i doveri imposti dal Libro, è estremamente difficile da attuare con serenità.

Per l'uomo è dovere morale formare una famiglia e quindi avere dei figli, sempre senza ricorrere a metodi di gravidanza non totalmente naturali: fecondazione in vitro, utero in affitto, manipolazioni genetiche, cure ormonali non sono consenitite nell'Islam.

Quando si parla di poligamia, i cristiani affermano che "la Bibbia non dovrebbe essere usata come un trattato di giurisprudenza sul matrimonio", perchè i profeti ( ebrei) (tranne Gesù) sono sempre stati poligami !

Mentre per altri dettami di fede allora sì che la Parola di Dio è legge, ma che senso ha questa affermazione ? La Parola di Dio è Legge, per i credenti (per tutti, dico io), non esiste la democrazia!

[NOTA REDAZIONALE : l'interpretazione della Bibbia qui riportata è del tutto arbitraria e non corrisponde a quella del cristianesimo. Il cristianesimo non è una " religione del Libro" ma è la fede in una persona : Gesù.]

Le donne e il servizio religioso


Per ciò che riguarda il legame con Dio e la pratica religiosa in generale, gli obblighi per le donne e per gli uomini sono esattamente gli stessi, con un alleggerimento per le donne mestruate e le puerpere.

La pratica è la stessa e le esigenze legate alla spiritualità, al raccoglimento e alla vita interiore sono identiche. Quanto alle moschee, ci sono diverse situazioni: a volte gli uomini sono davanti e le donne dietro, a volte c'è una separazione tra due spazi contigui, a volte ci sono due piani.

L'obiettivo, nella moschea, è di concentrare totalmente il proprio essere, il proprio cuore e la propria coscienza verso Dio: la separazione degli uomini dalle donne permette di evitare le preoccupazioni umane che potrebbero disturbare, tenuto conto della natura degli uomini, l'aspirazione verso il trascendente.

La moschea, luogo della prossimità, richiede di proteggersi dalla distrazione. Da notare che a La Mecca, durante il pellegrinaggio, uomini e donne pregano l'uno accanto all'altra, espressione, in questo momento di intensa spiritualità, di una eguaglianza totale degli esseri al Centro: uomini e donne, insieme, davanti al Creatore.

Alla luce di ciò che accade a La Mecca si comprende che la filosofia generale della separazione non ha nulla a che vedere con una discriminazione di fatto ma piuttosto con un riguardo particolare alle esigenze di una spiritualità profonda, concentrata, esclusivamente attenta alla presenza dell'Unico.

Bisogna tuttavia dire che, in certi paesi, in Asia o nelle regioni sotto influenza indo-pakistana, le moschee sono chiuse alle donne. Questa lettura della tradizione non è fedele all'insegnamento del Profeta che aveva detto:

"Non impedite alle vostre spose di recarsi in moschea".

La frase è chiara e non c'è possibilità di fraintendimenti. Sono stato recentemente in Pakistan, all'isola Maurice e La Réunion dove le moschee il più delle volte sono interdette alle donne. Si tratta di tradizioni che non sono fedeli alle due fonti sulle quali si basa l'islam le sole che fanno fede.

La moschea è un luogo di vita, di studio e di preghiera per le donne come per gli uomini. Quando uomini e donne sono presenti per la preghiera questa è diretta da un uomo, ma per le donne tra loro è una donna che riveste il ruolo di imam (la scuola malikita, maggioritaria nell'Africa del Nord, non lo permette e neppure alcuni sapienti della scuola hanafita).

Per la maggioranza dei musulmani la donna ha il diritto di dirigere la preghiera e di essere imam. Alcuni le riconoscono il diritto di dire anche il sermone del venerdì e sono riportati esempi storici che confermano questa possibilità.

L'omosessualità


L'omosessualità non è permessa nell'islam e la sua legalizzazione pubblica, come viene rivendicata in Europa, non può essere considerata né sul piano del riconoscimento sociale, né sul piano del matrimonio, né sotto altra forma.

Lì c'è un limite riguardo all'espressione della norma che si applica allo spazio sociale e pubblico. Il dibattito sull'omosessualità è complesso e mette in evidenza in ogni caso due concezioni dell'uomo: per l'islam, l'omosessualità non è naturale, essa esce dalla via e dalle norme della realizzazione degli esseri umani davanti a Dio. Questo comportamento rivela un turbamento, una disfunzione, uno squilibrio.

Non si tratta di sviluppare un discorso di rifiuto, di condanna di "questi malati" che ci circondano. Alcuni musulmani, sapienti o meno sapienti, parlano in questo modo, ma non mi associo a questo discorso.

Oggi ci sono un'analisi ed una riflessione da sviluppare a monte: il limite, l'ho detto, è chiaro riguardo alla proibizione, ma l'applicazione deve tener conto della società, dell'ambiente, della storia personale degli esseri. Non si tratta di colpevolizzare, ma di accompagnare, di orientare, di riformare, per accedere all'equilibrio della spiritualità, dell'intimità e della vita del corpo. "

Il velo islamico e altro

" .. Se si giudica in base al testo del Corano e in base a come vivono effettivamente i musulmani, la relazione tra l'uomo e la donna è all'insegna del rigore. Ma non ci si può fermare a questa sola constatazione.

Quando si tratta l'argomento della donna nell'islam, bisogna far la differenza tra quanto si trova nei testi, e che costituisce il riferimento per i musulmani, e le cose che avvengono nelle società a maggioranza islamica e che spesso non sono, ed è il meno che posso dire, in accordo con le fonti scritte.


L'abbigliamento bizzarro delle donne afghane è chiaramente considerato umiliante e degradante: non possono uscire dalle loro case se non bardate da una sorta di garitta di tessuti, orientandosi nel loro cammino attraverso una griglia che permette loro giusto di respirare e di vedere, il che deve essere particolarmente opprimente in un paese caldo.

E questo lascia intendere che i talibani, che pretendono di essere studenti di teologia, considerano la donna come un essere pericoloso al punto che il solo aspetto possa minare le basi della società islamica.

Una famiglia maghrebina sa che dovrà vivere definitivamente in Francia, non ha alcuna speranza di ritornare. La ristrettezza di spirito della società francese impedisce di integrare le giovani nella scuola accettando che esse portino il foulard come la famiglia musulmana desidera. Anche se l'aggressione iniziale proviene dalla società francese, la reazione della famiglia maghrebina resta inquietante. Si rassegna a non dare un'istruzione alla figlia piuttosto che transigere su un dettaglio, che ha comunque un'aria un pò formalista.

La salvezza spirituale di una donna musulmana non dipende dal velo.

E' proprio necessario trasformare queste giovani in martiri per un'attenzione esagerata ad una pratica rituale secondaria?

Prima di tutto  precisiamo la terminologia: facendo riferimento al testo coranico e tenuto conto della comprensione che bisogna avere dell'abbigliamento della donna, mi sembra che il termine più appropriato sia "foulard".

Il termine "velo" porta con sé una connotazione molto negativa, mentre chador è il riferimento persiano (sul piano terminologico come su quello dello stile) del modo di portare il foulard.

Essere chiari sulla terminologia è importante perché si percepisce subito, anche quando si parla con giornalisti e provveditori scolastici, che spesso questi termini vengono confusi...

Portare lo chador significa sostenere il potere iraniano, difendere il "velo" che per estensione "velerà" e "nasconderà" tutto delle donne, come avviene in Afghanistan. Il termine utilizzato dice molto della rappresentazione che si ha di ciò che le donne portano per nascondere i loro capelli e che in francese è comunemente chiamato foulard.

C'è una chiara mancanza di comunicazione da parte dei musulmani riguardo alla spiegazione della loro religione e delle loro pratiche, ma esiste anche nelle società europee una grande ignoranza, mescolata a tanti a priori e pregiudizi...

Questi due fenomeni impediscono il dibattito profondo e circostanziato del quale abbiamo bisogno oggi.

La secolarizzazione ha provocato una sorta di oblio di ciò che può significare un atto di fede ed infatti la sola pratica ha tendenza ad essere considerata fuori norma o al limite del comportamento "normale", ossia abituale perché divenuto maggioritario. E' il caso del foulard che indossato è talmente inusuale che diventa in sé l'espressione di una sensibilità e di una pratica radicali, perfino estremiste dell'islam.

Nell'ardore del dibattito è stata dimenticata e trascurata la dimensione dell'atto di fede, la dimensione spirituale dell'essere. Si assiste ad una sorta di rappresentazione unica di che cosa è la libertà: le nostre società, a furia di rappresentazioni sofisticate del "benessere", ci hanno insegnato che questa libertà risiede nel "fa' quello che ti piace".

La fede, la spiritualità ci orientano verso una dimensione esigente della libertà che è ancorata nell'intimità al "sii quello che ti piace". S'incontrano dunque due rappresentazioni che devono trovare i mezzi di una comunicazione rispettosa ed egualitaria. Non è semplice.

Chi dunque, al mondo, può arrogarsi il diritto di giudicare un atto che ha le sue radici nel cuore e nella coscienza di un essere umano?

Bisogna ascoltare le donne che decidono di coprirsi da loro stesse e per propria scelta. E' da questo punto di partenza che comincia il vero dialogo pluralista ed egualitario in una società.

Imporre ad una giovane o ad una donna di portare il foulard non è né accettabile né islamico; imporre ad una giovane e ad una donna di toglierlo è allo stesso modo inaccettabile, e in disaccordo con i diritti dell'uomo. La cosa è semplice.

Il dialogo deve poi impegnarsi in profondità sulle rappresentazioni ed i significati che si danno rispettivamente alle nostre pratiche.  .."


L'hijab e l'islam: sveliamo un segreto 
di Silvia Scaranari (il Domenicale. Settimanale di cultura, 25 dicembre 2004)

Velo sì, velo no: problema plurisecolare nel mondo islamico che s’interroga con insistenza sull’abbigliamento femminile più consono alla natura propria della donna e al rispetto delle indicazioni coraniche al riguardo.

Oggi il dibattito ha assunto valenze diverse: non è più solo il pudore femminile a dover essere difeso ma spesso, in certi ambienti, è l’identità stessa della donna islamica a riconoscersi in un pezzo di stoffa posto sul capo a copertura di quei capelli ove, secondo un detto del Profeta, risiede un terzo della bellezza femminile.

Il dibattito, che prosegue da secoli, non è peraltro destinato a esaurirsi a breve giacché origina proprio nella poca chiarezza con cui il problema viene affrontato nel Corano stesso.

In epoca preislamica l’uso del velo è incerto, e nel Corano è richiamato solo sette volte: poche per un elemento che avrà tanto significato nei secoli futuri. Durante la vita di Muhammad non vi è nulla che testimoni un simile uso da parte delle sue numerose mogli.

In genere si fa però risalire la rivelazione circa il velo al versetto 53 della sura 33: a Medina, nell’anno 5 dell’Egira, dopo aver sposato la cugina Zaynab, Muhammad non riesce ad allontanare i numerosi ospiti presenti nella propria casa e così, a un certo momento, decide di tirare una cortina (sitr) che divida la stanza in una parte destinata a tre ospiti particolarmente invadenti e un’altra riservata alle attenzioni di Zaynab verso il marito. Fu lì che scese la rivelazione dell’ hijab, il velo:

“Quando chiedete ad esse (le mogli del Profeta) un qualche oggetto, chiedetelo da dietro una cortina: ciò è più puro per i vostri cuori e per i loro”.

È quindi una circostanza particolare che rende necessaria la separazione fra gli estranei alla casa di Muhammad e le donne, in questo caso esplicitamente solo le sue. Inoltre, il termine hijab viene usato più volte con significati del tutto diversi: come barriera che impedisce al credente di vedere Allah durante la rivelazione (Corano, XLII, 51); come velo con cui Maria, la madre di Gesù, si riparò dagli sguardi indiscreti della propria gente (XIX, 17); come barriera che separa i dannati dai beati nel giorno del Giudizio (VII, 46).

Esiste poi l’espressione “darabat al-hijab” cioè “ella mise il velo”, a significare “sposò il Profeta”; solo le mogli di Muhammad potevano infatti portare il velo (XXXIII, 59), e questo perché le si distinguesse dalle altre donne, in particolare dalle concubine, e perché fossero particolarmente rispettate dai fedeli, a cui peraltro il Corano faceva espresso divieto di sposarle in caso di ripudio o di morte del loro marito.

In senso ancora più generale, l’espressione indica il “velo” della notte che avvolge il sole al tramonto (XXXVIII, 32), o ancora, e in senso mistico, è il buio che ottenebra il cuore e i sensi degli empi (XLI, 5).

Quattro diversi modi d’intendere il velo

Tuttavia nell’islam classico e contemporaneo, l’hijab ha acquisito significati diversi, seguendo almeno quattro percorsi fra loro anche molto lontani: Il velo, inizialmente imposto solo alle mogli di Muhammad, è stato esteso a tutte le donne musulmane libere. Indica il passaggio dall’infanzia alla pubertà e serve a coprire tutto il corpo femminile tranne il viso e le mani.

Secondo molti interpreti, questa usanza segna la netta separazione, anzi segregazione, della donna dalla società civile, ma nella prospettiva islamica indica soprattutto il rispetto dovuto alla donna che così viene salvaguardata dagli sguardi impuri degli uomini.

Secondo Alessandro Aruffo, “nel corso della storia, l’islam ha proposto molteplici varianti del velo in rapporto ai popoli e alle culture con cui è venuto in contatto e con l’acquisizione di molteplici significati simbolici” (Donne e islam, Datanews, Roma 2000, p. 49) ed infatti si è parlato di volta in volta di litham, khinâ‘ e burkhu‘ .

Quest’ultimo, il famoso burqa, è forse l’espressione più rigida della presunta prescrizione coranica, giacché non lascia trapelare nulla del viso e copre persino le mani con dei guanti neri. È tuttavia attestato che, durante la vita del Profeta, non tutte le sue mogli obbedivano alla prescrizione coranica e certamente non sempre.

Se ‘A’isha, la preferita, usava indossare il velo del matrimonio, altre non lo facevano affatto. Famoso è l’episodio di Umm Omara, che durante la battaglia di Uhd combatté vicino al marito e fu da questi elogiata per come usava la spada, la stessa donna che nel 634, sempre in combattimento, perse un braccio.

L’uso generalizzato del velo fu certamente un’influenza bizantina e romana, dove l’abitudine a coprirsi il capo era tipica delle donne aristocratiche. È infatti noto che anche presso i musulmani l’uso del velo non venne per lungo tempo adottato nelle campagne dove le donne, dovendo lavorare la terra, preferivano abbigliamenti che consentissero maggiore libertà di movimento.

Solo lentamente il velo si è imposto come uso comune, divenendo anzi gradatamente segno di distinzione e di appartenenza delle donne alla fede rivelata da Allah. Alla fine del XIX secolo, in Egitto prima e poi in Medio Oriente, partì un movimento a favore della abolizione del velo che trovò nello scrittore egiziano Khâsim Amîn il vero teorico della “emancipazione” femminile.

Nel 1873, dopo l’apertura dei primi collegi femminili, alcune iniziarono a chiedere l’abolizione del velo e nel 1926 sarà Huda Sha‘râwi Pasha la prima a presentarsi in pubblico a capo scoperto.

Oggi, al contrario, sono proprio le studentesse a chiedere e a indossare ostinatamente il velo in segno della loro appartenenza alla comunità islamica, talora in aperta sfida alle leggi statali come è recentemente accaduto in Francia.

Spirito e magia

Sempre il termine hijab (accanto a quello di sitr e di sitara) è usato per indicare la cortina di seta, o talora di legno pregiato, dietro la quale si cela il califfo o il re onde sottrarsi agli sguardi dei familiari. L’usanza, sconosciuta nei primi decenni dell’islam, pare sia stata introdotta dagli Omayyadi e sia stata poi ulteriormente complicata in Andalusia e in Egitto sotto i Fatimidi da un articolato rituale mirante ad aumentare il prestigio e l’aura sacrale del sovrano.

Nel mondo sufi, il termine hijab indica invece ciò che rende l’uomo impermeabile alla verità divina. Sono materialità, sensualità e superficialità che separano dalla verità divina la quale vorrebbe rivelarsi all’uomo e penetrarne il cuore, ma ne è impedita dalla bassezza delle passioni terrene. In ultimo, lo hijab è un oggetto semimagico usato in alcune pratiche popolari.

Garantisce l’invulnerabilità a chi lo porta, assicurandogli il successo dei suoi propositi. Si tratta di un piccolo foglio di carta sul quale lo shaikh (o il faqir) traccia segni cabalistici o versetti coranici e che viene conservato a contatto con la pelle onde ottenere ciò che si desidera: una maternità, l’amore, il successo, una guarigione.

Insomma, più un’usanza che un dogma scritturale.
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