Corso di Religione



CYBERTEOLOGIA
La rete , cos'è?
         


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Chiesa come rete. Rete come Chiesa ? http://www.cyberteologia.it/2012/05/alla-ricerca-di-dio-al-tempo-di-google/   intervista di Filippo Sensi apparsa su Europa il 27 aprile 2012

Senti cyberteologia e ti viene in mente Philip K. Dick, o magari uno di quei videogiochi spara-spara, magari con una curvatura esoterica, che spopolano tra gli smanettoni.

E invece è una riflessione cognitiva ormai matura, anche se in progress, lo sforzo speculativo di “pensare il cristianesimo al tempo della rete”,

come recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Antonio Spadaro, da qualche mese direttore della Civiltà Cattolica, la più antica rivista italiana, come ci dice con orgoglio lui stesso, in una conversazione con Europa, a partire proprio dal suo volume (Cyberteologia, Vita e pensiero ).

Quarantacinque anni, gesuita, con una formazione «mista, a cavallo tra una disciplina e l’altra», Spadaro ci tiene a preservare la fisionomia distinta della cyberteologia rispetto alle pastorali, alle sociologie della rete, perfino alle teologie contestuali: nei suoi interrogativi c’è, piuttosto, una urgenza epistemologica, una intelligenza delle fede che mira ad andare al nodo ultimo, verso il “Punto Omega” , per usare il lessico di un pensatore molto amato dal direttore della Civiltà Cattolica, Teilhard de Chardin .

«È un autore complesso, geniale, e il pensiero geniale è sempre sorgivo, fangoso, impastato», spiega Spadaro, «è la sua ambiguità a renderlo grande, ci impone di cogliere in lui più le domande che le risposte». Se l’itinerarium del teologo messinese, per ora, fa stazione presso la noosfera teilhardiana come tensione/attrazione dell’umanità, sempre più connessa come in un sistema nervoso planetario, verso Dio, il punto di partenza della sua riflessione è che Internet non può essere banalizzato come strumento, ma è ormai l’ambiente in cui ci muoviamo.

«La rete e la Chiesa – scrive – sono due realtà da sempre destinate a incontrarsi. La sfida, dunque, non deve essere come “usare” bene la rete, come spesso si crede, ma come “vivere” bene al tempo della rete».

In questa contemporaneità della riflessione, anche etica, di Spadaro si può leggere un umanesimo profondo, mutuato dalla lunga frequentazione della letteratura, in particolare con la scrittura di  Flannery O’Connor , la poesia di Gerard Manley Hopkins e di Walt Whitman (che il teologo ha anche tradotto); una dimensione che consente al teologo di utilizzare una sensibilità linguistica preziosa e penetrante.

Come quando si interroga sulla persistenza, nel lessico della tecnologia, di concetti presi a prestito dal piano religioso, come “salvare”, “convertire”, “giustificare”, “condividere” («il linguaggio della fede è talmente denso di siginificato che poi sconfina», azzarda così una risposta il direttore della Civiltà Cattolica). O come quando chiede «come cambia la ricerca di Dio al tempo dei motori di ricerca», per negare, però, poi radicalmente la possibilità di una «googlizzazione della fede».

Se l’assunto di partenza della cyberteologia è che  non si può fare finta che questa dimensione della rete non solo esista, ma abbia un impatto significativo sulla nostra capacità di pensare il fatto cristiano, ne discende che una mera fenomenologia della rete, dei suoi usi, delle sue liturgie, dei suoi gadget resti insufficiente in questo lavoro di messa a fuoco.

Cioè a dire, non si arriva al punto, se ci si ferma esclusivamente a impastare la fede della terminologia imposta dalle nuove tecnologie; non è un lavoro di traduzione, bensì di tradizione, quello che si richiede al teologo, di tradizione e di innovazione insieme.

Spadaro lo spiega, con un riferimento alla rivista che dirige, la Civiltà Cattolica: «Attenzione al fraintendimento di chi oppone innovazione e tradizione. Guardando alla storia della rivista, ad esempio, si può cogliere un grande sforzo di innovazione proprio alle sue origini. Era in italiano, e non in latino. Aveva diffusione nazionale, prima che l’Italia fosse unita. Si occupava di cultura alta, ma con un linguaggio leggibile, ordinario, comune, quasi militante».

Una passione per l’originario, per lo stato nascente cui il teologo non abdica mai, in nessuna delle sue attività, delle sue predilezioni. Perfino nella lettura delle Scritture, Spadaro si sofferma volentieri sul libro della Genesi, della «creazione del mondo come liberazione creativa dal caos». Perché «nella Bibbia – osserva, circondato dai libri del suo studio, l’amata Flannery O’Connor a portata di mano, in uno scaffale ordinato – la creazione non è ex nihilo, ma è un gesto creativo che mette ordine in un caos informe e spaventoso».

Così la sua cyberteologia prova a mettere a sistema le suggestioni speculative che già si trovavano nel precedente Web 2.0Reti di relazione e, più in generale, nella sua attività di blogger che lo scorso anno incuriosì perfino l’Economist. Ne è passato di tempo da quando Spadaro fondava la rivista letteraria  Bomba Carta , un progetto culturale che coordinava iniziative di scrittura creativa assieme alla produzione di video e a letture via Internet. Oggi il direttore della Civiltà Cattolica è stato nominato da papa Benedetto XVI consultore del Pontificio Consiglio della cultura e delle comunicazioni sociali.

Eppure non ci sta, anzi quasi si allarma, quando si sottolinea il dato anagrafico, mettendolo in relazione al rilievo degli incarichi che ricopre: «Oggi in Italia definire giovane una persona di 45 anni è inquietante, perché indica che non c’è una adeguata valorizzazione dei giovani, con il conseguente rischio di innescare una competizione tra giovani e adulti».

Prosegue il suo ragionamento: «In Italia si rischia di vivere una gerarchia legata più all’età che alla competenza: per carità, è indubbio che l’esperienza abbia una sua virtuosità. Ma se l’esperienza è un valore – rimarca Spadaro – anche la freschezza lo è. Attenzione, perciò, a far entrare questi due valori in conflitto».

E, d’altra parte, l’intero impianto della sua cyberteologia è all’insegna di uno sforzo di conciliazione, di reciproca comprensione tra due sfere, due dimensioni di cui il teologo conosce perfettamente il perimetro, senza confusioni, né sovrapposizioni di sorta. In un dialogo, però, continuo, pur nella differenza dei piani, quello dell’ambiente tecnologico e quello della Rivelazione: «Nella sfida che la mentalità hacker comincia a porre alla teologia e alla fede – scrive nel libro – va preservata l’apertura umana alla trascendenza, a un dono indeducibile, a una grazia che “buca” il sistema delle relazioni e che non è mai solamente il frutto di una connessione o di una condivisione, per quanto ampia e generosa».

Se così non fosse, avverte, la rete finirebbe per essere una «torre di Babele orizzontale», dando una fallace impressione di «onnipresenza», di «avvolgere tutto», dalla quale, tuttavia, sporge ed eccede la Rivelazione. Finora eravamo ai prolegomeni di una cyberteologia, di una fides quaerens intellectum al tempo dell’invadenza e delle opportunità liberate dai social network. «Ora il campo è aperto», ammette Spadaro, congendandoci. Se non ancora alle categorie, siamo, tuttavia, dentro un ecosistema di riflessione che promette di cambiare, e a fondo, la prospettiva teologica contemporanea.

Che si debba a un forty-something che si è occupato di Piervittorio Tondelli e Tom Waits, di Raymond Carver e Nick Cave o Andy Warhol è una sfida ai luoghi comuni con la quale spesso fraintendiamo il ruolo della Chiesa, il suo umanesimo, la sua missione.


Al tempo della Rete che cosa significa “esistere”?
Posted on 24 maggio 2012 CYBERTEOLOGIA.IT

Come si fa a vivere bene ai tempi della rete? 

Per comprenderlo bisogna verificare quali sono le trasformazioni che i media sociali realizzano nella nostra vita a livello profondo. La prima trasformazione consiste, del resto, nel significato stesso di che cosa significa esistere. 

Chi siamo quando siamo presenti e comunichiamo in Rete?

La nostra vita è lì, nelle foto e nei pensieri che condividiamo, lì sono i nostri amici. Noi, in un certo modo «siamo» in Rete, parte della nostra vita è là. Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo quando interagisco. Ci rendiamo conto ormai che noi esistiamo anche in Rete. Una parte della nostra vita è digitale. Dunque anche una parte della nostra vita di fede è digitale, vive nell’ambiente digitale.

Un mio studente africano della Pontificia Università Gregoriana una volta mi disse: «Io amo il mio computer perché dentro il mio computer ci sono tutti i miei amici». E’ vero: dentro il suo computer c’è Facebook, Skype, Twitter… tutti modi per lui di stare in contatto con i suoi amici lontani. La sua «comunità» di riferimento era reale grazie alla Rete.

Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando sembra dato dal fatto che l’esistenza «virtuale» appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale.

Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res  extensa, una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. 


La Rete : realtà puramente digitale, realtà duale, o realtà aumentata?di A Spadaro cyberteologia.it

L’irruzione dei social network nelle nostre vite impone nuove domande sul rapporto tra l’esistenza sul web e quella in carne e ossa:
si escludono, si ostacolano, si completano? Ma in fondo non è che la versione aggiornata dell’antica esigenza di coniugare spirito e materia.

Ripropongo qui un mio articolo apparso su  Avvenire del 9 settembre 2012  col titolo“Dobbiamo indagare l’ontologia del nuovo mondo ibrido” all’interno di un dibattito dal titolo “Realtà. Duale, digitale o aumentata?”. Con Chiara Giaccardi – autrice di un’altra riflessione sulla stessa pagina del quotidiano dal titolo “Online/offline? Per i nostri figli non c’è differenza” – abbiamo discusso sul tema a partire da un post del sito di Nathan Jurgenson dal titolo  Digital Dualism versus Augmented Reality .


Le nuove tecnologie digitali e i social network non sono più interpretabili come semplici strumenti tecnologici, ma creano un ambiente che determina uno stile di pensiero, contribuendo a definire un modo nuovo di stringere le relazioni, addirittura un modo di abitare il mondo e di organizzarlo.

Non si tratta di un ambiente separato, ma sempre più integrato, connesso con quello della vita quotidiana. Non un luogo specifico all’interno del quale entrare in alcuni momenti per vivere online, e da cui uscire per rientrare nella vita offline. 

Una delle sfide maggiori oggi è quella di non vedere nella Rete una realtà parallela, ma uno spazio antropologico interconnesso in radice con gli altri della nostra vita.

Invece di farci uscire dal nostro mondo per solcare il mondo virtuale, la tecnologia ha fatto entrare il mondo digitale dentro il nostro mondo ordinario. I media digitali non sono porte di uscita dalla realtà, ma estensioni capaci di arricchire la nostra capacità di vivere le relazioni e scambiare informazioni.  

La Rete sembra essere un vero e proprio tessuto connettivo attraverso il quale esprimiamo la nostra identità e la nostra stessa presenza sociale.

La sfida, dunque, non deve essere quella di come usare bene la Rete, come spesso si crede, ma come vivere bene al tempo della Rete.


Finché si manterrà il dualismo on/off si moltiplicheranno le alienazioni. Finché si dirà che bisogna uscire dalla relazioni in Rete per vivere relazioni reali si confermerà la schizofrenia di una generazione che vive l’ambiente digitale come un ambiente puramente ludico in cui si mette in gioco un secondo , un’identità doppia che vive di banalità effimere, come in una bolla priva di realismo fisico, di contatto reale con il mondo e con gli altri.

La sfida non è solamente etica ma anche profondamente spirituale
Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando è dato dal fatto che l’esistenza virtuale appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale.

Essa, certo,  non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Si apre davanti a noi un mondo ibrido, che interroga il significato della presenza, la cui ontologia andrebbe indagata meglio. 

Vivere le dinamiche delle reti sociali non significa giocare, ma vivere la realtà della propria vita. O almeno questo deve essere l’obiettivo: essere se stessi.

Benedetto XVI nel suo messaggio per la XLV Giornata delle comunicazioni ha giustamente ricordato che :

«le dinamiche proprie dei social network mostrano che una persona è sempre coinvolta in ciò che comunica. Quando le persone si scambiano informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le loro speranze, i loro ideali».

In quel messaggio il Papa ha chiaramente oltrepassato il dualismo ( virtuale-reale). A questo punto i paradigmi concettuali della realtà virtuale si percepiscono in tutta la loro fragilità. In che modo possiamo definire questa realtà complessa in cui si giocano più livelli di esistenza? Nathan Jurgenson  propone il paradigma della realtà aumentata.È valido questo paradigma? 

Il cuore della questione consiste nel fatto che una rigida distinzione duale tra naturale e artificiale, mente e corpo, res cogitans e res extensa non rende più ragione della realtà complessa che viviamo.

Ed è interessante che il riferimento teorico di Jurgenson sia Donna Haraway e il suo Cyborg Manifesto. La Haraway, pur avendo perso la fede, riconduce le basi della sua teoria dall’educazione cattolica ricevuta, affermando: «Il simbolismo e il sacramentalismo cattolici, le dottrine dell’incarnazione e della transustanziazione hanno profondamente influenzato la mia formazione». Mi vado convincendo – e ho provato a dimostrarlo nel mio libro Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della Rete – che per parlare di internet e della realtà al tempo della Rete non si può che usare un linguaggio teologico.

Chiaramente il sacramento è un segno visibile ed efficiace della grazia: non genera solamente informazione. Ma l’intuizione della Haraway, sebbene opinabile e problematica nei suoi esiti, parte dall’intuizione giusta: 

è il concetto di sacramento che può davvero aiutarci a capire la realtà al tempo dei media digitali. Soprattutto perché non ammette dualismi.

La profetica complessità di Teilhard de Chardin aveva intuito il necessario crollo del dualismo, ad esempio, in un passaggio per certi versi sconcertante de L’energia umana quando afferma:

«Ogni passo avanti realizzato dall’Uomo nella meccanizzazione del Mondo travalica il piano della Materia. Si aggiunge infatti alle nuove possibilità che nascono dai perfezionamenti arrecati alla materia organizzata per determinare nell’individuo un accrescimento dell’energia spirituale».





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