Non ci possono essere molti dubbi:
lo sviluppo sostenibile è una delle ricette più tossiche.
Nicholas Georgescu-Roegen
La decrescita è innanzitutto uno slogan. Uno slogan
per indicare la necessità e l'urgenza di una inversione di tendenza
rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati.
Una inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo
che l'attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile,
ingiusto ed incompatibile con il mantenimento della pace. Esso inoltre
porta con sé, anche all'interno dei paesi ricchi, perdita di autonomia,
alienazione, aumento delle disuguaglianze e dell'insicurezza. La decrescita
non è una ricetta ma semmai un segno, un cartello stradale che
indica un nuovo percorso. Un percorso che ci conduce verso un nuovo immaginario,
un nuovo orizzonte. E' l'orizzonte di un'altra economia: pacifica, sostenibile
e conviviale, in altre parole felice.
La “società della decrescita” presuppone,
come primo passo, la drastica diminuzione degli effetti negativi della
crescita e, come secondo passo, l’attivazione dei circoli virtuosi
legati alla decrescita: ridurre il saccheggio della biosfera non può che
condurci ad un miglior modo di vivere. Questo processo comporta otto
obiettivi interdipendenti, le 8 R: rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare,
rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Tutte
insieme possono portare, nel tempo, ad una decrescita serena, conviviale
e pacifica
Serge Latouche
.
Sostenere la necessità di una decrescita
economica e produttiva, descriverne i vantaggi in termini di felicità individuale,
di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque
e serene tra gli individui e tra i popoli, è un passaggio obbligato
nella costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili
problemi che il sistema economico industriale, fondato sulla crescita
illimitata della produzione di merci, pone all'umanità e a tutte
le specie viventi. Ma è come voler parlare a voce in un ambiente
dove un potente sistema di amplificazione sostiene contemporaneamente
il concetto opposto. Non si viene ascoltati non solo perché si
sostengono posizioni così contro corrente da essere respinte a
priori dai più, ma anche perché non si riesce nemmeno a
far udire la propria voce. È come voler fermare un treno in corsa
contrapponendogli solo la propria forza muscolare.
Ciò nonostante occorre ribadire in tutte le sedi i rapporti
di causa-effetto tra la crescita del p.i.l. e l'esaurimento di risorse
vitali, l'incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento,
la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati,
la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale. Ma l'analisi e la denuncia
non bastano. Occorre contestualmente effettuare nella propria vita scelte
che comportano decrementi, anche infinitesimali, del p.i.l. Innanzitutto
perché se si è convinti che la decrescita sia un elemento
indispensabile per una vita più felice sarebbe sciocco non cominciare
a praticarla subito nella propria. In secondo luogo perché se
le riflessioni sulla necessità della decrescita si sviluppano
da una pratica concreta e sperimentata non sono soltanto speculazioni
teoriche e diventano più credibili. Infine perché i vantaggi
derivanti dalla loro pratica non si limitano all'ambito individuale,
alla costruzione di una nicchia in cui rifugiarsi da un mondo che va
in direzione opposta e difendersi dalle sofferenze che genera, ma acquistano
il valore di una proposta politica. Nella ossessiva ripetitività e
passività dei comportamenti consumisti massificati acquistano
visibilità e luminosità, manifestano i loro vantaggi e,
di conseguenza, possono suscitare ripensamenti: "Se lo stanno facendo
alcuni, per quale motivo non posso farlo anche io?"
Come si può praticare la decrescita nelle proprie
scelte di vita?
Innanzitutto chiarendo a se stessi cosa è e come si realizza la
crescita del p.i.l. A differenza di quanto comunemente si crede, la crescita
del p.i.l. non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico,
ma la crescita delle merci scambiate con denaro. Non sempre le merci
sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione
qualitativa - qualcosa che offre vantaggi - che invece non pertiene al
concetto di merce. Se si fanno le code in automobile aumenta il consumo
della merce carburante, quindi si accresce il p.i.l., ma si ha uno svantaggio,
una disutilità. Viceversa, non necessariamente i beni sono merci,
perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro,
ma per utilizzarla in proprio o per donarla. I prodotti del proprio orto
e del proprio frutteto autoconsumati non sono merci e, pertanto, non
fanno crescere il p.i.l., ma sono qualitativamente superiori agli ortaggi
e alla frutta prodotta industrialmente e comprata al supermercato. La
cura dei propri figli o l'assistenza dei propri vecchi fatta con amore è qualitativamente
molto superiore alla cura che può prestare una persona pagata
per farlo. Ma questa attività prestata in cambio di denaro fa
crescere il p.i.l., l'altra, donata per amore, no.
Fare scelte esistenziali nell'ottica della decrescita significa quindi
ridurre la quantità delle merci nella propria vita.
A tal fine
si possono percorrere due strade:
1. ridurre l'uso di merci che comportano utilità decrescenti e
disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale,
che causano ingiustizie sociali;
2. sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con
beni.
La prima è la strada della sobrietà. La seconda è la
strada dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili, basati sul
dono e la reciprocità.
La sobrietà non è soltanto una virtù di cui il sistema
economico e produttivo basato sulla crescita del p.i.l. ha voluto cancellare
accuratamente ogni traccia perché non se ne serbasse nemmeno la
memoria nel giro di una generazione, ma è, soprattutto una manifestazione
di intelligenza e di autonomia di pensiero.
Chi vive in un appartamento dove in inverno la temperatura è di
22 gradi, indossando una maglietta a maniche corte e quando ha troppo
caldo apre le finestre, è convinto di vivere meglio di una persona
che vive a 18 gradi, con un maglione, e se ha troppo caldo abbassa il
riscaldamento. In realtà è un consumista stupido, che vive
in un modo fisiologicamente innaturale, è più soggetto
ad ammalarsi, contribuisce ad accrescere in misura maggiore le emissioni
di CO2 e, per ottenere questi svantaggi, paga di più. Ma fa crescere
di più il p.i.l.
Chi lavora cinque mesi all'anno per acquistare e mantenere un'automobile
che gli serve ad incolonnarsi ogni giorno lavorativo due volte al giorno
per ore sulle tangenziali nel tragitto casa-lavoro, e ogni giorno festivo
due volte al giorno per un numero maggiore di ore sulle autostrade nel
tragitto casa-località di villeggiatura, è un consumista
stupido, che si costringe a vivere una vita insopportabile e ben più infelice
di una persona che lavora di meno e guadagna di meno, ma proprio per
questo non ha bisogno di soldi da spendere in automobili, benzina, autostrade,
compensazioni illusorie nelle località di vacanza dello stress
accumulato nella settimana lavorativa. Ma fa decrescere il p.i.l.
Chi segue le mode imposte dalla pubblicità, nell'abbigliamento,
nell'alimentazione, nel tempo libero, nelle vacanze, consuma molto di
più di chi non le segue e, quindi fa crescere il p.i.l. acquistando
illusioni scambiate per realtà. Vive in uno stato di ottusità mentale,
di cui i pubblicitari sono ben consci: basta ascoltare i loro messaggi
per capire che escludono a priori le poche persone dotate di autonomia
di pensiero. Tanto questa minoranza non comprerebbe comunque le merci
alla moda pubblicizzate.
La sobrietà nell'acquisto di merci, in funzione di bisogni reali
e non indotti, privilegiando quelle prodotte col minor impatto ambientale,
che provengono da meno lontano e quindi hanno fatto consumare meno fonti
fossili nel trasporto dal produttore al consumatore, che generano pochi
o punti rifiuti, che non costano poco perché hanno sfruttato ignobilmente
la miseria dei lavoratori, che sono fatte per durare o per essere riciclate, è quindi
al contempo una manifestazione d'intelligenza e una virtù. Comporta
una decrescita del consumo di merci e del p.i.l. da cui deriva un miglioramento
della qualità della vita e degli ambienti.
La sobrietà comporta una riduzione della crescita del p.i.l. attraverso
una riduzione del consumo di merci, ma non consente una emancipazione
dalla dipendenza assoluta nei loro confronti. E la sempre maggiore dipendenza
dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore incapacità di
autoprodurre beni. Per aver bisogno di comprare tutto ciò che
serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di
tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare
un consumista senza alternative. La condizione di non saper produrre
nessun bene, o quasi, nei paesi industrializzati è ormai generalizzata.
Oggettivamente costituisce un enorme depauperamento culturale, che invece è stato
proposto e vissuto come un progresso e come un'emancipazione dell'uomo
dai limiti della natura.
Se la crescita del p.i.l. è stata considerata
sinonimo di benessere e la crescita quantitativa delle merci un bene
in sé, la possibilità di acquistarne la maggiore quantità possibile
e, quindi, la sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente, è stata
identificata con un miglioramento della qualità della vita. Nell'arco
di una generazione alcuni beni di uso comune, come lo yogurt, il pane,
la passata di pomodoro, le marmellate, le verdure sottolio e sottaceto,
non si sono più fatti in casa e sono stati sostituiti da prodotti
comprati al supermercato. L'autoproduzione di frutta e verdura è stata
sostituita con prodotti agroalimentari carichi di veleni e senza sapore.
Un processo disastroso in cui si sommano perdita di qualità e
perdita di conoscenze, ma che è stato considerato un progresso
perché ha comportato una crescita quantitativa della produzione
di merci e del p.i.l.
La rivalutazione dell'autoproduzione di beni e
servizi non solo consente di ridurre il consumo di merci e, di conseguenza,
il p.i.l., ma anche di riscoprire un sapere e un saper fare dimenticati,
considerati arretrati e poco scientifici perché non finalizzati ad accrescere le quantità.
Ha quindi una grande valenza culturale, che non si limita a questo recupero
di conoscenze, ma, cosa ancora più importante, libera dalla
dipendenza assoluta dalle merci. Emancipa dalla subordinazione alle leggi
del mercato. Aumenta il prezzo della frutta? E chi se se importa, se
me la produco io. Maggiore è la quantità di beni che si
sanno autoprodurre, meno merci occorre comprare, meno denaro occorre
per vivere. Non si è costretti a incolonnarsi tutti giorni feriali
due volte al giorno sulle tangenziali per andare a guadagnare un salario
con cui comprare tutto ciò che non si sa autoprodurre. Non si
ha bisogno di incolonnarsi tutti i giorni festivi sulle autostrade nell'illusorio
tentativo di recuperare con altro stress lo stress accumulato nella settimana
lavorativa.
La sostituzione delle merci con beni, dell'acquisto con l'autoproduzione,
comporta dunque una decrescita del p.i.l. ma non ristrettezze di approvvigionamento,
sacrifici e rinunce. Ne deriva anzi un sensibile miglioramento della
qualità della vita individuale e delle condizioni ambientali.
La frutta e la verdura autoprodotte non sono nemmeno paragonabili qualitativamente
a quelle prodotte industrialmente. Inoltre, nel loro statuto ontologico
non esiste il carattere della crescita, perché non ha nessun senso
produrne più di quanta se ne consuma e se ne dona. Se se ne producesse
più del fabbisogno si farebbe soltanto una fatica inutile. E se
nel loro statuto ontologico non esiste il carattere della crescita non
esiste nemmeno la necessità delle protesi chimiche per sostenerla
(fitofarmaci, antiparassitari, diserbanti, concimi di sintesi). Non c'è quindi
inquinamento dei suoli, né l'inquinamento dell'aria causato dai
consumi di energia necessari a produrre e trasportare le protesi chimiche.
Non c'è nemmeno l'inquinamento dell'aria causato dal trasporto
dei merci dai produttori ai consumatori. Non ci sono imballaggi né rifiuti
da raccogliere e smaltire. E ognuno di questi vantaggi è un fattore
di decrescita del p.i.l.
Nessuno potrebbe illudersi di autoprodurre tutto ciò che gli serve
per vivere. L'autoproduzione di beni e servizi può essere tuttavia
potenziata da scambi non mercantili fondati sul dono e sulla reciprocità,
che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono anche
a rafforzare i legami sociali. Il dono e la reciprocità, che hanno
sostanziato la vita economica delle società pre-industriali e
nei paesi industrializzati hanno apportato i loro benefici fino agli
anni cinquanta del secolo scorso, non devono essere confusi con i regali
acquistati e donati in un numero di circostanze fittizie crescenti, create
appositamente per potenziare il consumismo, né possono essere
semplicemente ridotti al baratto (scambio di prodotti senza l'intermediazione
del denaro), ma consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di
tempo, di professionalità, di conoscenze, di disponibilità umana.
In tutte le società di tutti i luoghi del mondo in cui si sono
realizzate prima dell'industrializzazione e dell'estensione della mercificazione
a tutte le sfere della vita umana, queste forme di scambio non mediato
dal denaro hanno seguito tre regole, non scritte, ma generalizzate: l'obbligo
di donare, l'obbligo di ricevere, l'obbligo di restituire più di
quello che si è ricevuto. In questo modo si creano legami sociali,
mentre gli scambi mercantili li distruggono.
La parola "comunità",
formata dall'unione delle parole latine cum, che significa "con",
e munus, che significa "dono", indica un'associazione fondata
su scambi non mercantili, sul dono e la reciprocità, su legami
sociali più forti di quelli esclusivamente mercantili che legano
i membri di una società. Maggiore è l'incidenza degli scambi
fondati sul dono e la reciprocità, minori sono gli scambi mercantili.
Per allargare sempre di più la sfera degli scambi mercantili,
la sfera delle merci, e quindi la crescita del p.i.l., la società industriale
ha distrutto progressivamente gli scambi non mercantili, anche all'interno
dei nuclei comunitari più forti, quelli fondati sui vincoli del
sangue. Le famiglie sono state vieppiù ridotte al nucleo ristretto
di genitori e figli e anche nei legami tra genitori e figli i servizi
alla persona fondati sul dono e la reciprocità sono stati progressivamente
sostituiti da prestazioni a pagamento: in particolare la cura dei piccoli
e degli anziani. Rivalutare i legami comunitari nelle famiglie, rompere
i limiti mononucleari in cui la famiglia è stata ristretta, riscoprire
l'importanza dei rapporti di vicinato, costruire gruppi di acquisto solidali
e banche del tempo (sebbene quanta cultura mercantile indotta è insita
nella denominazione di "banca" data ad una forma di legame
sociale che si propone di rompere i limiti della mercificazione nella
fornitura di servizi alla persona!), restituire ai nonni il loro ruolo
educativo e di trasmissione del sapere nei confronti dei nipoti: tutto
ciò comporta una decrescita del p.i.l. attraverso una riduzione
della mercificazione nei rapporti interpersonali e al contempo forti
miglioramenti della qualità della vita.
La sobrietà, l'autoproduzione e gli scambi non mercantili non
possono comunque abolire la dimensione mercantile, né sarebbe
auspicabile che ciò avvenisse, perché alcuni beni e servizi
possono solo essere acquistati e la loro privazione peggiorerebbe le
condizioni di vita. Ma possono contribuire a ridurla in maniera determinante,
riportandola alle sue dimensioni fisiologiche.
Ma quanto e cosa
si può, o conviene, autoprodurre?
Dipende da
dove si vive, dal tipo di lavoro salariato che si fa, dalla fascia d'età,
dalle caratteristiche della propria famiglia, dalla sofferenza (culturale,
psicologica, esistenziale) che si prova a rimanere rinchiusi nella sola
dimensione mercantile. Ognuno troverà la dimensione ottimale per
sé, iniziando da poco e da ciò che gli sembra più facile
o più vantaggioso, per estendere progressivamente, se lo riterrà opportuno,
la sfera dell'autoproduzione e degli scambi non mercantili. Ma come si
possono recuperare forme di sapere e saper fare che sono state cancellate
dalla memoria collettiva? In realtà, come tutti i tentativi di
uniformazione, anche questo non è riuscito del tutto. Qua e là sono
rimaste nicchie di resistenza, che negli ultimi tempi hanno acquistato
nuovi adepti. Come nei monasteri del primo e del secondo millennio sono
stati conservati patrimoni di conoscenze che altrimenti sarebbero andate
perdute, il sapere e il saper fare che liberano dalla dipendenza assoluta
dalle merci sono stati conservati in pochi luoghi da poche persone, che
le hanno anche implementati con una maggiore consapevolezza scientifica.
Un movimento che si proponga l'obbiettivo di riconquistare equilibri
sconvolti dal meccanismo della crescita economica e che persegua la decrescita
come pre-requisito di questa riconquista, non può che proporsi
di mettere in rete questi luoghi dove l'autoproduzione dei beni ha ancora
un ruolo centrale.
Rimettere in circolo questo sapere e questo saper
fare, può costituire un'alternativa alla mercificazione totale
che caratterizza la società della crescita.
Il primo passo in questa direzione è una mappatura di questi luoghi,
mettendo in evidenza le forme di autoproduzione che vi sono praticate
per soddisfare una parte del fabbisogno di chi li abita. La reciproca
conoscenza può attivare scambi di conoscenze che consentono di
ampliare la gamma di beni autoprodotti in ogni realtà, con benefici
effetti, quantitativi e qualitativi, sul processo della decrescita. La
mappatura di questi luoghi consentirà anche a chi vuole cominciare
a introdurre nella sua vita elementi di autoproduzione per sottrarsi
al meccanismo totalizzante del mercato, di sapere dove andare per imparare
a fare i primi passi in questa direzione o a implementare le proprie
conoscenze per arricchire la gamma dei beni con cui sostituire in misura
sempre maggiore le merci che acquista. I luoghi in cui si praticano forme
di autoproduzione sono numerosi. La varietà dei beni che si autoproducono
più ampia di quanto s'immagini. Il bisogno di liberarsi dalla
mercificazione assoluta spesso rimane mortificato dal non sapere come
fare. Può mettersi in moto un processo moltiplicatore con effetti
significativi sulla decrescita del p.i.l. e, forse, anche sulla felicità individuale
di molte persone. Non è forse questo il significato più profondo
della politica?
Maurizio Pallante
www.decrescita.it |